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Progresso di Lettura:
SERVIZIO NEL SANTUARIO
PREFAZIONE
Per più di un millennio la presenza di Dio sulla terra è stata associata al santuario d’Israele. Fu subito dopo l’esodo che Dio comandò a Mosè: “Mi facciano un santuario, perché io abiti in mezzo a loro” {Esodo 25: 8}.
Questo santuario, chiamato anche tabernacolo, e poi sostituito dal tempio, era la dimora di Dio tra gli uomini. “Là io mi incontrerò coi figli d’Israele; e la tenda sarà santificata dalla mia gloria. Così santificherò la tenda di convegno e l’altare; santificherò pure Aaronne e i suoi figli, perché mi servano come sacerdoti. Dimorerò in mezzo ai figli d’Israele e sarò il loro Dio” {Esodo 29: 43-45}.
Dal tempo di Mosè fino al tempo di Cristo, Dio si rivelò nel santuario, e là
comunicava con il Suo popolo. Dio disse: “Là io ti incontrerò, e da sopra il propiziatorio, fra i due cherubini che sono sull’arca della testimonianza, ti comunicherò tutti gli ordini che avrò da darti per i Figli d’Israele” {Esodo 25: 22}. Oltre a questo, Dio parlò anche con Mosè “all’ingresso della tenda di convegno, davanti all’Eterno, dove io vi incontrerò per parlarti” {Esodo 29: 42}.
In quanto dimora di Dio, tra gli uomini, il santuario deve essere sempre di profondo e duraturo interesse per i credenti figli di Dio. Quando, inoltre, comprendiamo che il tabernacolo e i suoi servizi erano simboli “del vero tabernacolo, che ha eretto il Signore e non un uomo” {Ebrei 8: 2}, “un tabernacolo più grande e più perfetto non fatto da mano d’uomo” {Ebrei 9: 11}, di cui Cristo è “ministro del santuario” in cielo. Quando comprenderemo che anche i servizi del tabernacolo sulla terra erano simboli del più alto servizio celeste, e che l’intero rituale e tutti i sacrifici sugli altari terreni indicavano il vero Agnello di Dio {Giovanni 1: 29}, allora il santuario diventerà ancora più importante. In esso viene prefigurato il Vangelo e alcune cose molto profonde che Dio ci ha voluto rivelare.
I cristiani farebbero bene a studiare più diligentemente il santuario e i suoi servizi. Essi contengono preziose lezioni per lo studente zelante. Troppe persone hanno dato poca importanza allo studio del ministero sacerdotale di Cristo e al Suo sedersi alla destra di Dio. Essi non lo conoscono come Sommo Sacerdote, sebbene quest’opera sia l’essenza stessa del cristianesimo e il centro dell’espiazione.
La speranza e la preghiera dell’autore è che questo libro possa condurre molti ad un più profondo apprezzamento di Cristo come Sommo Sacerdote, Salvatore e Redentore, e che possano, attraverso la via recente e vivente che Egli ha consacrato per loro {Ebrei 10: 19-20}, entrare con Lui nei luoghi santi del Santuario Celeste.
La prima immagine che abbiamo di Dio, dopo la caduta dell’uomo nel peccato, è quella di Lui che cammina nel giardino chiamando Adamo e chiedendogli: “Dove sei?” {Genesi 3: 9}. Questa immagine è sia bella che significativa. L’uomo ha peccato disobbedendo al chiaro comandamento di Dio, ma il Signore non lo abbandona. Va alla ricerca di Adamo e gli chiede: “Dove sei?”. Queste sono le prime parole di Dio ad essere state registrate dopo la caduta dell’uomo.
Non è di poca importanza il fatto che ci venga fatto conoscere Dio in questo modo. Viene ritratto mentre cerca Adamo, un peccatore che si nasconde da Lui. È un’immagine simile a quella della parabola del figliol prodigo. Giorno dopo giorno il padre cercava il figlio che se ne era andato via di casa, e “mentre era ancora lontano, suo padre lo vide e ne ebbe compassione; corse, gli si gettò al collo e lo baciò” {Luca 15: 20}. È un’immagine molto simile anche a quella del pastore che “si rallegrerà più di questa che delle novantanove che non si erano smarrite” {Matteo 18: 13}.
Adamo non comprendeva pienamente la gravità del suo peccato e neanche le conseguenze della sua disobbedienza. Dio gli aveva detto di non mangiare dall’albero della conoscenza del bene e del male, perché “nel giorno che tu ne mangerai, per certo morrai” {Genesi 2: 17}. Ma Adamo non aveva mai visto la morte e non capiva chiaramente in cosa consistesse. Quando vide il primo agnello sacrificale giacere immobile davanti a lui, da cui sgorgava sangue {Genesi 3: 21}, improvvisamente la morte assunse un significato nuovo e più profondo. Cominciò a capire che la sua salvezza era in qualche modo connessa alla morte di quell’agnello, che se l’agnello non fosse morto al posto suo, lui sarebbe dovuto morire, sarebbe stato perduto e non avrebbe avuto alcuna speranza per il futuro. Doveva la sua vita alla morte dell’agnello e, attraverso la misericordia che gli fu concessa, vide per fede nell’agnello che giaceva morto ai suoi piedi un simbolo “dell’Agnello, che è stato ucciso fin dalla fondazione del mondo” {Apocalisse 13: 8}.
Grande deve essere stato il rimorso di Adamo quando vide tutte le conseguenze del suo peccato. Colui con cui aveva parlato e comunicato nel giardino alla fine doveva morire a causa della sua trasgressione? Questo era troppo. Possiamo facilmente credere che Adamo tentò di offrire la sua vita in sacrificio piuttosto che il Figlio di Dio morisse. Ma né gli uomini né gli angeli potevano risolvere il problema del peccato. Solo Colui che era nel seno del Padre, che era uguale a Dio, che era Dio, poteva compiere l’espiazione. Agli angeli poteva essere assegnata una certa opera da svolgere nel piano della redenzione per l’uomo; all’uomo stesso poteva essere concesso il privilegio di cooperare; ma c’era Uno solo che poteva provvedere alla redenzione. Il Suo nome sarebbe stato Gesù {Matteo 1: 21}.
“Nel giorno che tu ne mangerai, per certo morrai” {Genesi 2: 17}. Questo era ciò che Dio aveva detto. L’evidente significato di queste parole è che Adamo sarebbe morto nel giorno in cui avrebbe peccato. Alcuni preferiscono tradurlo con: “morendo morirai”, nel senso che non che sarebbero morti quel giorno, ma che la morte avrebbe cominciato a lavorare in loro fine a quando sarebbero morti. Questo, tuttavia, non è né ciò che dice il versetto né tantomeno il significato di queste parole. Non stiamo negando che Adamo iniziò a morire quel giorno. Lo ha fatto, e in un modo molto reale. Ma è molto pericoloso per qualcuno che crede nell’ispirata Parola di Dio sostenere che Dio non intendeva proprio ciò che ha detto, soprattutto in considerazione del fatto che il serpente ha fatto un’accusa simile {Genesi 3: 1-4}.
Ma non è forse un fatto storico che Adamo non morì quel giorno, ma visse per molte centinaia di anni? Allora, come possiamo spiegare la dichiarazione di Dio? Attraverso il semplice fatto che non appena Adamo peccò, Cristo si mise a sedere alla breccia, prese il posto di Adamo e promise di morire per lui, al suo posto. Infatti, crediamo che Adamo sarebbe morto proprio quel giorno se Cristo non fosse diventato il secondo Adamo, se non avesse preso su di Sé il peso del peccato e della sua colpa e se non avesse promesso di dare la Sua vita per la vita del mondo. Ciò sarebbe in armonia con il patto eterno del piano di salvezza stabilito nell’eternità {Zaccaria 6: 13}, e renderebbe chiara l’affermazione che Cristo è “l’Agnello, che è stato ucciso fin dalla fondazione del mondo” {Apocalisse 13: 8}.
Abiti di pelle
Per imprimere ancor più pienamente nella mente di Adamo ed Eva la natura del peccato e le conseguenze della trasgressione, nonché per dimostrare il Suo amore per loro, Dio li rivestì con la pelle degli animali sacrificati {Genesi 3: 21}. Queste vesti divennero così un continuo promemoria dei loro peccati e soprattutto di Colui che era morto per loro, il cui amore li avrebbe salvati. Le vesti erano un simbolo della salvezza.
Che Dio faccia degli abiti di pelle per i Suoi figli che stanno per essere allontanati dalla loro casa, rivela sia la Sua severità che il Suo amore; severità, nel mandarli via; gentilezza amorevole, nel provvedere e prendersi cura di loro anche se hanno peccato. Come una madre che avvolge con indumenti caldi, proteggendo i suoi piccoli prima di mandarli fuori, in contatto con il vento pungente, così Dio ha vestito amorevolmente i Suoi due figli prima di mandarli via. In questo modo, essi avrebbero dovuto portare con sé i segni del Suo amore, prova che Dio si prendeva ancora cura di loro. Non dovevano essere lasciati soli a lottare senza speranza e senza la rassicurante certezza dell’amore di Dio.
Adamo lascia l’Eden
Deve essere stato con un indicibile dolore che Adamo ed Eva lasciarono la loro casa nell’Eden. Qui avevano vissuto nell’amore e nella pace, avevano conversato con gli angeli e avevano comunicato con Dio. Spesso avevano sentito i suoi passi nel giardino, gli erano corsi incontro. Avevano parlato con Lui faccia a faccia. Avevano assaporato le meraviglie del mondo a venire, si erano uniti al coro celeste per dare lode a Dio e avevano avuto parte dell’adorazione a Dio durante le sacre ore del Sabato.
Ma ora erano fuori. Non avrebbero più camminato con Dio e gli angeli. Gli angeli, che si erano dilettati nel servirli, ora chiusero il loro accesso all’albero della vita {Genesi 3: 24}. Il futuro sembrava oscuro. Avrebbero dovuto combattere con spine e rovi, e alla fine li attendeva la morte. Stavano imparando ciò che imparano tutti i peccatori: che la via del trasgressore è terribile. Stavano imparando che il loro pentimento non diminuiva in alcun modo le conseguenze temporali della trasgressione. I comandamenti di Dio non possono essere disprezzati senza che ci siano delle conseguenze, perciò, la sicurezza dell’universo esige che la dignità della legge sia mantenuta tale anche se fosse stata manifestata misericordia.
Se riusciamo a vedere Adamo ed Eva con il capo chino e il cuore a pezzi che lasciano la loro casa, che diremo di Dio! Lui li aveva creati. Fece dei piani d’amore per loro. Si rallegrò di canti per loro. Il futuro di Adamo ed Eva era luminoso e pieno di speranza. Ma ora tutto sembrava perduto.
La disobbedienza fu la causa di tutta la miseria di questo mondo. Avevano abbandonato Dio e scelto un altro padrone. Avevano mangiato il frutto proibito. “E l’Eterno Dio disse: «Ecco, l’uomo è divenuto come uno di noi, perché conosce il bene e il male. Ed ora non bisogna permettergli di stendere la sua mano per prendere anche dell’albero della vita perché mangiandone, viva per sempre». Perciò l’Eterno Dio mandò via l’uomo dal giardino di Eden perché lavorasse la terra da cui era stato tratto. Così egli scacciò l’uomo” {Genesi 3: 22-24}.
Come deve aver addolorato il cuore di Dio scacciare Adamo. “Mirate e guardate, se c’è dolore simile al mio dolore” {Lamentazioni 1: 12} potrebbe benissimo applicarsi a questa occasione. L’uomo era fuori da solo, come Dio era da solo dentro al giardino. Anche se non parliamo della solitudine di Dio in termini di umanità, possiamo ben credere che il Creatore dei cieli e della terra abbia sentito una grande perdita mentre i due peccatori hanno lentamente lasciato il loro ambiente familiare e la via è stata chiusa dietro di loro. Il dolore, non l’ira, riempì il cuore di Dio, e con “passi pesanti” – parliamo alla maniera degli uomini – tornò da solo nel giardino. Se pensiamo di Dio che abbia avuto parte delle nostre stesse emozioni, a meno che non Lo concepiamo come completamente diverso da noi, allora dobbiamo credere che Lui abbia provato un dolore che supera ogni immaginazione umana.
“Così egli scacciò l’uomo” {Genesi 3: 24}. Guardando attraverso i secoli, Dio vide quanto sarebbe costata la salvezza. Vide la lunga strada che l’uomo avrebbe percorso, e vide la strada ancora più lunga che il Figlio avrebbe dovuto percorrere per salvare l’umanità. Vide gli uomini rifiutare i messaggeri che sarebbero stati inviati. Li vide sputare addosso a Suo Figlio, flagellarlo, insultarlo, schernirlo e infine conficcare i chiodi nelle Sue mani e nei Suoi piedi. Vide il Getsemani e poté perfino udire il grido straziante del Golgota mentre il Figlio angosciato e disperato gridava: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?” {Matteo 27: 46}.
Ma non c’era altro modo. Per quanto fosse difficile mandare via Adamo, per quanto fosse difficile dare Suo Figlio, non dovevano esserci esitazioni. Il peccato era entrato: un terribile peccato che alla fine avrebbe inchiodato il Figlio di Dio sulla crudele croce e non ci sarebbe potuto essere alcun compromesso. Era in gioco la sicurezza dell’intero Universo. Dio stava già passando attraverso un Getsemani che sarebbe durato finché fosse esistito il peccato. Non poteva essere concessa alcuna esitazione. Dio avrebbe salvato l’uomo, qualsiasi fosse stato il prezzo da pagare.
La prima promessa di Dio
Sebbene il peccato avesse creato una barriera tra Dio e l’uomo {Isaia 59: 2} e avesse reso necessario cacciare Adamo dall’Eden, Dio non lo lasciò in una condizione di disperazione. La prima promessa pronunciata da Dio fu per incoraggiarlo e aiutarlo. Sarebbe venuto Qualcuno che avrebbe schiacciato la testa del serpente e distrutto il nemico che aveva condotto l’uomo al peccato e che stava progettando ancora più male. Dio disse: “io porrò inimicizia fra te e la donna e fra il tuo seme e il seme di lei; esso ti schiaccerà il capo, e tu ferirai il suo calcagno” {Genesi 3: 15}. Una parafrasi di questo testo, senza violarne il significato, potrebbe essere: “io metterò nel tuo cuore odio per il peccato”. Questa era una promessa di aiuto presente per Adamo. Dio lo avrebbe aiutato a resistere e a vincere il peccato ponendo nel suo cuore inimicizia nei confronti del peccato.
L’odio del peccato è di vitale importanza per la salvezza. Umanamente parlando, nessun uomo è al sicuro finché non ha imparato a odiare il peccato così profondamente come lo amava un tempo. L’uomo può resistere al peccato. Può anche fuggire da esso, ma finché prova un persistente amore per il peccato nel cuore, non è su un terreno sicuro. Come l’amore per il bene è vitale, così lo è anche l’odio per il male. Si può veramente dire che la nostra capacità di amare il bene è misurata ed equilibrata dalla nostra capacità di odiare il male.
Di Cristo ci viene detto: “hai amato la giustizia e odiato l’iniquità; perciò Dio, il tuo Dio, ti ha unto con olio di letizia al di sopra dei tuoi compagni” {Ebrei 1: 9}. In Cristo, l’amore per la giustizia era accompagnato dall’odio per il male. Proprio grazie a questi due attributi, Egli fu unto per il compimento della Sua opera.
Questa combinazione di amore e odio deve essere presente in ogni cristiano. Essi sono fondamentali nel cristianesimo. È molto significativo che la prima promessa di un Salvatore nella Bibbia sia associata alla promessa dell’aiuto di Dio di vincere il peccato, conferendo all’uomo la capacità di odiare il male. Questo odio è un potente fattore nella nostra lotta contro il male e la nostra eventuale vittoria su di esso. Se non fosse per il fatto che Dio instilla nel cuore di ogni cristiano l’odio per il male e l’amore per ciò che è giusto, ci sarebbero poche speranze per noi.
Questo principio è illustrato con forza nella storia di Caino e Abele. Caino era molto irritato e il suo volto era abbattuto {Genesi 4: 5}. Aveva un sentimento omicida nel cuore ed era pronto a uccidere suo fratello. Ma Dio è intervenuto, ha mandato un avvertimento e ha cercato di prevenire questo male. “Se fai bene non sarai tu accettato? Ma se fai male, il peccato sta spiandoti alla porta e i suoi desideri sono volti a te; ma tu lo devi dominare” {Genesi 4: 7}.
L’espressione “il peccato sta spiandoti alla porta” è molto significativa. Il peccato è paragonato a una bestia selvatica pronta a balzare sull’uomo che gli concede un’opportunità. Con misericordia Dio avverte Caino che “il peccato sta spiandoti alla porta… ma tu lo devi dominare”. Caino non doveva disperarsi; se avesse voluto non ne sarebbe uscito sconfitto. “Ma tu lo devi dominare”, sono le parole di Dio. Questa è più di una dichiarazione; è una promessa. L’uomo non deve necessariamente essere vinto. In Dio c’è speranza e aiuto. Il peccato non deve avere dominio su di noi. Noi dobbiamo dominarlo.
Dio ha concepito un piano
L’intenzione di Dio, in origine, era che l’uomo avesse libera comunione con il suo Creatore. Questo era ciò che tentò di realizzare nel Giardino dell’Eden. Ma il peccato ha ostacolato il disegno originale di Dio. L’uomo peccò e Dio lo mandò fuori dal giardino. Ora l’uomo si era separato da Dio e d’ora in poi il dolore sarebbe stato il suo destino.
Ma Dio concepì un piano attraverso il quale Egli stesso e il Suo popolo potessero essere di nuovo uniti. Se non potevano più vivere in Paradiso, dove potevano godere di una diretta comunione con Lui? Fu così che, nella pienezza dei tempi, Dio mandò una parola al Suo popolo: “mi facciano un santuario, perché io abiti in mezzo a loro” {Esodo 25: 8}. Quale amore meraviglioso! Dio non poteva sopportare di essere separato dai Suoi, e così il Suo amore escogitò un piano per vivere in mezzo a loro! Sarebbe andato con il Suo popolo, nei loro viaggi avanti e indietro nel deserto, e alla fine li avrebbe condotti nella Terra Promessa. Dio sarebbe stato di nuovo con il Suo popolo. È vero, ora di mezzo c’è un muro di separazione. Dio abita nel Santuario e l’uomo non può avvicinarsi a Lui direttamente. Ma Dio è tanto vicino quanto lo permette il peccato. Egli è “in mezzo” al Suo popolo.
Nel Nuovo Testamento ci viene detto: “sarà chiamato Emmanuele che, interpretato, vuol dire: «Dio con noi»” {Matteo 1: 23}. L’ideale cristiano è la comunione con Dio, l’unità con Lui, nessuna separazione. “Enok camminò con Dio” {Genesi 5: 24}. Mosè parlò con Lui faccia a faccia {Esodo 33: 11}. Ma Israele non era ancora pronto per fare un’esperienza del genere. Avevano bisogno di ricevere lezioni di riverenza e santità. Avevano bisogno di imparare che senza la santità nessun uomo può vedere Dio {Ebrei 12: 14}. Fu per insegnargli questa lezione che Dio comandò loro di farne un santuario affinché potesse abitare in mezzo a loro.
Il fallimento di Israele
Prima che Dio chiedesse loro di costruire il santuario, Egli proclamò loro i Dieci Comandamenti {Esodo 20}. Diede loro la Sua legge affinché sapessero cosa era loro richiesto. Si fermarono davanti al monte che ardeva di fuoco. Udirono i tuoni e videro i lampi, e come il Signore cominciò a parlare, “tutto il monte tremava forte”, e anche il popolo tremò {Esodo 19: 16-18}. La manifestazione fu così impressionante, e “tanto spaventevole era ciò che si vedeva che Mosè disse: «Io sono tutto spaventato e tremante»”, che il popolo chiese che “non fosse più rivolta loro alcuna parola” {Ebrei 12: 21, 19}. Il popolo, tuttavia, non poteva che vedere e riconoscere la giustizia dei comandamenti del Signore, e sia prima che dopo la proclamazione della legge, il popolo rispose: “noi faremo tutto ciò che l’Eterno ha detto, e ubbidiremo” {Esodo 24: 7; Esodo 19: 8; Esodo 24: 3}.
Il popolo deve essersi reso conto così poco della loro incapacità di fare ciò che avevano promesso, altrimenti non avrebbero mai intrapreso un’impresa così difficile: osservare tutto ciò che Dio aveva loro comandato. Per l’esperienza passata avrebbero potuto sapere che senza l’aiuto divino non avrebbero mai potuto osservare la legge. Eppure hanno promesso di farlo; sebbene non molti giorni dopo iniziarono a danzare intorno al vitello d’oro. Loro avevano promesso di osservare la legge; la legge proibiva di adorare gli idoli e di danzare, ed ecco che ora stavano adorando uno dei loro più vecchi idoli! Con l’adorazione del vitello d’oro hanno dato una dimostrazione della loro incapacità di fare ciò che avevano promesso. Avevano infranto la legge che avevano promesso di osservare, e ora, quella stessa legge, li condannava. Li ha lasciati senza speranza e scoraggiati. Dio aveva uno scopo nel permettere tutto questo. Voleva che Israele capisse che in sé stesso non c’era alcuna speranza possibile di riuscire ad osservare la legge di Dio. Eppure l’osservanza dei comandamenti era necessaria per la santità, e senza santità nessun uomo può vedere Dio. Questo li ha portati faccia a faccia con la disperazione della loro stessa condizione. La legge che fu loro data per tutta la vita, non fece altro che portare solo condanna e morte. Senza Dio erano senza speranza.
Una via di fuga
Dio non li ha lasciati in questa condizione. Proprio come nel giardino dell’Eden, l’agnello immolato prefigurava Cristo, così ora, attraverso i sacrifici e il ministero del sangue, Dio insegnò loro che aveva provveduto una via di fuga. Abramo lo capì quando il montone catturato nella boscaglia fu sacrificato al posto del figlio. Senza dubbio non aveva compreso appieno il significato della propria risposta quando Isacco gli chiese: “ecco il fuoco e la legna; ma dov’è l’agnello per l’olocausto?” {Genesi 22: 7}. A questo Abramo aveva risposto: “figlio mio, Dio provvederà egli stesso l’agnello per l’olocausto” {Genesi 22: 8}. Quando il coltello fu sollevato, Dio disse: “non stendere la tua mano contro il ragazzo e non gli fare alcun male” {Genesi 22: 12}. Mentre Abramo si guardava intorno, vide un ariete impigliato in un cespuglio, “così Abrahamo andò, prese il montone e l’offerse in olocausto invece di suo figlio” {Genesi 22: 13}. Per questo motivo Cristo disse: “Abrahamo, vostro padre, giubilò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e se ne rallegrò” {Giovanni 8: 56}. Nel montone catturato nella boscaglia, che morì al posto di suo figlio, Abramo vide Cristo. Si rallegrava ed era contento.
La lezione che Abramo aveva appreso, Dio la stava ora per insegnare ad Israele. Attraverso l’agnello immolato, la giovenca, il montone, il capro, le tortore, i piccioni; mediante l’aspersione del sangue sull’altare degli olocausti, sull’altare dell’incenso, sul velo e sull’arca; attraverso l’insegnamento e la mediazione del sacerdozio, Israele doveva imparare ad avvicinarsi a Dio. Non dovevano essere lasciati senza speranza mentre affrontavano la condanna della santa legge di Dio. Dio aveva provveduto una via di fuga. L’Agnello di Dio sarebbe morto per loro. Attraverso la fede nel Suo sangue sarebbero potuti entrare in comunione con Dio. Per la mediazione del sacerdote potevano entrare indirettamente nel santuario, e potevano, nella persona del sommo sacerdote, apparire anche nella camera d’udienza dell’Altissimo. Per i fedeli in Israele questo prefigurava il tempo in cui il popolo di Dio sarebbe potuto liberamente “entrare nel santuario, in virtù del sangue di Gesù” {Ebrei 10: 19}.
Dio ha voluto insegnare tutto questo a Israele attraverso il sistema dei sacrifici. Per loro questa era la via della salvezza. Ha dato loro speranza e incoraggiamento. Sebbene la legge di Dio, i dieci comandamenti, li condannassero a causa dei loro peccati, il fatto che l’Agnello di Dio fosse morto per loro gli diede speranza. Il sistema sacrificale costituiva il Vangelo per Israele. Indicava la via della comunione con Dio.
Ci sono professi cristiani che non vedono molta importanza o non danno molto valore ai servizi cerimoniali del tempio ordinati da Dio; tuttavia il piano evangelico di salvezza rivelato nel Nuovo Testamento è reso più chiaro dalla comprensione dell’Antico Testamento. Infatti, si può tranquillamente affermare che chi comprende il sistema levitico dell’Antico Testamento può comprendere e apprezzare molto meglio il Nuovo Testamento. Il primo prefigura il secondo e ne è un “tipo”.
Il peccato significa morte
La prima lezione che Dio voleva insegnare a Israele attraverso il sistema sacrificale era che il peccato significa morte. Costantemente questa lezione è stata impressa nei loro cuori. Ogni mattina e ogni sera durante tutto l’anno veniva offerto un agnello per la nazione. Giorno dopo giorno il popolo portava nel santuario i suoi sacrifici per il peccato, gli olocausti. In ogni caso un animale veniva ucciso e il sangue veniva asperso in un luogo stabilito. In ogni cerimonia e in ogni servizio era impressa la lezione che il peccato significa morte.
Questa lezione è necessaria tanto ai nostri tempi quanto lo era ai tempi antichi. Alcuni cristiani considerano il peccato troppo alla leggera. Lo considerano come se fosse una fase passeggera della vita. Altri considerano il peccato come qualcosa di deplorevole ma dal quale non puoi scappare. Essi hanno bisogno di imprimere indelebilmente nella loro mente l’importante lezione che il peccato significa morte. Mentre il Nuovo Testamento afferma che “il salario del peccato è la morte” {Romani 6: 23}, molti non riescono a cogliere l’importanza di questa affermazione. Una concezione più viva del peccato e della morte come inseparabilmente connessi aiuterà molto ad apprezzare e comprendere il Vangelo.
Un’altra lezione che Dio ha voluto imprimere nella mente di Israele era che il perdono dei peccati può essere ottenuto solo attraverso la confessione e l’opera di intercessione per il peccato. Ciò serviva ad impressionare profondamente Israele riguardo al costo del perdono. Il perdono dei peccati è qualcosa di più del semplice non considerare più le colpe. Perdonare costa qualcosa, costa una vita, la vita del Figlio di Dio.
Questa lezione è importante anche per noi. Per alcuni la morte di Cristo sembra superflua. Queste persone pensano che Dio potrebbe, o dovrebbe, perdonare senza il Calvario. Per loro la croce non sembra una parte integrante e vitale dell’espiazione. Sarebbe bene se i cristiani di oggi contemplassero più di quanto non facciano il costo della loro salvezza. Il perdono non è una cosa semplice. Esso ha un costo. Attraverso il sistema cerimoniale Dio insegnò a Israele che il perdono può essere ottenuto solo attraverso lo spargimento di sangue. Abbiamo bisogno di quella stessa lezione anche ora.
Uno studio dei rituali dell’Antico Testamento, che permettevano l’avvicinamento a Dio, porterà una ricca ricompensa. Nel sistema sacrificale si trovano i principi fondamentali della pietà e della santità, che trovano in Cristo il loro completo adempimento. Poiché alcuni non hanno imparato queste lezioni fondamentali, sono incapaci e impreparati nel comprendere quelle cose più profonde preparate da Dio per loro. L’Antico Testamento è fondamentale. Chi vi è completamente radicato potrà costruire una casa che non cadrà quando verranno le piogge e soffieranno i venti. Sarà edificato “sul fondamento degli apostoli e dei profeti, essendo Gesù Cristo stesso la pietra angolare” {Efesini 2: 20}.
Non passò molto tempo dopo l’emanazione della legge sul monte Sinai che il Signore disse a Mosè: “di’ ai figli d’Israele che mi facciano un’offerta; accetterete l’offerta da ogni uomo che la fa spinto dal proprio cuore. E questa è l’offerta che accetterete da loro: oro, argento e bronzo; stoffe di colore violaceo, porporino, scarlatto; lino fino e pelo di capra; pelli di montone tinte in rosso, pelli di tasso e legno di acacia; olio per la luce del candelabro, aromi per l’olio della unzione e per l’incenso profumato; pietre di onice e pietre da incastonare per l’efod e il pettorale {Esodo 25: 2-7}. Tutto questo doveva essere utilizzato principalmente nella costruzione del santuario, ma anche per le vesti del sacerdozio e per il mantenimento del servizio cerimoniale in generale.
L’edificio vero e proprio
Il santuario qui menzionato era solitamente chiamato “tabernacolo”. Era una tenda con pareti di legno, il tetto costituito da quattro strati di materiale, l’interno di lino fine e l’esterno di “pelli di montone tinte di rosso, e sopra questa un’altra copertura di pelli di tasso” {Esodo 26: 14}. L’edificio in sé non era molto grande; era circa sei metri per diciotto, situato all’interno di un recinto chiamato cortile, che era largo circa trentatré metri e lungo sessantasei.
Il tabernacolo era costruito in modo tale da poter essere smontato e spostato facilmente. Le assi non erano inchiodate insieme come in una struttura ordinaria, ma erano separate tra di loro stando su un supporto d’argento {Esodo 36: 20-34}. Le tende che circondavano il cortile erano attaccate a pilastri incastonati su basi di bronzo {Esodo 38: 9-20}. Anche gli utensili erano fatti in modo tale da poter essere facilmente trasportati da un luogo all’altro durante i loro viaggi nel deserto. L’intera costruzione del tabernacolo, sebbene fosse bella e persino sfarzosa nella forma, mostrava la sua natura temporanea. Doveva servire solo fino al momento in cui Israele si fosse stabilito nella terra promessa e non fosse stato possibile erigere un edificio più stabile e permanente.
L’edificio era diviso in due stanze o compartimenti: il primo, il più grande, detto “luogo santo”; il secondo detto “luogo santissimo”. Davanti al primo compartimento pendeva una tenda, o velo, e un altro velo divideva il luogo santo da quello santissimo. Quest’ultimo velo veniva rimosso solo una volta ogni anno e un altro velo veniva appeso al suo posto. Non c’erano finestre nell’edificio. Per questo motivo nel primo compartimento c’erano le lampade del candelabro a sette bracci che davano luce sufficiente ai sacerdoti per svolgere il servizio quotidiano richiesto dal rito.
I due compartimenti
Nel primo compartimento c’erano tre oggetti: la tavola dei pani di presentazione, il candelabro d’oro e l’altare degli incensi. Entrando nella stanza dall’entrata dell’edificio, che si trovava ad est, si vedeva in fondo alla stanza l’altare dell’incenso. A destra c’era la tavola dei pani di presentazione e a sinistra il candelabro. Sulla tavola venivano disposte su due pile, un totale di dodici pani di presentazione, insieme all’incenso e alle brocche per la libazione. Su di esso c’erano anche i piatti, i cucchiai e le ciotole usati nel servizio quotidiano {Esodo 37: 16}. Il candelabro era d’oro puro. Aveva sei braccia, tre su ciascun lato rispetto a quello centrale. Le ciotole contenenti l’olio avevano la forma di mandorle {Esodo 37: 19}. Non solo il candeliere era d’oro, ma anche i suoi smoccolatoi e i suoi portasmoccolature {Esodo 37: 23}.
L’elemento più importante di questo compartimento era l’altare dell’incenso. Era alto circa un metro e venti centimetri e largo circa sessanta centimetri. Questo altare era ricoperto d’oro puro e intorno alla parte superiore c’era una corona d’oro.
Su questo altare il sacerdote durante servizio quotidiano poneva i carboni, del fuoco prelevato dall’altare degli olocausti, e l’incenso. Mentre metteva l’incenso sui carboni dell’altare, il fumo saliva e poiché il velo che divideva il “luogo santo” da quello “santissimo” non si estendeva fino al soffitto dell’edificio, l’incenso riempiva non solo il “luogo santo”, ma anche il “luogo santissimo”. In tal modo l’altare dell’incenso, pur collocato nel primo compartimento, serviva anche per il secondo. Per questo fu posto “davanti al velo che è davanti all’arca della testimonianza, di fronte al propiziatorio che sta sopra la testimonianza, dove io ti incontrerò” {Esodo 30: 6}.
Nel secondo compartimento, detto il “luogo santissimo”, c’era un solo oggetto: l’arca del patto. Questa arca era fatta a forma di cassa, lunga circa un metro e cinquanta centimetri e larga novanta centimetri. Il coperchio di questa cassa era chiamato “propiziatorio della misericordia”. Intorno alla sommità del “propiziatorio della misericordia” c’era una corona d’oro, simile a quella sull’altare degli incensi. In questa cassa Mosè depose i dieci comandamenti, scritti con il dito stesso di Dio su due tavole di pietra {Deuteronomio 10: 4-5}. Per un certo tempo l’arca contenette anche il vaso d’oro con all’interno la manna e la verga di Aaronne che era fiorita {Ebrei 9: 4}. Sul “propiziatorio della misericordia” c’erano due cherubini d’oro, di un sol pezzo, un cherubino a un’estremità e l’altro cherubino dall’altra parte {Esodo 25: 19}. Di questi cherubini ci viene detto: “avranno le ali spiegate in alto, in modo da coprire il propiziatorio con le loro ali; saranno rivolti l’uno verso l’altro, mentre le facce dei cherubini saranno volte verso il propiziatorio” {Esodo 25: 20}. Qui Dio sarebbe entrato in comunione con il Suo popolo. A Mosè disse: “Là io ti incontrerò, e da sopra il propiziatorio, fra i due cherubini che sono sull’arca della testimonianza, ti comunicherò tutti gli ordini che avrò da darti per i Figli d’Israele” {Esodo 25: 22}.
Nel cortile
Fuori, nel cortile, subito davanti alla porta del tabernacolo, c’era una conca, una grande vasca contenente dell’acqua. Questa conca era fatta di ottone, “usando specchi di donne che venivano a prestare servizio all’ingresso della tenda di convegno”. In questa conca i sacerdoti dovevano lavarsi mani e piedi prima di entrare nel tabernacolo o di iniziare il loro servizio {Esodo 30: 17-21; Esodo 38: 8}.
Nel cortile c’era anche l’altare dei sacrifici (o degli olocausti), che aveva una parte importantissima nel servizio sacrificale. Questo altare era di forma quadrata, alto circa un metro e mezzo, vuoto all’interno e ricoperto di bronzo {Esodo 27: 1}. Su questo altare venivano posti gli animali quando venivano offerti come olocausti. Anche il grasso veniva consumato, ponendone la parte necessaria per l’oblazione. Ai quattro angoli dell’altare c’erano delle sporgenze a forma di corno. In alcune offerte sacrificali il sangue veniva posto su questi corni oppure spruzzato sull’altare. Il sangue non utilizzato per quello scopo veniva versato alla base dell’altare.
Il tempio di Salomone
Quando Salomone iniziò a regnare, il vecchio tabernacolo era in condizioni fatiscenti. Aveva diverse centinaia di anni ed era stato esposto al vento e alle intemperie per così tanto tempo. Davide si era proposto di costruire una casa al Signore, ma gli era stato detto che poiché era un uomo sanguinario non gli sarebbe stato permesso di farlo. Suo figlio doveva iniziare la costruzione. Per la costruzione del tempio che Salomone eresse “si usarono pietre già squadrate alla cava; così durante la costruzione del tempio non si udì rumore di martello, di ascia o di altro strumento di ferro” {1 Re 6: 7}.
L’edificio
Il tempio vero e proprio era largo circa dieci metri e lungo trenta metri. All’ingresso principale, che dava a est, c’era un portico lungo dieci metri e largo circa quattro metri e mezzo. Intorno agli altri tre lati del tempio furono costruite delle camere, alcune delle quali erano usate come stanze da letto per i sacerdoti e i leviti che officiavano nel tempio, e altre come magazzini per il denaro e altri doni consacrati. Il tempio era rivestito all’interno di cedro ricoperto d’oro, su cui erano incise figure di cherubini, palme e fiori {1 Re 6: 15, 18, 21, 22, 29}. Di ciò è detto: “Così Salomone costruì il tempio e lo terminò. Costruì quindi le pareti interne del tempio con tavole di cedro; e dal pavimento del tempio fino al soffitto le rivestì all’interno con legno; poi coperse il pavimento del tempio di tavole di cipresso” {1 Re 6: 14-15}.
Il tabernacolo originale non aveva pavimento, ma nel tempio Salomone “allestì pure con tavole di cedro uno spazio di venti cubiti in fondo al tempio, dal pavimento al soffitto; e riserbò quello spazio interno come santuario, come il luogo santissimo” {1 Re 6: 16}. Dopo aver ricoperto di cedro tutto l’interno del tempio in modo che “non si vedeva una pietra (…) Così Salomone ricoprì l’interno del tempio d’oro finissimo, stese delle catenelle d’oro davanti al luogo santissimo e lo ricoprì d’oro. Ricoprì d’oro tutto il tempio, finché tutto il tempio fu terminato e ricoprì pure d’oro tutto l’altare che apparteneva al luogo santissimo” {1 Re 6: 18-22}.
Il luogo santissimo
Nel “luogo santissimo” era posta l’arca dell’alleanza del Signore. L’arca originale aveva due cherubini d’oro puro. Ora però furono aggiunti altri due cherubini e posti sul pavimento, e tra questi fu posta l’arca. Erano fatti di legno d’ulivo, ciascuno alto circa quattro metri e mezzo. “entrambi i cherubini avevano le stesse dimensioni e la stessa forma” {1 Re 6: 25}. “I cherubini avevano le ali spiegate; l’ala del primo toccava una parete e l’ala del secondo toccava l’altra parete; le loro ali interne invece si toccavano in mezzo alla casa” {1 Re 6: 27}. Questo darebbe ai due cherubini un’apertura alare combinata di circa nove metri. Questi cherubini erano anche ricoperti d’oro, e su tutte le pareti della casa intorno erano scolpite figure di cherubini, palme e fiori. Anche il pavimento era ricoperto d’oro {1 Re 6: 29-30}.
Nel primo compartimento del tempio furono apportate alcune modifiche agli arredi. Davanti al “luogo santissimo”, e menzionato come appartenente ad esso {1 Re 6: 22}, stava l’altare dell’incenso come pure nel tabernacolo. Invece di un solo candelabro ora ce n’erano dieci, cinque posti da un lato e cinque dall’altro. Questi candelabri erano d’oro puro, come anche le scodelle, gli smoccolatoi, le bacinelle, i cucchiai e gli incensieri {1 Re 7: 49-50}. Invece di una tavola contenente i pani di presentazione, ce n’erano dieci, “cinque a destra e cinque a sinistra” {2 Cronache 4: 8}.
L’altare e la conca
L’altare degli olocausti, o altare di bronzo come viene anche chiamato, fu notevolmente ampliato nel tempio di Salomone. Il vecchio altare del tabernacolo era di circa quattro metri quadrati, mentre l’altare di Salomone era di quindici metri quadrati e alto sette metri e mezzo. I vasi, le palette, i ganci per la carne e i bacini usati per il servizio dell’altare erano tutti di ottone {2 Cronache 4: 11, 16}.
Il santuario aveva una conca per i lavaggi. Anche questa è stata di molto ampliata. Era un bacino di bronzo, che aveva sette metri e mezzo di diametro, alto circa quattro metri, con una capacità di quasi settantacinque mila litri d’acqua, ed era chiamato il “mare di metallo fuso, di forma circolare” {1 Re 7: 23-26}. Il bronzo di cui era fatto era largo un palmo. L’orlo era lavorato come l’orlo di una tazza con fiori di gigli. L’intero “mare di metallo” era sostenuto da “dodici buoi, di cui tre guardavano a nord, tre a ovest, tre a sud e tre a est; il mare era posto su di essi, e le loro parti posteriori erano rivolte all’interno” {1 Re 7: 25}. Fu posto nel cortile tra l’altare dell’olocausto e l’edificio del santuario.
Oltre a questo grande mare c’erano dieci conche più piccole poste su ruote in modo che potessero essere spostate da un posto all’altro a seconda della necessità {1 Re 7: 27-37}. Queste conche contenevano ciascuna circa millecinquecento litri d’acqua e servivano per lavare le parti degli animali che dovevano essere bruciate sull’altare degli olocausti {2 Cronache 4: 6}. Ognuna di queste conche fu posta su una base di bronzo; le “ruote erano come quella di un carro. I loro assi, i loro cerchi, i loro raggi e i loro mozzi erano tutti di bronzo fuso” {1 Re 7: 33}. I lati erano decorati con figure di leoni, buoi, cherubini e palme {1 Re 7: 29, 36}. Il nuovo cortile doveva essere considerevolmente più ampio di quello del vecchio tabernacolo.
Lo splendore del tempio di Salomone può essere visto dai vasi che Nabucodonosor prese da Gerusalemme. Esdra li contò e li registrò: “eccone il numero: trenta bacinelle d’oro, mille bacinelle d’argento, ventinove coltelli, trenta coppe d’oro, quattrocentodieci coppe d’argento di second’ordine e mille altri utensili. Tutti gli oggetti d’oro e d’argento erano in numero di cinquemilaquattrocento, Sceshbatsar li riportò tutti, assieme agli esuli che furono ricondotti da Babilonia a Gerusalemme” {Esdra 1: 9-11}.
L’altare dell’incenso
Una dichiarazione interessante si trova in {1 Re 6: 22} riguardo all’altare dell’incenso. I versi precedenti descrivono il “luogo santissimo”. L’arca contenente i dieci comandamenti è menzionata essere lì, e in relazione a questa viene citato “l’altare che era di cedro” {1 Re 6: 19-20}. Di questo altare, il versetto ventidue afferma: “l’altare che apparteneva al luogo santissimo”. Questo può avere qualche attinenza con la questione sollevata dalla formulazione di {Ebrei 9}, dove l’altare dell’incenso è omesso nella descrizione dei mobili del primo compartimento, e “un turibolo”, o un incensiere, è menzionato essere nel secondo compartimento {Ebrei 9: 2-4}. La versione rivisitata americana ha “altare dell’incenso” invece di “incensiere” (o di “turibolo”), sebbene la lettura marginale faccia riferimento proprio all’incensiere. Qualunque cosa si possa pensare di questo passaggio controverso, è bene notare che {Ebrei 9: 2} omette l’altare dell’incenso nella descrizione del “luogo santo”. La lettura in {1 Re 6: 22} che cita l’altare dell’incenso appartenente al “luogo santissimo”, mentre si trovava nel “luogo santo”, è generalmente considerata la traduzione corretta. Comprendiamo quindi che l’affermazione di {Esodo 30: 6} ci dice che l’altare dell’incenso era collocato “davanti al velo che è davanti all’arca della testimonianza, di fronte al propiziatorio”, ma il suo uso era tale che in un certo senso “apparteneva” anche al luogo santissimo. Poiché è un dato di fatto che il fumo dell’incenso riempiva tanto il “luogo santo” quanto il “luogo santissimo”. Questa sembra, nel complesso, la migliore visione per risolvere questa questione {Esodo 40: 26}.
Il tempio di Zorobabele
Il tempio costruito da Salomone fu distrutto durante le invasioni di Nabucodonosor nel VI secolo a.C. I governanti e le persone si erano gradualmente allontanati dal Signore e si erano spinti sempre più lontano nell’idolatria e nel peccato. Nonostante tutto ciò che Dio fece per correggere i mali, Israele persistette nell’apostasia. Dio mandò loro i Suoi profeti con avvertimenti e suppliche, “ma essi si beffarono dei messaggeri di DIO, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti, finché l’ira dell’Eterno contro il suo popolo raggiunse un punto in cui non c’era più rimedio. Allora egli fece salire contro di loro il re dei Caldei, che uccise di spada i loro giovani nella casa del loro santuario, senza avere pietà per il giovane, la vergine, l’anziano, o la persona canuta. L’Eterno li diede tutti nelle sue mani.” {2 Cronache 36: 16-17}.
“Poi incendiarono la casa di DIO, demolirono le mura di Gerusalemme, diedero alle fiamme tutti i suoi palazzi e ne distrussero tutti gli oggetti di valore. Inoltre Nabucodonosor, deportò a Babilonia quelli che erano scampati alla spada essi divennero servitori suoi e dei suoi figli, fino all’avvento del regno di Persia, affinché si adempisse la parola dell’Eterno pronunciata per bocca di Geremia, finché il paese avesse osservato i suoi sabati, Infatti esso osservò il sabato per tutto il tempo della sua desolazione finché furono compiuti i settant’anni” {2 Cronache 36: 19-21}
Il tempio ricostruito
Quando i giorni della prigionia furono compiuti, a Israele fu concesso il permesso di tornare; ma ormai molti erano stati a Babilonia da così tanto tempo che preferirono restare. Tuttavia, un residuo tornò e, a tempo debito, furono gettate le fondamenta di un nuovo tempio. “Tutto il popolo mandava alte grida di gioia, lodando l’Eterno, perché erano state gettate le fondamenta della casa dell’Eterno” {Esdra 3: 11}. Tuttavia, non fu una gioia completa, perché “molti sacerdoti, Leviti e capi delle case paterne, anziani, che avevano visto il primo tempio, piangevano ad alta voce mentre si gettavano le fondamenta di questo tempio sotto i loro occhi. Molti altri invece alzavano forti grida di allegrezza, 13 cosicché la gente non poteva distinguere il rumore delle grida di allegrezza da quello del pianto del popolo, perché il popolo lanciava alte grida, e il rumore si udiva da lontano” {Esdra 3: 12-13}.
Il tempio così costruito fu chiamato “tempio di Zorobabele”, dal nome del capo dei lavori. Non si sa molto sulla sua struttura, ma si suppone che abbia seguito le forme del tempio di Salomone, ma non vi era l’arca nel “luogo santissimo”. Essa era scomparsa al momento dell’invasione di Nabucodonosor. La tradizione dice che santi uomini presero l’arca e la nascosero nelle montagne per evitare che cadesse in mani profane. In ogni caso, il “luogo santissimo” era vuoto, se non fosse per una pietra, che era stata posta per sostituire l’arca nel giorno dell’espiazione. Questo tempio rimase in uso quasi fino al momento in cui Cristo apparve. Poi il “tempio di Erode” prese il suo posto.
Il tempio di Erode
Erode divenne re nel 37 a.C. Una delle prime cose che fece fu costruire una fortezza, Antonia, a nord del tempio, collegata al cortile del tempio da un passaggio sotterraneo. Alcuni anni dopo decise di ricostruire il tempio su una scala più grande che mai. Gli ebrei diffidavano di lui e non gli permisero di procedere con la costruzione finché non avesse dimostrato la sua buona fede raccogliendo il materiale necessario per la struttura prima che la vecchia struttura fosse demolita. Questo venne da lui fatto volentieri. I sacerdoti insistettero anche sul fatto che nessuna persona comune avrebbe dovuto lavorare al tempio, ma che solo i sacerdoti stessi avrebbero potuto erigere la struttura del tempio. A causa di questa richiesta vennero spesi alcuni anni nella formazione di mille sacerdoti che imparassero ad essere muratori e falegnami per lavorare alla costruzione del santuario. Svolsero tutti i lavori connessi ai due compartimenti del tempio. In tutto, durante il corso della costruzione, furono impiegati diecimila operai specializzati.
Le operazioni di costruzione iniziarono intorno al 20 a.C. Il tempio vero e proprio fu terminato in un anno e mezzo, ma ci vollero altri otto anni per completare il cortile. {Giovanni 2: 20} afferma che il tempio, al tempo di Cristo, era stato costruito in quarantasei anni; ma venne completamente terminato solo nel 66 d.C., poco prima della distruzione di Gerusalemme da parte dei romani.
Una bella struttura
Il tempio di Erode era una struttura molto bella. Era costruito in marmo bianco ricoperto di lastre d’oro, posto su un’altura, con gradini che vi salivano in ogni direzione, costituendo una serie di terrazze. Si ergeva a un’altezza di centoventi metri sopra la valle sottostante e poteva essere visto da grande distanza. Giuseppe Flavio lo paragona a una montagna innevata. Era una grandissima bellezza, soprattutto se vista dal Monte degli Ulivi al mattino, mentre il sole splendeva su di esso. Era una delle meraviglie del mondo.
Il tempio di Erode aveva le stesse dimensioni del tempio di Salomone; cioè, l’edificio vero e proprio era lungo circa trenta metri e largo dieci. Il “luogo santo” era separato dal “santissimo” da un tramezzo di circa mezzo metro di spessore, con un’apertura davanti alla quale pendeva il velo menzionato in {Matteo 27: 51}, che si squarciò alla morte di Gesù. Non c’erano oggetti nel “luogo santissimo”, ma solo la pietra che rimase dal “tempio di Zorobabele”, su cui il sommo sacerdote poneva il suo incensiere nel giorno dell’espiazione. Gli oggetti del “luogo santo”, invece, erano probabilmente gli stessi del “tempio di Salomone”.
In corrispondenza del “luogo santo” e del “luogo santissimo” c’erano di sopra delle camere o sale dove i sacerdoti si incontravano in determinate occasioni. Anche il Sinedrio si riunì lì per qualche tempo. In fondo alla stanza, sopra il “luogo santissimo” c’erano delle botole con delle casse che potevano essere calate nel “luogo santissimo” sottostante. Queste casse erano abbastanza grandi da contenere uno o più lavoratori che a volte, se necessario, potevano essere calati per riparare le pareti del tempio. La cassa era aperta solo verso il muro, in modo tale che gli operai potessero lavorare sulle pareti esponendosi oltre le casse senza toccare nient’altro oltre quella parte di muro su cui stavano lavorando. Poiché solo il sommo sacerdote poteva entrare nel “luogo santissimo”, questo piano prevedeva di fare le riparazioni sacre senza che gli operai vi entrassero, o senza che accedessero al “luogo santissimo” come tale.
Ai lati del tempio vero e proprio c’erano stanze adibite a deposito, le stesse del tempio di Salomone. Di fronte c’era anche un portico che terminava quasi dieci metri e mezzo oltre la lunghezza del tempio, per ogni parte, rendendo la lunghezza totale del portico di circa cinquanta metri.
Il cortile esterno
Il cortile esterno del “tempio di Erode” era un grande spazio, non del tutto quadrato, con i lati di circa trecentotrenta metri ciascuno. Questo cortile era diviso in cortili più piccoli chiamati: “il cortile dei gentili”, “il cortile delle donne” e “il cortile dei sacerdoti”. In una parte del cortile, su un immenso pergolato, o graticola, stava una vite d’oro, i cui grappoli d’uva, secondo Giuseppe Flavio (del quale però non ci si può sempre fidare), erano alti come un uomo. Secondo lui, la vite si estendeva per circa dodici metri da nord a sud e la sua cima era a più di trentacinque metri da terra. Qui Erode collocò anche una colossale aquila reale, con grande angoscia e dispiacere degli ebrei. Alla fine, infatti, fu costretto a rimuovere l’aquila dal sacro cortile.
Circa dodici metri davanti al portico del tempio c’era l’altare degli olocausti. Questo altare era più grande di quello del “tempio di Salomone”. Secondo Giuseppe Flavio aveva nove metri quadrati di fondamento, anche se altri dicono che ne avesse solo sei. Era costruito con pietre grezze ed era alto circa sei metri. Una rampa, anch’essa costruita in pietra, conduceva fino a pochi metri dalla sommità dell’altare. Intorno all’altare, vicino alla sommità, c’era un terrazzo su cui stavano i sacerdoti nel ministrare i sacrifici prescritti.
Nella zona vicino all’altare c’erano degli anelli ai quali potevano essere legati gli animali sacrificali. C’erano anche dei tavoli con vasi, coltelli e ciotole usati nell’atto del sacrificio. L’altare era collegato ad una specie di sistema fognario in cui veniva convogliato tutto il sangue versato ai piedi dell’altare. Tutto veniva tenuto scrupolosamente pulito, anche il sistema fognario veniva lavato a orari prestabiliti.
All’interno delle mura che circondavano il cortile c’erano dei portici. Quello sul lato est era chiamato “portico di Salomone”. I lati nord, ovest ed est avevano doppi portici, con due file di colonne e un tetto di cedro intagliato. Sul lato sud c’era il portico reale con centosessantadue colonne. Queste colonne erano disposte in modo da formare tre navate, le due esterne larghe nove metri ciascuna, mentre quella mediana dodici. In questi portici si potevano tenere riunioni pubbliche. Era qui che la prima chiesa si riuniva quando andava al tempio per pregare. Questo era il solito luogo di incontro per il popolo di Israele ogni volta che andavano al tempio.
La parte del cortile più vicina al suo ingresso era chiamata “cortile dei Gentili”. Un parapetto in pietra separava questa corte dal resto del recinto. Nessun Gentile poteva oltrepassare i suoi confini. Sul parapetto c’era l’iscrizione: “Nessuno straniero deve oltrepassare il parapetto entrando nel luogo sacro. Chiunque lo farà si renderà responsabile della sua morte”. Nel 1880 fu trovata una targa con questa iscrizione, che ora si trova in un museo. Fu per la trasgressione di questa ordinanza del tempio che gli ebrei avevano fatto catturare e arrestare Paolo dai romani {Atti 21: 28}.
Il tempio di Erode era una delle più belle strutture che il mondo abbia mai visto. Era l’orgoglio degli ebrei. Eppure venne il momento in cui fu distrutto. “Non vedete voi tutte queste cose? In verità vi dico che non resterà qui pietra su pietra che non sarà diroccata”, furono le parole di Cristo in {Matteo 24: 2}. Questa profezia si avverò letteralmente. Non rimase una sola pietra.
Il santuario originario e i tre templi qui menzionati avevano delle cose in comune, sebbene differissero in alcuni dettagli. Avevano tutti due compartimenti, il “luogo santo” e il “luogo santissimo”. Tutti avevano un altare dell’incenso, una tavola del pane di presentazione, un candeliere, una conca e un altare degli olocausti. I primi due avevano un’arca, ma essa scomparve intorno al 600 a.C. Il sacerdozio era lo stesso in tutti, così come lo erano anche le offerte sacrificali.
Per più di mille anni Israele si radunò attorno al santuario. Quale benedizione sarebbe stata per loro se avessero visto nei sacrifici Colui che doveva venire secondo la promessa nel Giardino dell’Eden {Genesi 3: 15}, “l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”! {Giovanni 1: 29}. Anche a noi è stata lasciata una simile promessa, ma cerchiamo di non mancarla come fecero loro! {Ebrei 4: 1}.
A Mosè furono date indicazioni non solo per la costruzione del tabernacolo ma anche per il sacerdozio. Dio comandò a Mosè: “fai accostare a te Aaronne tuo fratello e i suoi figli con lui, dal mezzo dei figli d’Israele, perché serva a me come sacerdote: Aaronne, Nadab, Abihu, Eleazar e Ithamar, figli di Aaronne” {Esodo 28: 1}. Ad Aaronne disse: “tu e i tuoi figli con te eserciterete il vostro sacerdozio in tutto ciò che riguarda l’altare e che è di là dal velo; e presterete il vostro servizio. lo vi do il vostro sacerdozio come un dono per servizio” {Numeri 18: 7}.
I sacerdoti in Israele occupavano una posizione importante ed onorevole nella nazione. Le loro responsabilità erano grandi, e altrettanto lo erano le loro prerogative. Erano i guardiani della legge di Dio, e anche della moralità del popolo. Non vi era quasi nessuna fase della vita o dell’attività umana in cui il sacerdote non avesse un ruolo preminente.
Aaronne e i suoi figli furono scelti da Dio per questo alto incarico, e per quasi tutta la storia della nazione, i sacerdoti furono tratti dalla discendenza di Aaronne. Solo nell’ultima parte della storia nazionale d’Israele vennero ammessi degli altri all’ufficio sacerdotale, e solo su pressione delle autorità civili.
Originariamente sembra che i privilegi del ruolo sacerdotale fossero concepiti per la vita, ma vi sono motivi sufficienti per credere che in seguito questa disposizione sia stata disattesa. I sacerdoti crebbero così tanto di numero che fu necessario dividerli in ventiquattro classi per il servizio del tempio. Ciascuno prestava servizio una settimana a Gerusalemme due volte l’anno, il resto del tempo lo trascorreva nei distretti di origine ad aiutare e istruire il popolo. Inizialmente questo ordine nella rotazione delle classi veniva mantenuto regolarmente; ma quando più tardi venne l’apostasia, l’ordine delle classi iniziò ad essere disordinato, tanto che al tempo di Cristo non si seguiva più la rotazione biblica.
I sacerdoti avevano il controllo dell’intero culto esteriore della nazione. Erano i custodi del tempio, e solo loro potevano “avvicinarsi” a Dio, avendo il privilegio di officiare all’altare ed entrare nel santuario per celebrare lì i servizi. Solo attraverso di loro il popolo poteva avere accesso alle benedizioni dell’alleanza simboleggiata dall’aspersione del sangue e dall’offerta dell’incenso. Solo i sacerdoti potevano negoziare con Dio.
A parte le loro funzioni strettamente religiose e rituali del tempio, i sacerdoti avevano anche il controllo di molte questioni civili e interpersonali. Loro avevano l’autorità di quando un uomo era cerimonialmente impuro e avevano il potere di escluderlo dalla congregazione. Nell’esaminazione della lebbra, sulla base della loro parola si prendeva la decisione se un uomo dovesse essere isolato dalla società o se una casa infetta dovesse essere demolita {Levitico 13, 14}. Dio disse: “in caso di lebbra bada bene di osservare diligentemente e fare tutto ciò che i sacerdoti levitici vi insegneranno; avrete cura di fare come io ho loro comandato. Ricorda ciò che l’Eterno, il tuo Dio, fece a Miriam durante il viaggio, dopo che usciste dall’Egitto” {Deuteronomio 24: 8-9}.
Solo i sacerdoti potevano permettere a un uomo di ritornare alla sua famiglia dopo che era stato ufficialmente isolato. Avevano anche piena autorità in alcuni casi di sospetta infedeltà {Numeri 5: 11-31}. Mediante la loro interpretazione della legge giunsero ad esercitare una grande influenza e autorità in molte cose che interessano la vita quotidiana. Nei casi difficili del diritto, i sacerdoti erano associati al giudice nel prendere decisioni giudiziarie, non solo in questioni religiose, ma anche in “casi di disputa entro le tue porte” puramente civili {Deuteronomio 17: 8-13}. La decisione dei sacerdoti in questi casi era definitiva. L’uomo veniva ammonito ad accettare la sentenza della legge “ma l’uomo che agirà con presunzione e non darà ascolto al sacerdote che sta là per servire l’Eterno, il tuo DIO, o al giudice, quell’uomo morirà; così toglierai via il male da Israele” {Deuteronomio 17: 12}.
È facile presumere che solo un piccolo gruppo di uomini avesse il controllo del culto di una nazione, dell’insegnamento e dell’interpretazione della legge, delle relazioni personali private e dell’esecuzione delle decisioni legali, esercitando una grande influenza nel bene o nel male sul popolo.
Quanto al loro prestigio, dovuto alla vocazione sacerdotale, possiamo facilmente capire che il sacerdozio divenne presto un’organizzazione potente ed esclusiva. Le prerogative del sacerdozio erano grandi, e i suoi diritti erano gelosamente custoditi. Come notato prima, solo Aaronne e i suoi discendenti potevano officiare il culto sacrificale {Esodo 28-29; Levitico 8-10; Numeri 16-18}. Nessuno, che non fosse nato in quella famiglia, poteva diventare sacerdote. Questo mise molta attenzione sulla questione della nascita e sulla documentazione genealogica a sostegno di tale nascita. Spettava a ciascun sacerdote provare in modo inconfutabile la propria discendenza da Aaronne. Non ci deve essere alcun errore nella successione. Ogni passaggio deve essere ben chiaro.
L’esaminazione della genealogia di ciascun candidato divenne compito di alcuni sacerdoti. Successivamente fu rilevata dal Sinedrio, che impiegava parte del proprio tempo in quest’opera. Se un sacerdote dimostrava con successo il suo diritto genealogico al Sinedrio e superava la prova fisica richiesta – non avere deformità o imperfezioni nel corpo – veniva vestito di vesti bianche e il suo nome veniva iscritto nell’elenco ufficiale dei sacerdoti autorizzati. Può darsi che {Apocalisse 3: 5} sia proprio basato su questa usanza. D’altra parte, se fosse stato rifiutato dagli esaminatori, veniva vestito di nero.
La deformità fisica, anche se la documentazione genealogica era soddisfacente, non gli impediva di servire nel tempio {Levitico 21: 21-23}. Se però il difetto non era troppo evidente, il candidato poteva servire in qualche funzione minore, come ad esempio prendersi cura della legna usata per l’altare, o come guardiano.
Il ruolo sacerdotale, essendo molto sacro, aveva delle regole che venivano rigorosamente applicate, su chi un sacerdote poteva o non poteva sposare. Un prete non poteva sposare una donna il cui marito l’aveva mandata via o aveva divorziato da lei. Perciò non poteva sposare una prostituta o una donna violentata {Levitico 21: 7-8}. Poteva sposare solo una vergine o una
Vedova (che doveva essere pura).
Ai sacerdoti era anche richiesto di stare attenti alle contaminazioni cerimoniali. Loro non potevano toccare un cadavere, se non quello di un parente molto stretto. In ogni atto della loro vita i sacerdoti dovevano essere consapevoli della necessità di tenersi lontani da tutto ciò che poteva contaminarli. E questa cautela nei confronti della contaminazione fisica era solo un simbolo della richiesta da parte di Dio di una grande purezza spirituale. “Santità all’Eterno” era la parola d’ordine del sacerdozio {Esodo 39: 30}.
Sostegno al sacerdozio
I sacerdoti non avevano eredità nel paese come le altre tribù. “I sacerdoti levitici, tutta la tribù di Levi, non avranno parte né eredità con Israele; vivranno dei sacrifici fatti col fuoco all’Eterno, la sua eredità. Non avranno alcuna eredità tra i loro fratelli; poiché l’Eterno è la loro eredità, come ha detto loro” {Deuteronomio 18: 1-2}.
Invece di una parte del paese, Dio diede ai sacerdoti alcune parti dei sacrifici che il popolo portava. Di ogni sacrificio animale, eccetto l’olocausto, che veniva interamente bruciato sull’altare, e alcuni altri sacrifici, i sacerdoti ricevevano “la spalla, le mascelle e lo stomaco” {Deuteronomio 18: 3}. I sacerdoti ricevevano anche le primizie di grano, vino, olio e lana di pecora. Inoltre ai sacerdoti veniva data farina e altre offerte di cibo cotto al forno o in padella, condite con olio e senza lievito {Levitico 2: 1-10}. Degli olocausti ricevevano la pelle {Levitico 7: 8}.
In caso di guerra, una certa parte del bottino andava anche al sacerdozio, sia di uomini che di bestiame e di oro. A volte questo ammontava a una somma considerevole {Numeri 31: 25-54}. Tutte le offerte elevate e le offerte agitate erano dei sacerdoti {Numeri 18: 8-11}. Anche tutte le offerte consacrate appartenevano a loro {Numeri 18: 14}.
Tutti i primogeniti in Israele, sia dell’uomo che della bestia, erano dei sacerdoti, ma era comandato che il primogenito dell’uomo venisse riscattato per la somma stabilita di cinque sicli, per ogni primogenito {Numeri 18: 15-19}.
Nell’anno giubilare i campi consacrati che non venivano riscattati tornavano ai sacerdoti {Levitico 27: 20-21}. Nel caso in cui gli oggetti santi fossero danneggiati, il trasgressore non solo doveva pagare la somma originariamente stimata, ma doveva aggiungervi un quinto e darla al sacerdote {Levitico 5: 16}. In caso di danno arrecato a un prossimo, dove non era possibile risarcire la parte lesa, il comando era: “se questi non ha alcun parente stretto a cui si possa fare restituzione per l’offesa, la restituzione andrà all’Eterno per il sacerdote” {Numeri 5: 8}. Oltre alle fonti di reddito citate, ce n’erano anche altre minori, di cui non parleremo qui.
I doni qui elencati erano in aggiunta al reddito delle decime che ricevevano i sacerdoti. A tutto Israele fu comandato di pagare la decima {Levitico 27: 30-34}. Questa decima doveva essere data ai leviti e apparteneva a loro {Numeri 18: 21-24}. Della decima che i leviti così ricevevano, dovevano fare “un’offerta elevata all’Eterno, una decima della decima” e “darete l’offerta elevata dell’Eterno al sacerdote Aaronne” {Numeri 18: 26-28}. Sembra che in tempi successivi le decime venissero pagate direttamente ai sacerdoti {Ebrei 7: 5}. Alcuni hanno pensato che ciò avvenne al tempo del secondo tempio, quando pochissimi leviti tornarono dalla prigionia e fu necessario assumere Nethinei al loro posto; ma questo non è molto chiaro {Esdra 8: 15-20}. In ogni caso, i sacerdoti ricevevano le decime direttamente o indirettamente dal popolo, e poiché i sacerdoti originariamente erano pochi di numero, il reddito che proveniva da questa fonte era probabilmente più che sufficiente per i loro bisogni.
I sacerdoti erano ministri di Dio nominati divinamente come mediatori tra Dio e gli uomini, autorizzati ad officiare all’altare e al servizio del santuario. In tempi in cui i libri non erano comuni, non erano solo interpreti della legge, ma in molti casi erano l’unica fonte di conoscenza delle richieste di Dio. Per mezzo di loro il popolo venne istruito riguardo alla dottrina del peccato e della sua espiazione, alla giustizia e alla santità. Attraverso il loro ministero è stato insegnato al popolo come avvicinarsi a Dio, come ricevere il perdono, come innalzare preghiere a Dio, quanto è immutabile la legge e come, alla fine, avrebbero prevalso l’amore e la misericordia. Tutto il piano della salvezza era loro rivelato, per quanto poteva essere compreso attraverso i tipi e le offerte. Ogni cerimonia tendeva a imprimere nelle loro menti la santità di Dio e le conseguenze del peccato. Insegnò loro anche il meraviglioso provvedimento assicurato dalla morte dell’agnello. Sebbene fosse un ministero della morte {2 Corinzi 3: 7}, esso era glorioso nella sua promessa. Raccontava di un redentore, di un portatore di peccati, di un mediatore. Esso era un embrione del Vangelo.
Nel servizio del sacerdozio spiccano tre cose: la mediazione, la riconciliazione e la santificazione. Ognuno di questi merita una parola di speciale enfasi.
Mediazione
I sacerdoti erano, prima di tutto, mediatori. Questo era principalmente il loro lavoro. Sebbene il peccatore potesse portare l’offerta, non poteva aspergere il sangue. Né poteva mangiare il pane di presentazione, né offrire l’incenso, né accendere le lampade. Tutto questo qualcun altro doveva farlo per lui. Sebbene potesse avvicinarsi al tempio, non poteva entrarvi; sebbene potesse procurare il sacrificio, non poteva offrirlo; sebbene potesse uccidere l’agnello, non poteva ministrare il suo sangue. Dio gli era accessibile solo attraverso la mediazione del sacerdozio. Poteva avvicinarsi a Dio solo nella persona di un altro. Tutto ciò gli avrebbe ricordato in modo sorprendente il fatto che aveva bisogno di qualcuno che intercedesse per lui, qualcuno che intervenisse. Questo concetto può essere spiegato in modo ancor più vivido facendo un esempio verosimile.
Un pagano, che desidera sinceramente adorare Dio, sente che il Dio d’Israele è il vero Dio e che vive nel tempio di Gerusalemme. Inizia il lungo viaggio e finalmente arriva in quel luogo sacro. Ha sentito che Dio abita tra i cherubini nel luogo Santissimo, e decide di entrare in quel luogo, per adorare Dio. Ma non ha fatto molti passi nel cortile prima di essere attenzionato da un segno che dice che nessun estraneo può passare oltre se non a rischio della sua propria vita. È perplesso. Vuole adorare il vero Dio di cui ha sentito parlare, e gli è stato anche detto che Dio desidera essere adorato. Eppure ora è fermo. Cosa deve fare? Chiede a uno degli adoratori e gli viene detto che deve provvedere per sé stesso un agnello prima di potersi avvicinarsi a Dio. Immediatamente si procura l’animale richiesto e ritorna. Ora può vedere Dio? No, gli viene detto di nuovo che non può entrare.
Lui chiederà: “Perché devo portare un agnello?”.
Gli si risponderà: “Per darlo al sacerdote in sacrificio”.
“Posso entrare quindi?”.
“No, non c’è alcuna possibilità per te di entrare nel tempio o vedere Dio”.
“Ma perché non posso vedere il tuo Dio? Voglio adorarlo”.
“Nessun uomo può vedere Dio e vivere. Egli è santo, e solo chi è santo può vederlo. Solo il sacerdote può andare nel primo compartimento, ma anche lì c’è ancora un velo tra lui e Dio. Solo il sommo sacerdote può entrare nel luogo Santissimo. Tu non puoi. La tua unica speranza è che qualcuno appaia al posto tuo”.
L’uomo è profondamente colpito. Non gli è permesso di entrare nel tempio. Solo chi è santo può fare ciò. Deve avere qualcuno che faccia da mediatore per lui. Questa lezione si imprime nella sua anima: non può vedere Dio; deve avere un mediatore. Solo così possono essere perdonati i peccati ed essere realizzata la riconciliazione. L’intero servizio del santuario si fonda sulla mediazione. Anche se il peccatore ha portato l’agnello, anche se lo ha ucciso, il servizio poteva essere completato solo per mezzo di un mediatore che aspergesse il sangue e ministrasse il sacrificio.
Riconciliazione
La seconda caratteristica del sacerdozio è la riconciliazione. Il peccato ci separa da Dio, Gli ha fatto nascondere la sua faccia da noi, per non darci ascolto {Isaia 59: 2}. Ma attraverso le offerte sacrificali e le preghiere che si innalzavano a Dio insieme all’incenso, si poteva ristabilire la comunione con Dio, si poteva effettuare la riconciliazione.
Proprio come la mediazione era lo scopo fondamentale del sacerdozio, così la riconciliazione era l’obbiettivo dei sacrifici offerti quotidianamente durante l’anno. Attraverso di esse si ristabiliva una relazione di amicizia tra Dio e l’uomo. Ciò che il peccato ha separato, il sangue ha unito. Ciò è stato realizzato attraverso il ministero del perdono. Si afferma che quando l’intera congregazione ha peccato e porta la propria offerta per il peccato e gli anziani avranno posto le mani sull’offerta, confessando il peccato, esso “sarà loro perdonato” {Levitico 4: 13, 20}. La dichiarazione va avanti dicendo che quando un capo ha commesso peccato e avrà soddisfatto i requisiti, il peccato “gli sarà perdonato” {Levitico 4: 22, 26}. La promessa vale anche per chiunque faccia parte del popolo: “gli sarà perdonato” {Levitico 4: 27, 35}. Per mezzo del peccato ci fu estraniazione tra l’uomo e Dio, ma ora è tutto perdonato.
Siamo riconciliati con Dio mediante la morte di Suo Figlio {Romani 5: 10}. La riconciliazione avviene mediante il sangue. “I sacerdoti li scannarono e ne offrirono il sangue sull’altare come sacrificio per il peccato, in espiazione, per tutto Israele, perché il re aveva ordinato di offrire l’olocausto e il sacrificio per il peccato, per tutto Israele” {2 Cronache 29: 24}. Nel primo compartimento del santuario il sacerdote entrava ogni giorno per comunicare con Dio. C’era l’incenso che si estendeva oltre il velo nel luogo Santissimo; c’era il candeliere simbolo di Colui che è la luce del mondo; c’era la tavola di presentazione del Signore che invitava alla comunione; c’era l’aspersione del sangue, la parte più importante del servizio. Il santuario era un luogo di avvicinamento a Dio, di comunione. Attraverso il ministero del sacerdote si è esteso il perdono, si è operata la riconciliazione, l’uomo è entrato in comunione con Dio.
Santificazione
La terza caratteristica del servizio nel santuario era quella della santificazione, o santità. La quantità di peccati custoditi nel cuore misura la nostra distanza da Dio. Lo straniero poteva entrare nel cortile del tempio. L’anima penitente poteva avvicinarsi all’altare. Il sacerdote, come mediatore, poteva entrare nel luogo santo. Solo il sommo sacerdote – solo un giorno all’anno, e solo dopo un’ampia preparazione – poteva entrare nel luogo Santissimo. Vestito di bianco, poteva avvicinarsi con timore al trono di Dio. Anche allora l’incenso doveva nasconderlo parzialmente. Qui il sommo sacerdote poteva ministrare, non solo come uno che fa ottenere il perdono dei peccati, ma anche come uno che chiede coraggiosamente di cancellarli.
Il servizio giornaliero durante tutto l’anno, simboleggiato dal servizio nel primo compartimento, non era di per sé completo. Doveva essere completato attraverso quello del secondo compartimento. Il perdono si ottiene dopo la trasgressione, quando il danno è già stato fatto. È vero, Dio perdona il peccato, ma sarebbe stato meglio se il peccato non fosse mai stato commesso. Per questo motivo la potenza preservatrice di Dio ci è messa a disposizione. Perdonare la trasgressione dopo che è stata commessa è meraviglioso; ma non è abbastanza. Ci deve essere anche un potere che ci faccia evitare di peccare. “Va’ e non peccare più” questa è la potenza che ci offre il Vangelo. Il “non peccare più” è la santificazione. Questo è l’obiettivo finale della salvezza. Il Vangelo non è completo senza di esso. Abbiamo bisogno di entrare con Cristo nel luogo Santissimo. Ma solo alcuni lo faranno. Solo alcuni seguiranno l’Agnello dovunque Egli vada. Essi saranno senza macchia o ruga {Efesini 5: 27}. “Sono irreprensibili davanti al trono di Dio” {Apocalisse 14: 5} e per fede entrano nel secondo compartimento.
Il sommo sacerdote occupava il ruolo più importante d’Israele. Era l’unico che poteva officiare nel giorno dell’espiazione, e solo lui poteva apparire davanti a Dio nel luogo Santissimo. A differenza degli altri sacerdoti era chiamato “il sacerdote unto”, o “sommo sacerdote” {Levitico 4: 3; Levitico 21:10}. Poiché tutti i ruoli inferiori sono inclusi in quelli superiori, il sommo sacerdote era il simbolo dell’intero sacerdozio. In lui si concentravano tutti i servizi. Nel santuario lui offriva sacrifici ogni giorno. {Ebrei 7: 27; Levitico 6: 19-23}. Si prendeva cura delle lampade e le accendeva {Levitico 24: 24; Esodo 30: 8; Numeri 8: 2}. Bruciava l’incenso {Esodo 30: 7-8}. Era sua prerogativa officiare personalmente qualsiasi parte del rituale, e tutto quello che i sacerdoti facevano era in favore di Aaronne e per Aaronne. I sacerdoti erano semplicemente i suoi aiutanti. Essi potevano servire all’altare; potevano anche entrare nel primo compartimento, ma lo facevano come suo sostituto. Tutto quello che essi facevano veniva contato come se fosse stato fatto da Aaronne.
Le stesse regole che regolavano il contatto personale dei sacerdoti con il popolo, oltre che nella loro propria vita, valevano anche per il sommo sacerdote, e per certi aspetti erano ancora più rigide. Così, mentre al sacerdote veniva concesso di sposare solo una vergine o una vedova, al sommo sacerdote era proibito sposare una vedova {Levitico 21: 13-14}. Anche se un sacerdote non poteva toccare un cadavere, se non quello di un parente stretto, il sommo sacerdote non poteva farlo per alcuno {Levitico 21: 1-2, 11}.
Questa attenzione in tutte le cose si estendeva anche alle vesti, che avevano un significato simbolico. Dell’abito che indossava il sommo sacerdote, sta scritto: “Queste sono le vesti che faranno: un pettorale, un efod, un mantello, una tunica lavorata a maglia, un turbante e una cintura. Faranno dunque delle vesti sacre per Aaronne tuo fratello e per i suoi figli, affinché serva a me come sacerdote” {Esodo 28: 4}. Esse si armonizzavano per colore e materiale con il tabernacolo stesso, ed erano adorne di pietre preziose.
Il pettorale prima menzionato era un indumento quadrato e piegato in due, sostenuto da due cordoni d’oro. In questo pettorale c’erano quattro file di pietre preziose, tre per ogni fila, su di esse vi erano incisi i nomi dei figli d’Israele {Esodo 28: 15-21}. Questo indumento era chiamato “pettorale del giudizio” e Aaronne doveva portarlo “sul suo cuore” quando entrava nel luogo santo {Esodo 28: 29}.
Sul pettorale si dice che ci fossero anche l’Urim e il Thummim, ovvero due pietre misteriose che mostravano l’approvazione o la contrarietà del Signore quando veniva consultato nel momento del bisogno {Levitico 8: 8; Esodo 28: 30; 1 Samuele 28: 6}. Poiché si dice che queste due pietre fossero sul pettorale, alcuni hanno supposto che fossero tenute in una tasca fatta apposta per quello scopo. Tuttavia sembra più ragionevole pensare che fossero poste in modo prominente sul pettorale, così come le altre pietre, una a sinistra e l’altra a destra, in bella vista.
L’efod era un vestimentario fatto “d’oro e di filo violaceo, porporino, scarlatto e di lino fino ritorto, lavorato artisticamente” {Esodo 28: 6}. Non aveva maniche e pendeva sia sul petto che sulla schiena. Sulle spalle c’erano due pietre d’onice con incisi i nomi dei figli d’Israele, sei nomi su ciascuna pietra. “Metterai le due pietre sulle spalline dell’efod, come pietre di ricordo per i figli d’Israele; e Aaronne porterà i loro nomi davanti all’Eterno sulle sue due spalle, per ricordo” {Esodo 28: 12}.
Sotto l’efod c’era una lunga veste di lino blu, senza maniche e senza cuciture. “Tutt’intorno all’orlo del mantello farai delle melagrane di color violaceo, porporino e scarlatto, e in mezzo ad esse tutt’intorno, campanelli d’oro… Aaronne lo userà per fare il servizio; e il suo suono si sentirà quando entrerà nel luogo santo davanti all’Eterno e quando ne uscirà, perché egli non muoia” {Esodo 28: 33-35}. Sotto la veste dell’efod c’erano i normali indumenti intimi bianchi e le brache di lino.
La cintura del sommo sacerdote era d’oro, azzurro, porpora e scarlatto, come l’efod. Era posto intorno alla tunica dell’efod, piuttosto in alto, e serviva a tenere fermo l’indumento {Esodo 39: 5; Esodo 29: 5}.
Vestiario d’oro
“Farai l’efod d’oro… La cintura artisticamente lavorata, che è sull’efod, sarà dello stesso lavoro dell’efod: d’oro… Farai pure il pettorale del giudizio, artisticamente lavorato; lo farai come il lavoro dell’efod: d’oro… Tutt’intorno all’orlo del mantello farai delle melograne di color violaceo, porporino e scarlatto, e in mezzo ad esse tutt’intorno, campanelli d’oro” {Esodo 28: 6, 8, 15, 33}. Sebbene queste vesti fossero fatte di materiali diversi, l’oro costituiva una parte prominente. Alle vesti si aggiunge la piastra d’oro sulla quale era scritto “SANTITÀ AL SIGNORE”. Con le dodici pietre preziose con incisi i nomi delle tribù di Israele, le due pietre d’onice con anch’esse incisi i nomi di Israele, e infine l’Urim e il Thummim, l’intero effetto doveva essere stato di gloria e bellezza. Poiché il sommo sacerdote si spostava lentamente e con dignità da un luogo all’altro, la luce del sole si rifletteva nei sedici gioielli così preziosi e le campane emettevano un piacevole suono musicale, così il popolo veniva profondamente colpito dalla solennità e dalla bellezza del culto a Dio.
Questi indumenti rigorosamente sacerdotali erano “per gloria e bellezza” {Esodo 28: 2, KJV}. Oltre a queste vesti il sommo sacerdote aveva anche vesti di lino bianco che si indossavano un solo giorno dell’anno per l’opera di purificazione nel giorno dell’espiazione {Levitico 16: 4, 23}.
Il Sommo Sacerdote – un simbolo
Il sommo sacerdote nella sua veste ufficiale non era semplicemente un uomo. Era un’istituzione, era un simbolo, era l’incarnazione di tutto Israele. Portava i nomi d’Israele sulle due pietre d’onice, “sulle spalline dell’efod, come pietre di ricordo per i figli d’Israele”; portava “i nomi dei figli d’Israele incisi nel pettorale del giudizio sul suo cuore”; portava il giudizio dei figli d’Israele sul suo cuore davanti all’Eterno, del continuo” {Esodo 28: 12, 29-30}. In questo modo portava Israele sia sulle spalle che sul cuore. Sulle sue spalle portava il peso d’Israele, così come anche nel pettorale, sul suo cuore, che è la sede dell’affetto e dell’amore che provava per Israele. L’Urim e il Thummim, ovvero la “Luce” e la “Perfezione”, “staranno sul cuore di Aaronne quando egli si presenterà davanti all’Eterno. Così Aaronne porterà il giudizio dei figli d’Israele sul suo cuore davanti all’Eterno, del continuo” {Esodo 28: 30}. Nella piastra d’oro era incisa la scritta “SANTITA’ ALL’ETERNO”, essa “starà sulla fronte di Aaronne, e Aaronne porterà la colpa associata alle cose sante presentate dai figli d’Israele, in ogni genere di offerte sacre; essa starà continuamente sulla sua fronte, per renderli graditi davanti all’Eterno” {Esodo 28: 36-38}.
“Un misericordioso e fedele sommo sacerdote nelle cose che riguardano Dio, per fare l’espiazione dei peccati del popolo” {Ebrei 2: 17}. Lui era il mediatore che intercedeva per i colpevoli. Il sommo sacerdote rappresentava tutto il popolo. E tutti gli israeliti erano inclusi in lui. Che il sommo sacerdote rappresentasse l’intera congregazione appare, in primo luogo, dal fatto che portava sulle spalle i nomi delle tribù per mezzo delle pietre d’onice, e, in secondo luogo, nei nomi delle tribù incisi nelle dodici gemme del pettorale. La spiegazione divina di questa doppia rappresentazione di Israele nell’abito del sommo sacerdote è che “porterà i loro nomi davanti all’Eterno sulle sue due spalle, per ricordo” {Esodo 28: 12, 29}. Inoltre, la colpa del peccato da lui commesso coinvolgeva anche l’intero popolo: “se pecca il sacerdote che è stato unto, rendendo così il popolo colpevole” {Levitico 4: 3}. La Septuaginta (Versione dei Settanta) dice: “se il sacerdote unto pecca in modo da far peccare il popolo”. Il sacerdote unto, ovviamente, è il sommo sacerdote. Quando ha peccato, il popolo ha peccato. L’intera nazione partecipava alla violazione del loro rappresentante. Ma anche il contrario sembra essere altrettanto vero. Ciò che il sacerdote faceva nella sua veste ufficiale, come prescritto dal Signore, veniva considerato come adempiuto anche da tutta la congregazione: “ogni sommo sacerdote, preso fra gli uomini, è costituito per gli uomini” {Ebrei 5: 1}, (The National Standard Bible Encyclopedia, vol. 4, pagina 2439).
Va sottolineato il carattere rappresentativo del sommo sacerdote. Adamo era il rappresentante dell’umanità. Quando lui peccò, anche il mondo peccò e la morte passò su tutti gli uomini {Romani 5: 12}. “per la trasgressione di quell’uno solo la morte ha regnato a causa di quell’uno… per una sola trasgressione la condanna si è estesa a tutti gli uomini” {Romani 5: 17-19}.
Allo stesso modo Cristo, essendo il secondo uomo e l’ultimo Adamo, era anch’Esso il rappresentante dell’umanità. “Così sta anche scritto: «Il primo uomo, Adamo, divenne anima vivente» ma l’ultimo Adamo è Spirito che dà la vita… Il primo uomo, tratto dalla terra, è terrestre; il secondo uomo, che è il Signore, è dal cielo” {1 Corinzi 15: 45-47}. “Come per una sola trasgressione la condanna si è estesa a tutti gli uomini, così pure con un solo atto di giustizia la grazia si è estesa a tutti gli uomini in giustificazione di vita” {Romani 5: 18}. “Infatti, come per la disubbidienza di un solo uomo i molti sono stati costituiti peccatori, così ancora per l’ubbidienza di uno solo i molti saranno costituiti giusti” {Romani 5: 19}. “Perché, come tutti muoiono in Adamo, così tutti saranno vivificati in Cristo” {1 Corinzi 15: 22}.
Il sommo sacerdote, essendo in un senso speciale una figura di Cristo, era anche lui il rappresentante dell’umanità. Schierandosi dalla parte d’Israele, ha portato i loro fardelli e peccati. Ha portato l’iniquità di tutte le cose sante. Ha sopportato il loro giudizio. Quando lui peccava, anche Israele peccava. Ma quando faceva l’espiazione per sé stesso, Israele veniva accettato.
Per assistere Aaronne e i suoi figli nel loro servizio riguardo al santuario, Dio scelse i membri della tribù di Levi, tribù che in più occasioni aveva mostrato il suo zelo per il Signore. In origine, tutti i primogeniti dell’uomo e degli animali appartenevano al Signore, secondo questo preciso comando: “Consacrami ogni primogenito, quello che apre il grembo tra i figli d’Israele, tanto di uomini che di animali; esso mi appartiene” {Esodo 13: 2}. Un’ulteriore spiegazione viene data in questo passaggio: “quando in avvenire tuo figlio ti interrogherà dicendo: «Che significa questo?», gli risponderai: «L’Eterno ci fece uscire dall’Egitto, dalla casa di schiavitù, con mano potente; e avvenne che, quando il Faraone si ostinò a non lasciarci andare, l’Eterno uccise tutti i primogeniti nel paese d’Egitto tanto i primogeniti degli uomini che i primogeniti degli animali. Per questo io sacrifico all’Eterno tutti i maschi che aprono il grembo, ma riscatto ogni primogenito dei miei figli»” {Esodo 13: 14-15}. Dio aveva benevolmente risparmiato i primogeniti degli israeliti; eppure aveva ucciso quelli d’Egitto. In vista di ciò, Dio rivendicò come Sua proprietà, tutti i primogeniti degli uomini e degli animali. Quelli degli animali venivano sacrificati a Dio, mentre quelli degli uomini venivano consacrati a Dio, e poi veniva pagata una somma di riscatto di cinque sicli {Numeri 3: 46-47}.
Questa legge riguardo ai primogeniti fu in seguito modificata a causa dell’allontanamento di Israele da Dio nell’occasione in cui danzarono e adorarono il vitello d’oro. Quando Mosè scese dal monte, dove aveva ricevuto le due tavole della legge contenenti i dieci comandamenti, “vide il vitello e le danze; allora l’ira di Mosè si accese ed egli gettò dalle mani le tavole e le spezzò ai piedi del monte. Poi prese il vitello che essi avevano fatto, lo bruciò col fuoco e lo ridusse in polvere; e sparse la polvere sull’acqua e la fece bere ai figli d’Israele” {Esodo 32: 19-20}. Poi fece un appello: “chiunque è per l’Eterno, venga a me!». E tutti i figli di Levi si radunarono vicino a lui” {Esodo 32: 26}. Quindi comandò ai Leviti di uccidere tutti i ribelli tra il popolo, il che fu prontamente fatto: “i figli di Levi fecero come aveva detto Mosè, e in quel giorno caddero circa tremila uomini” {Esodo 32: 28}.
Poiché la tribù di Levi ha risposto alla chiamata di Dio alla consacrazione, il Signore ha scelto loro al posto dei primogeniti. “Prendi i Leviti al posto di tutti i primogeniti dei figli d’Israele, e il bestiame dei Leviti al posto del loro bestiame; i Leviti saranno miei. Io sono l’Eterno” {Numeri 3: 45}. Man mano che i Leviti venivano contati, si scoprì che erano 22.000 {Numeri 3: 19}. Mentre i primogeniti erano solo 273 in più {Numeri 3: 43}. Dio chiese che fossero dati cinque sicli per ciascuno di questi 273, ovvero una somma totale di 1.365 sicli, i quali furono dati ad Aaronne e ai suoi figli {Numeri 3: 47-51}. Questo costituisce un’interessante lezione sull’esattezza con cui Dio tiene i conti.
L’opera che i leviti dovevano svolgere nel tempio era di eseguire “il servizio dell’Eterno” {Numeri 8: 11}, di svolgere “il servizio del tabernacolo”, di avere “cura di tutti gli utensili della tenda di convegno e adempiranno alle obbligazioni dei figli d’Israele” {Numeri 3:7-8}. “Tu darai i Leviti ad Aaronne e ai suoi figli; essi gli sono interamente dati dal mezzo dei figli d’Israele” {Numeri 3: 9}. “Fa’ avvicinare la tribù dei Leviti e presentala davanti al sacerdote Aaronne, perché stia al suo servizio” {Numeri 3: 6}. I Leviti usati per questo servizio dovevano essere dai “venticinque anni in su il Levita entrerà a compiere il lavoro nel servizio della tenda di convegno; e all’età di cinquant’anni smetterà di compiere questo lavoro di servizio e non servirà più” {Numeri 8: 24-25}. Dopo i cinquant’anni però potevano ancora svolgere un certo lavoro: “potrà assistere i suoi fratelli nella tenda di convegno, mentre svolgono le loro mansioni; ma egli stesso non compirà alcun servizio” {Numeri 8: 26}.
La cerimonia pubblica in cui Dio scambiò i primogeniti con i leviti fu bella e imponente. A Mosè fu comandato di prendere tutti i Leviti “per purificarli: spruzzerai su di essi l’acqua di purificazione; quindi faranno passare il rasoio su tutto il loro corpo, laveranno le loro vesti e si purificheranno” {Numeri 8: 7}. Poi furono condotti davanti a tutta l’assemblea d’Israele, che era radunata presso il tabernacolo. Qui i figli d’Israele “poseranno le loro mani sui Leviti; quindi Aaronne presenterà i Leviti come offerta agitata davanti all’Eterno da parte dei figli d’Israele, perché compiano il servizio dell’Eterno” {Numeri 8: 10-11}. Dopodiché Mosè offrì un olocausto per il peccato “all’Eterno, per fare l’espiazione per i Leviti” {Numeri 8: 12}.
“Così fecero Mosè, Aaronne e tutta l’assemblea dei figli d’Israele rispetto ai Leviti; i figli d’Israele fecero ai Leviti tutto ciò che l’Eterno aveva ordinato a Mosè relativamente a loro. E i Leviti si purificarono e lavarono le loro vesti; poi Aaronne li presentò come un’offerta agitata davanti all’Eterno e fece l’espiazione per loro, per purificarli. Dopo questo i Leviti entrarono a compiere il loro servizio nella tenda di convegno in presenza di Aaronne e dei suoi figli. Essi fecero ai Leviti ciò che l’Eterno aveva ordinato a Mosè nei loro confronti” {Numeri 8: 20-22}.
Le parole “sacrificio” e “offerta” nei versetti citati nell’originale sarebbero “onda” e “onda offerta”. Alcune offerte venivano agitate “davanti al Signore” prima di essere usate dal popolo. L’offerente prendeva un covone d’orzo, o parte dell’oblazione oppure la spalla destra di un animale e, in piedi davanti all’altare dell’olocausto, lo presentava al Signore per la sua approvazione, spostandolo lentamente da un lato all’altro o verso l’alto e poi verso il basso, dedicandolo così al Signore. Allo stesso modo gli Israeliti presentarono i Leviti al Signore, chiedendogli di accettarli come un’offerta al loro posto. “Aaronne presenterà i Leviti come offerta agitata davanti all’Eterno da parte dei figli d’Israele, perché compiano il servizio dell’Eterno” {Numeri 8: 11}. Attraverso questa offerta gli Israeliti dichiaravano: “abbiamo peccato e infranto la Tua alleanza. Non ci siamo pentiti né ci siamo schierati dalla Tua parte quando è stato fatto l’appello. Ora ci dispiace, e Ti chiediamo umilmente perdono. Riconosciamo la Tua giustizia nello scegliere i Leviti invece dei nostri primogeniti. Non siamo degni di servirti o di ministrare nel Tuo Tabernacolo. Presentiamo i Leviti al posto nostro. Accettali, o Signore, come nostra offerta”.
Dio aveva voluto fare di Israele “un regno di sacerdoti e una nazione santa” {Esodo 19: 6}. Il privilegio speciale dei sacerdoti è che possano “avvicinarsi” a Dio. Quando Dio si rivolse a loro, “il popolo tremava e si teneva a distanza” {Esodo 20: 18}. Separandosi così da Dio, chiedendo a Mosè di parlare a loro invece che il Signore e danzando davanti al vitello d’oro, avevano rifiutato l’offerta di Dio per fare di loro un regno di sacerdoti, e avevano infranto l’alleanza. Perciò Dio li respinse, e invece che l’intera nazione fosse un regno di sacerdoti, solo la tribù di Levi fu scelta per quell’onore. Ma Dio non ha abbandonato il Suo popolo. Accettando i Leviti “al posto” del popolo, accettò Israele. D’ora in poi Israele poteva avvicinarsi a Dio attraverso il ministero di coloro che Dio aveva nominato per il servizio. Aaronne e i suoi figli erano della tribù di Levi. Così come anche tutti i Leviti. Ora Dio si sarebbe rivelato agli uomini della tribù di Levi. Nessun altro potrebbe venire davanti a Lui nel santuario. Ma Israele non veniva escluso dalla presenza di Dio. Li avrebbe accettati quando, in segno di penitenza, avrebbero portato le loro offerte nel Suo cortile. Là i sacerdoti avrebbero ministrato per loro; prendendo il sangue del sacrificio e mettendolo sui corni dell’altare; sarebbero passati nel “luogo santo” e avrebbero offerto le loro preghiere che salivano in alto con il sacro incenso. Avrebbero preso su di loro il peccato del penitente e ne avrebbero fatto espiazione; e nella persona del sommo sacerdote sarebbero persino apparsi davanti al trono della misericordia di Dio per la cancellazione dei peccati.
Tutte queste cose furono accettate quando vennero imposte le mani sui Leviti, essendo offerti davanti a Dio al loro posto. Attraverso il servizio sacrificale e il ministero dei sacerdoti veniva ristabilita la comunione con Dio, solo quando i loro sacrifici venivano offerti per fede, manifestando un’esplicita fiducia in un Redentore che doveva venire per togliere il loro peccato.
Dopo che Dio ebbe scelto Aaronne e i suoi figli per il sacerdozio, fu necessario che passassero attraverso un periodo di preparazione e di formazione per i loro nuovi doveri, che culminò con il loro pubblico riconoscimento della carica. Ogni singolo passo di questo processo fu delineato da Dio stesso e comunicato a Mosè, che eseguì fedelmente il comando di Dio. Questa consacrazione fu un’occasione molto solenne, che durò sette giorni. Durante questo periodo i candidati non potevano lasciare il santuario {Levitico 8: 33}. Sacrifici, purificazioni e unzioni facevano parte del programma di ogni giorno.
Il lavaggio
La prima cerimonia era quella del lavaggio.
“L’Eterno parlò ancora a Mosè, dicendo: «prendi Aaronne e i suoi figli con lui, le vesti, l’olio dell’unzione, il torello del sacrificio per il peccato, i due montoni e il paniere dei pani azzimi, e raduna tutta l’assemblea all’ingresso della tenda di convegno». Allora Mosè fece come l’Eterno gli aveva ordinato, e l’assemblea fu radunata all’ingresso della tenda di convegno. Mosè disse all’assemblea: «Questo è ciò che l’Eterno ha ordinato di fare». Quindi Mosè fece avvicinare Aaronne e i suoi figli e li lavò con acqua” {Levitico 8: 1-6}.
Poiché questo lavaggio era un atto simbolico, un simbolo della rigenerazione {Tito 3: 5}, ai sacerdoti non era permesso di lavarsi da soli. Dio stava insegnando loro che la purezza di cui avevano bisogno non era qualcosa che potevano fornire da loro stessi. Qualcun altro doveva fornirgliela. Deve essere stata una strana esperienza per Aaronne essere stato lavato da Mosè. Si può facilmente immaginare che mentre i due fratelli procedevano verso la conca, le loro menti erano impregnate dal significato di ciò che stavano per fare. Mosè ricevette chiare istruzioni dal Signore e informò Aaronne di ciò che doveva essere fatto. Può darsi che Aaronne abbia lievemente obiettato, pensando di essere in grado di lavarsi da solo. Questo sembra essere implicito nella replica di Mosè che disse: “questo è ciò che l’Eterno ha ordinato di fare” {Levitico 8: 5}. Dalla sua intima relazione con Dio aveva una migliore comprensione delle esigenze di Dio rispetto ad Aaronne. Questo non era un lavaggio normale; simboleggiava una purificazione spirituale. Aaronne non poteva purificarsi dal peccato. Qualcuno doveva farlo per lui. Ecco il significato del lavaggio.
L’investitura
Dopo il lavaggio avvenne l’investitura di Aronne e dei suoi figli con le vesti sacre. Anche questo era un atto simbolico; quindi, non erano autorizzati a vestirsi da soli. Mosè, quale rappresentante di Dio, fece indossare ad Aaronne “la tunica, lo cinse con la cintura, gli fece indossare il mantello, gli mise l’efod, e lo cinse con la cintura artisticamente lavorata dell’efod, con la quale gli fissò l’efod addosso. Gli mise pure il pettorale e sul pettorale pose l’Urim e il Thummim. Poi gli mise in capo il turbante e sul davanti del turbante pose la piastra d’oro, il santo diadema, come l’Eterno aveva ordinato a Mosè” {Levitico 8: 7-9}. Lo stesso fu fatto ai figli di Aaronne. “Poi Mosè fece avvicinare i figli di Aaronne, li vesti di tuniche, li cinse di cinture e mise su di loro dei copricapo come l’Eterno aveva ordinato a Mosè” {Levitico 8: 13}.
A questo punto Aaronne deve essersi sentito completamente impotente. Non c’era niente che potesse fare da sé stesso? Bisognava che fossero gli altri a fare tutto per lui? Non gli sarebbe nemmeno permesso di indossare il turbante da solo? No, Aaronne doveva sottomettersi al comando di Dio. Doveva sentire la propria impotenza. Doveva imparare che nulla di ciò che faceva da sé sarebbe stato accettato da Dio. Doveva imparare la lezione di una dipendenza completa. È Dio che lo stava preparando. Dio lo stava rivestendo della Sua propria giustizia. “I tuoi sacerdoti siano rivestiti di giustizia, e cantino di gioia i tuoi santi” {Salmo 132: 9}.
Aaronne ora è completamente vestito. Ha addosso la lunga veste, con i campanelli e le melograne. L’efod con le due belle pietre di onice, sulle quali sono incisi i nomi dei figli d’Israele; il pettorale con le dodici pietre, l’Urim e il Thurnmim, il turbante e la piastra d’oro con la scritta “SANTITÀ AL SIGNORE”. Aronne ora è lavato, pulito e vestito.
L’unzione di Aronne
L’atto successivo era quello dell’unzione. L’olio santo veniva versato da Mosè sul capo di Aaronne. Il comando di Dio era: “Poi prenderai l’olio dell’unzione, lo verserai sul suo capo e lo ungerai” {Esodo 29: 7}. “Versò quindi un po’ dell’olio dell’unzione sul capo di Aaronne e lo unse per consacrarlo” {Levitico 8: 12}. Poiché l’investitura di Aaronne con le vesti sacerdotali era un riconoscimento davanti agli uomini della posizione ufficiale che doveva ricoprire d’ora in poi, così l’unzione era l’accettazione da parte di Dio di lui e del suo sacro incarico, era la testimonianza dell’idoneità di Aaronne per questo ruolo. “La consacrazione dell’unzione del suo DIO è su di lui”, ed è pienamente accettato da Dio e a Lui dedicato {Levitico 21: 12}.
“Dio non gli dà lo Spirito con misura” è la conclusione a cui giunge Giovanni contemplando l’opera di Cristo {Giovanni 3: 34}. L’unzione di Aronne, che era un versamento sovrabbondante di olio santo, è proprio il simbolo di ciò. “E’ come l’Olio prezioso sparso sul capo, che scende sulla barba di Aaronne, che scende fino all’Orlo delle sue vesti” {Salmo 133: 2}. Questa pienezza nel versare l’olio dell’unzione indicava senza dubbio la pienezza dello Spirito che doveva posarsi su Aaronne mentre ministrava, davanti a Dio {1 Samuele 10: 1, 6; 1 Samuele 16: 13; Isaia 61: 1; Luca 4: 18; Atti 10: 38}.
L’unzione del Tabernacolo
Il racconto della consacrazione e dell’unzione di Aronne è strettamente intrecciato con quello della consacrazione e dell’unzione del tabernacolo. Quando Dio diede istruzioni a Mosè, gli disse di fare un “olio per l’unzione sacra” e “con esso ungerai la tenda di convegno e l’arca della testimonianza la tavola e tutti i suoi utensili, il candelabro e i suoi utensili, l’altare dell’incenso, l’altare degli olocausti e tutti i suoi utensili, la conca e la sua base”. E “consacrerai così queste cose e saranno santissime; tutto quello che le toccherà, sarà santo” {Esodo 30: 25-29}. Secondo questo comando “Mosè prese l’olio dell’unzione, unse il tabernacolo e tutte le cose che vi si trovavano, e così le consacrò. Con un po’ d’olio asperse sette volte l’altare, unse l’altare e tutti i suoi utensili, e la conca e la sua base, per consacrarli” {Levitico 8: 10-11}. Prima che Aaronne iniziasse il suo lavoro di ministero in entrambi gli appartamenti, è interessante notare che sia il luogo santo sia il luogo santissimo furono unti al momento della dedicazione. Questa unzione includeva l’arca della testimonianza, la tavola di presentazione con tutti i suoi vasi, il candelabro con i suoi vasi, e l’altare dell’incenso, e, di fatto, l’intero “il tabernacolo e tutte le cose che vi si trovavano” {Esodo 30: 26-27; Levitico 8: 10}.
Due offerte
Terminata l’unzione, veniva portato un torello come sacrificio per il peccato. “Aaronne e i suoi figli posarono le loro mani sulla testa del torello del sacrificio per il peccato. Mosè lo scannò, ne prese del sangue, lo mise col dito sui corni dell’altare tutt’intorno e purificò l’altare; poi sparse il sangue alla base dell’altare e lo consacrò per fare su di esso l’espiazione” {Levitico 8: 14-15}.
Il sangue del torello non veniva portato nel santuario, come di solito accadeva con il sangue dei sacrifici, ma venne messo sui corni dell’altare dell’olocausto e il resto versato alla sua base. Questo atto purificava e santificava l’altare, “per fare su di esso l’espiazione” {Levitico 8: 15}. Va sottolineato che questa offerta non era per Aaronne o per i suoi figli. Era per l’altare. Fino a quel momento non era stato fatto alcun sacrificio su di esso. Eppure aveva bisogno di purificazione e santificazione affinché si potesse fare su di esso la riconciliazione. Questa offerta per il peccato non ha trasferito il peccato sull’altare, come veniva fatto in altre occasioni. Purificava l’altare, non da un peccato specifico, ma dal peccato in generale.
Di solito un olocausto era accompagnato da un sacrificio per il peccato, e così avveniva anche qui. Aaronne e i suoi figli posero le mani sul montone per l’olocausto, che fu immolato e Mosè ne asperse il sangue tutt’intorno sull’altare {Levitico 8: 18-19}. Il montone veniva poi consumato sull’altare come un odore soave {Levitico 8: 21}, in contrasto con il torello, che veniva portato fuori dell’accampamento e bruciato {Levitico 8: 17}.
Sia il sacerdozio che il tabernacolo furono consacrati e unti in preparazione al servizio. Aaronne e i suoi figli furono sottoposti a un lavaggio cerimoniale; poi furono vestiti e Aaronne ricevette un’unzione speciale. Fu anche unto il tabernacolo, che comprendeva il luogo santo e il luogo santissimo, con tutti gli arredi, compresa l’arca stessa. Per l’altare dell’olocausto si fece un sacrificio espiatorio speciale, per purificarlo e santificarlo, affinché su di esso si compisse la riconciliazione.
Il montone della consacrazione
La cerimonia del “montone di consacrazione” fu l’ultimo atto della consacrazione e dedicazione di Aaronne, dei suoi figli e del tabernacolo. Con essa la dedicazione fu completata, Aaronne e i suoi figli ricevettero l’autorità di svolgere i servizi di mediazione legati al loro sacerdozio.
Nel racconto di Mosè, il montone della consacrazione è chiamato “il secondo montone” {Levitico 8: 22}, poiché un montone era già stato usato per l’olocausto precedente {Levitico 8: 18} Aaronne e i suoi figli misero le mani sul montone. “Mosè quindi lo scannò, e prese un po’ del suo sangue e lo mise sull’estremità dell’orecchio destro di Aaronne e sul pollice della sua mano destra e sul dito grosso del suo piede destro. Poi Mosè fece avvicinare i figli di Aaronne e pose un po’ di sangue sull’estremità del loro orecchio destro, sul pollice della loro mano destra e sul dito grosso del loro piede destro; e Mosè spruzzò il resto del sangue tutt’intorno sull’altare” {Levitico 8: 23-24}.
L’applicazione del sangue sull’orecchio di Aronne indicava senza dubbio la sua consacrazione al servizio di Dio. D’ora in poi Aaronne doveva ascoltare diligentemente i comandamenti di Dio e chiudere le orecchie al male. Questa lezione è per tutti e per sempre, è proficua sia per i ministri che per i laici. Bene sarebbe se fosse presa in considerazione. “Gradisce forse l’Eterno gli olocausti e i sacrifici come l’ubbidire alla voce dell’Eterno? Ecco l’ubbidienza è migliore del sacrificio, e ascoltare attentamente è meglio del grasso dei montoni” {1 Samuele 15: 22}.
Questo porre il sangue sul pollice della mano destra di Aaronne significava che d’ora in poi avrebbe dovuto fare la giustizia. Proprio come l’udito ha a che fare con la mente, così la mano ha a che fare con l’attività del corpo {Ecclesiaste 9: 10}. Rappresenta le forze vitali, l’atto esteriore, il fare, la rettitudine. Di Cristo è scritto: “Ecco, io vengo nel rotolo del libro è scritto di me; io vengo per fare, o Dio, la tua volontà” {Ebrei 10: 7}. “Gesù disse loro: Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e di compiere l’opera sua” {Giovanni 4: 34}. Toccare la mano con il sangue significa consacrare la vita, con tutta la dedizione, al servizio di Dio.
Mettere il sangue sul dito grosso del piede ha un significato simile. Significa camminare in modo giusto, eseguire le richieste di Dio, difendere la verità e la rettitudine. Significa percorrere la via dell’obbedienza, avere i propri passi orientati dal Signore. Ogni facoltà dell’essere deve essere dedicata a Dio e consacrata al Suo servizio.
Dopo aver così sparso il sangue su Aaronne e sui suoi figli, Mosè asperse il sangue sull’altare degli olocausti con il sangue del montone della consacrazione. L’altare era già stato unto d’olio; su di esso era già stato applicato il sangue del sacrificio per il peccato e il sangue dell’olocausto {Levitico 8: 10, 15, 19, 24}. Ora venne asperso con il sangue del montone della consacrazione.
Terminata questa parte del servizio, Mosè prese la spalla destra del montone, insieme al grasso e alle altre parti dell’animale, vi aggiunse una focaccia senza lievito, una focaccia di pane all’olio e una schiacciata, Aaronne e i suoi figli posarono le loro mani su queste cose e le offrirono come un’offerta agitata davanti al Signore. Dopo questo, vennero bruciate sull’altare come odore soave. Mosè allora prese il petto del montone, la parte che gli era stata data, e l’agitò davanti al Signore {Levitico 8: 25-29}.
Aspergere l’olio e il sangue
Dopo questo Mosè “prese quindi dell’olio dell’unzione e del sangue che era sopra l’altare e lo spruzzò su Aaronne, sulle sue vesti, sui suoi figli e sulle vesti dei suoi figli con lui; così consacrò Aaronne, le sue vesti, i suoi figli e le vesti dei figli con lui” {Levitico 8: 30}.
Il tabernacolo era già stato unto con l’olio santo, come anche Aaronne {Levitico 8: 10-12}. Ora sangue e olio vengono aspersi su Aaronne e sui suoi figli, e anche sulle loro vesti. Questa aspersione “consacrò Aaronne, le sue vesti, i suoi figli e le vesti dei figli con lui”.
Come atto finale di questa cerimonia di consacrazione, Mosè disse ad Aaronne e ai suoi figli di prendere la carne rimasta dell’offerta agitata e prepararla per essere mangiata. “Fate cuocere la carne all’ingresso della tenda di convegno e là mangiatela col pane che è nel paniere della consacrazione, come ho ordinato, dicendo: «Aaronne e i suoi figli la mangeranno». Quel che rimane della carne e del pane lo brucerete col fuoco” {Levitico 8: 31-32}. Questo era in armonia con il comando riportato in {Esodo 29: 33} “Mangeranno le cose che sono servite per fare l’espiazione per consacrarli e santificarli; ma nessun estraneo ne mangerà, perché sono cose sante”.
È da notare che questo mangiare la carne del montone della consacrazione è in contrasto con il mangiare la carne «dell’offerta per il peccato». Il consumo della carne del montone della consacrazione doveva “consacrarli e santificarli”, mentre il mangiare la carne del torello del sacrificio per il peccato aveva lo scopo di portare il peccato, “affinché portiate l’iniquità dell’assemblea, perché facciate l’espiazione per loro davanti all’Eterno” {Levitico 10: 17}. Queste due cerimonie, con questi due scopi distinti, non devono essere confuse.
Aronne all’altare
Durante i sette giorni della consacrazione né Aaronne né i suoi figli dovevano svolgere alcun servizio sacerdotale connesso al ministero del sangue, non dovevano neanche entrare nel santuario. Mosè fece l’unzione del tabernacolo e degli arredi, l’aspersione di Aronne e dei suoi figli con il sangue e con l’olio, l’applicazione del sangue del sacrificio per il peccato, l’olocausto e il montone della consacrazione. Fu Mosè che entrò nel luogo santissimo e asperse l’arca; fu lui che “con quel sangue egli asperse pure il tabernacolo e tutti gli arredi del servizio divino” {Ebrei 9: 21}.
Solo alla fine del periodo di sette giorni, di consacrazione e preparazione di Aaronne e dei suoi figli, essi potevano iniziare il loro servizio come sacerdoti.
“Or avvenne nell’ottavo giorno che Mosè chiamò Aaronne, i suoi figli e gli anziani d’Israele, e disse ad Aaronne: «Prendi un vitello per il sacrificio per il peccato e un montone per un olocausto, ambedue senza difetto, e offrili davanti all’Eterno. Parlerai quindi ai figli d’Israele, dicendo: Prendete un capro per un sacrificio per il peccato, un vitello e un agnello, ambedue di un anno, senza difetto, per un olocausto, un torello e un montone per un sacrificio di ringraziamento, per sacrificarli davanti all’Eterno, e un’offerta di cibo, mescolata con olio, perché oggi l’Eterno vi apparirà»” {Levitico 9: 1-4}.
Aaronne doveva ora iniziare il servizio a cui era stato dedicato. Offrì il sacrificio per il proprio peccato e per l’olocausto; poi offrì il sacrificio espiatorio con l’olocausto e l’oblazione per il popolo; ed infine offrì il torello e il montone per il sacrificio di ringraziamento {Levitico 9: 18}. Tutto ciò lo fece “secondo la regola stabilita”, cioè secondo le indicazioni e le istruzioni date dal Signore per mezzo di Mosè {Levitico 9: 16}. Il sangue dell’offerta per il peccato veniva versato sui corni dell’altare dell’olocausto, e il sangue dell’olocausto veniva asperso sull’altare “tutt’intorno” {Levitico 9: 9, 12}. Anche il sangue di ringraziamento veniva spruzzato allo stesso modo del sangue dell’olocausto {Levitico 9: 18}.
Tutto questo, veniva osservato attentamente da Mosè. Lui era colui al quale il Signore aveva comunicato la Sua volontà. Era lui che aveva istruito Aaronne e i suoi figli, e ora si stava assicurando che tutto fosse fatto “secondo la regola stabilita”. Ad esempio, sarebbe stato un grave errore per Aaronne spargere il sangue dell’offerta per il peccato sull’altare tutt’intorno. Non doveva mai essere fatto. Il sangue dell’offerta per il peccato doveva essere versato sui corni dell’altare. Allo stesso modo, sarebbe stato un grave errore mettere il sangue dell’olocausto sui corni dell’altare. Non doveva mai essere fatto. Doveva essere spruzzato sull’altare tutt’intorno. Il simbolismo richiedeva che fosse fatto esattamente nel modo in cui Dio aveva comandato a Mosè.
Finora Aaronne non ha commesso errori. Tutto è stato fatto così come aveva comandato Mosè! {Levitico 9: 2l}.
Aaronne nel Santuario
Mentre Aaronne stava ancora in piedi sull’altura dell’altare dei sacrifici, dopo avervi finito la sua opera, “Aaronne alzò le sue mani verso il popolo e lo benedisse; dopo aver fatto il sacrificio per il peccato, l’olocausto e i sacrifici di ringraziamento discese dall’altare” {Levitico 9: 22}. Finora aveva officiato solo presso l’altare degli olocausti nel cortile, e non era ancora entrato nel tabernacolo. Come Mosè lo aveva precedentemente istruito riguardo a ciò che doveva fare, così ora Mosè andò con Aaronne nel primo compartimento del santuario per istruirlo. “Quindi Mosè ed Aaronne entrarono nella tenda di convegno”, normalmente chiamato “luogo santo” {Levitico 9: 23}. Non ci è dato sapere che cosa avvenne lì, ma non sbaglieremo molto nel ritenere che Mosè istruì Aronne riguardo all’accensione delle lampade, alla disposizione del pane della presentazione. All’offerta dell’incenso e a come spruzzare il sangue sui corni dell’altare dell’incenso.
Come detto, questa era la prima volta che Aaronne si trovava all’interno del tabernacolo. Quali devono essere stati i suoi sentimenti mentre si trovava faccia a faccia con l’altare, il candelabro, la tavola del pane di presentazione e, soprattutto, quel velo misterioso, dietro il quale c’era la presenza stessa di Dio! Quale grande responsabilità doveva essere sua, da quel momento in poi!
Mosè e Aaronne “poi uscirono e benedissero il popolo. Allora la gloria dell’Eterno apparve a tutto il popolo. Quindi un fuoco uscì dalla presenza dell’Eterno e consumò sull’altare l’olocausto e il grasso; tutto il popolo lo vide, proruppe in grida di gioia e si prostrò con la faccia a terra” {Levitico 9: 23-24}. Dio aveva adempiuto la Sua promessa: “oggi l’Eterno vi apparirà” {Levitico 9: 4}.
Dio aveva accettato l’opera dell’uomo. Il santuario era ora consacrato e dedicato. Così erano anche i sacerdoti. Tutto era ora pronto per iniziare il servizio per Israele.
Il tempio e il suo servizio cerimoniale costituirono una meravigliosa fonte di lezioni per Israele. Aveva lo scopo di insegnare all’uomo la sua peccaminosità e la via attraverso la quale raggiungere la santità di Dio. Una delle lezioni più importanti del sistema sacrificale era quella di insegnare al sacerdote e al popolo ad odiare il peccato e di evitarlo sotto ogni forma. Quando un uomo peccava inavvertitamente o per errore, ci si aspettava che portasse un’offerta per il peccato al tempio.
Il primo requisito nel rituale sacrificale era l’imposizione delle mani sull’animale e la confessione del peccato da parte del peccatore. Poi con quelle stesse mani doveva uccidere l’animale. Dopo questo, il sacerdote doveva prendere del sangue e metterlo sui corni dell’altare dei sacrifici. Le interiora venivano poi bruciate con il grasso sull’altare, e una parte della carne veniva mangiata dai sacerdoti nel luogo santo.
Questo veniva fatto per insegnare l’orrore per il peccato. Dio intendeva che questa avversione per il peccato fosse così grande che gli uomini da quel momento se ne andassero e non peccassero più {Giovanni 5: 14; Giovanni 8: 11}.
A nessuna persona normale piace uccidere un animale innocente, soprattutto se si rende conto che è a causa dei suoi peccati che l’animale deve morire. Un sacerdote normale non si rallegrerebbe certo del servizio del sangue che è costretto a compiere a causa del peccato. Stare in piedi tutto il giorno, lavorare con animali morti, intingere il dito nel sangue e cospargerlo sull’altare, non poteva essere molto attraente o piacevole. Dio stesso dice “il sangue dei tori, degli agnelli e dei capri non lo gradisco” {Isaia 1: 11}. Nemmeno il vero Sacerdote, Gesù Cristo.
Il sistema sacrificale offriva ai sacerdoti un’eccellente opportunità per insegnare il piano di salvezza ai trasgressori. Quando un peccatore portava la sua offerta, il sacerdote poteva dirgli: “mi dispiace che tu abbia peccato, come sono sicuro che sei dispiaciuto. Sappi che Dio ha provveduto al perdono dei peccati. Hai portato un’offerta. Metti la mano su quell’offerta e confessa a Dio il tuo peccato. Uccidi poi l’agnello innocente, ed io prenderò il sangue, farò l’espiazione per te. L’agnello che stai uccidendo è il simbolo dell’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo. Il Messia deve venire e dare la Sua vita per il peccato del popolo. Attraverso il Suo sangue sei perdonato. Dio accetta il tuo ravvedimento. Va’ e non peccare più”.
Attraverso questo solenne rituale l’uomo sarebbe rimasto profondamente colpito dall’atrocità del peccato e si sarebbe allontanato dal tempio con la ferma determinazione di non peccare più. Il fatto che avesse ucciso un animale gli avrebbe insegnato, come nient’altro avrebbe potuto fare, che il peccato significa morte e che quando qualcuno pecca, l’agnello deve morire.
Pagare per il peccato
Bello e impressionante com’era questo servizio, c’era tuttavia il pericolo di pervertirne il significato. Se il peccatore avesse concepito l’idea che la sua offerta potesse pagare il prezzo del peccato che aveva commesso, e che se solo avesse portato un’offerta ogni volta dopo aver peccato tutto sarebbe andato bene, avrebbe avuto una concezione completamente sbagliata del piano di Dio. Eppure fu proprio così che molti arrivarono a considerare le richieste di Dio. Credevano che i sacrifici pagassero per i loro peccati, e che se avessero peccato di nuovo sarebbe bastato un altro sacrificio e così via.
Il pentimento e il vero dolore furono ridotti al minimo. La gente arrivò a credere che qualunque fosse il loro peccato poteva essere scusato con un’offerta. Presentando la loro offerta, pensavano di risolvere il problema. Molti dei sacerdoti incoraggiarono la gente dando adito a questo atteggiamento. Il peccato non era così ripugnante ai loro occhi come doveva essere. Era qualcosa che si poteva pagare con il dono di un agnello, che al massimo costava una piccola somma. Il risultato fu che le “migliaia di montoni” e le “miriadi di rivi d’olio” furono acquistati per piacere a Dio {Michea 6: 7}.
Perversione del simbolo
Il compenso dei sacerdoti derivava in gran parte dai sacrifici offerti dal popolo. In questo modo i sacerdoti arrivarono a considerare i sacrifici come un mezzo per accrescere il loro reddito. Oltre alle decime che ricevevano, i sacerdoti conservavano una parte dei sacrifici offerti. Ricevevano anche parte delle offerte di ringraziamento (farina, olio, grano, vino, denaro e sale), nonché offerte per occasioni speciali.
Il significato di queste ordinanze, quindi, venne facilmente pervertito. Alcuni sacerdoti corrotti si resero conto che più il popolo peccava, più agnelli per il peccato e la trasgressione sarebbero stati portati, e maggiore sarebbe stata la loro parte di guadagno. Arrivarono perciò al punto di incoraggiare le persone a peccare. Dei sacerdoti corrotti sta scritto: “Si nutrono del peccato del mio popolo e attaccano il loro cuore alla sua iniquità” {Osea 4: 8}. Questo testo afferma che i sacerdoti, invece di ammonire il popolo ed esortarlo ad astenersi dal peccato, riponevano il loro cuore nell’iniquità del popolo, loro speravano che il popolo peccasse di nuovo e tornasse con un’altra offerta. Era un vantaggio economico per i sacerdoti farsi portare molte offerte, perché ogni offerta era un’aggiunta al loro reddito. Man mano che il sacerdozio divenne sempre più corrotto, crebbe la tendenza ad incoraggiare le persone a portare offerte.
Un interessante commento sul fino a dove si sono spinti alcuni sacerdoti a pervertire le ordinanze è dato in {1 Samuele 2: 13-16}: “Ed ecco come si comportavano questi sacerdoti con il popolo: quando qualcuno offriva un sacrificio, il servo del sacerdote veniva, mentre la carne cuoceva con in mano un forchettone a tre punte e lo ficcava nella pentola o nel paiolo o nel calderone o nella pignatta, e tutto ciò che il forchettone tirava su il sacerdote lo teneva per sé. Così facevano con tutti gl’Israeliti che andavano a Sciloh. Anche prima che avessero fatto bruciare il grasso, il servo del sacerdote veniva e diceva a colui che faceva il sacrificio: «Dammi della carne da arrostire per il sacerdote, perché egli non accetterà da te carne cotta, ma cruda». E se l’uomo gli diceva: «Si faccia prima fumare il grasso, poi prenderai quanto vorrai» egli rispondeva: «No, me la devi dare ora; altrimenti la prenderò per forza»”.
Questo mostra il degrado del sacerdozio già in quel primo periodo. Dio aveva comandato che il grasso fosse bruciato sull’altare e che, se la carne fosse stata mangiata, fosse bollita. I sacerdoti, invece, volevano avere la carne cruda con il grasso, in modo da poterla arrostire. Per loro aveva cessato di essere un’offerta sacrificale, ed era diventata, invece, una golosa festa. “Perciò il peccato dei due giovani era molto grande davanti all’Eterno, perché si disprezzavano le offerte fatte all’Eterno” {1 Samuele 2: 17}.
Questa tendenza dei sacerdoti ad incoraggiare il popolo a portare offerte per il peccato piuttosto che ad astenersi dal peccato si è accentuata con il passare degli anni. Nel tabernacolo eretto per la prima volta da Mosè, l’altare degli olocausti era piuttosto piccolo, essendo solo quattro metri quadrati. Nel tempio di Salomone l’altare fu ampliato a quindici, ovvero circa quattro metri per lato. Nel tempio di Erode divenne ancora più grande. Sembra che l’altare dei sacrifici fosse sempre più grande proprio per accogliere le offerte poste su di esso.
Degrado crescente
Alla fine, venne il momento in cui Dio doveva fare qualcosa o l’intero servizio del tempio sarebbe diventato corrotto. Permise quindi che il tempio fosse distrutto e che molte persone furono portate in cattività a Babilonia. Con la scomparsa del tempio, le pratiche sarebbero naturalmente cessate. Le menti delle persone sarebbero state chiamate al significato spirituale delle ordinanze a cui avevano assistito così spesso, ma che ora non esistevano più. A Babilonia non c’era né olocausto né sacrificio per il peccato, non c’era neanche la festività solenne del giorno dell’espiazione. Israele appese le sue arpe ai salici.
Dopo settant’anni di prigionia Dio permise al popolo di tornare in patria e di ricostruire il tempio. Sperava che i loro figli avessero imparato il significato, ma non l’avevano fatto. L’altare dell’olocausto fu reso ancora più grande di prima. Il popolo si radicò sempre più fermamente nella mera forma del rituale sacrificale, e non diede ascolto al messaggio profetico che diceva: “l’ubbidienza è migliore del sacrificio” {1 Samuele 15: 22}. Il guadagno dei sacerdoti dalle offerte divenne grande; così grande, che il denaro accumulato nel tempio costituiva una delle più grandi fonti di ricchezza dell’antichità, e i sacerdoti divennero dediti al denaro.
In occasione di feste come la Pasqua, Gerusalemme era piena di ebrei in visita dalla Palestina e da altri paesi. Giuseppe Flavio ci dice che fino a un milione di visitatori erano nella città contemporaneamente. Al popolo di Israele fu comandato di non apparire a mani vuote davanti al Signore, così tutti questi pellegrini portavano con sé delle offerte {Deuteronomio 16: 16}. Per i sacerdoti era un’impossibilità fisica offrire così tanti sacrifici come sarebbe stato necessario ministrando per tutte quelle persone. Il popolo fu quindi incoraggiato a convertire le loro offerte in denaro e a lasciare questo denaro nel tempio come denaro per i sacerdoti. Ben presto si scoprì che era più facile e conveniente non portare da casa l’animale sacrificale, poiché l’offerente correva il rischio non solo di vedersi rifiutare l’animale dal sacerdote a causa di qualche difetto, reale o presunto, ma anche perché questa sarebbe stata un’ulteriore perdita per l’offerente. Vendere un animale che era stato rifiutato dai preti non era facile, soprattutto quando altri mille cercavano di fare la stessa cosa.
Per alcuni rituali si poteva usare solo il denaro del tempio, e su questo veniva addebitata una tassa. Questo cambio di denaro comune in denaro del tempio era un’altra fonte di grande reddito per la classe sacerdotale.
Come notato prima, i sacerdoti erano divisi in ventiquattro classi, ognuna delle quali doveva servire una settimana alla volta, due volte l’anno. Quando il ruolo del sommo sacerdote divenne anche di tipo politico, essendo nominato dal governo, la corruzione si diffuse, poiché era una posizione molto redditizia, perciò gli uomini iniziarono a fare offerte per acquistarsi l’incarico di sommo sacerdote, che veniva venduto al miglior offerente. Per riottenere questi soldi, il sommo sacerdote prese il controllo dell’ordine delle classi; la corruzione tornò a prevalere e furono molti i sacerdoti che furono chiamati a servire nel tempio delle grandi feste solo perché disposti a dividere il bottino con i funzionari superiori. L’ordine in cui dovevano servire i sacerdoti era stato cambiato e l’intero piano di Dio era stato corrotto. L’espressione usata da Cristo: “covo di ladroni” {Matteo 21: 13}, non era una mera espressione poetica, era letteralmente vero.
Un sacerdozio corrotto
“Il sacerdozio era diventato così corrotto che i sacerdoti non avevano scrupoli a compiere gli atti più disonesti e criminali per realizzare i loro intenti. Coloro che assunsero il ruolo di sommo sacerdote, prima e durante il primo avvento di Cristo, non erano uomini divinamente designati per quell’opera sacra. Avevano ardentemente aspirato a quell’incarico per amore del potere e dell’ambizione. Desideravano una posizione in cui potessero esercitare autorità e praticare la frode sotto un abito di pietà. Il sommo sacerdote ricopriva una posizione di grande potere e importanza. Non era solo il consigliere e il mediatore, ma anche giudice; non c’era alcun appello contro la sua decisione. Tuttavia i sacerdoti erano tenuti a freno dall’autorità dei romani e non avevano il potere di mettere a morte legalmente nessuno. Questa autorità spettava soltanto a coloro che governavano gli ebrei. Uomini dal cuore corrotto cercavano di ottenere l’incarico di sommo sacerdote, e spesso lo ottenevano con la corruzione e l’assassinio”.
“Quando Gesù entrò, si indignò nel trovare il cortile del tempio adibito a mercato del bestiame e luogo di commercio. Non c’erano solo le stalle per gli animali, ma c’erano dei tavoli dove gli stessi sacerdoti convertivano le valute di denaro. Era consuetudine che ogni persona che assisteva alla Pasqua portasse del denaro, che veniva poi offerto ai sacerdoti entrando nel tempio”.
“Il cambio di monete straniere, oltre il ricevere le offerte, era diventato un traffico vergognoso e una fonte di grande profitto per i sacerdoti. Molti venivano da lontano e non potevano portare le loro offerte sacrificali. Sotto la pretesa di offrire un servizio a tali persone, nel cortile esterno c’erano bovini, pecore, colombe e passeri in vendita a prezzi esorbitanti. La grande confusione del bestiame faceva pensare che ci si trovasse in un mercato rumoroso, piuttosto che nel sacro tempio di Dio. Si udivano aspre contrattazioni, compravendite, muggire di buoi, belare di pecore e tubare di colombe, mescolati al tintinnio di monete, e rabbiose dispute. Un gran numero di bestie veniva sacrificato ogni anno durante la Pasqua, il che rendeva immense le vendite al tempio. I mercanti realizzarono un grande profitto, che veniva condiviso con l’avaro sacerdozio e con gli uomini di autorità fra gli ebrei. Questi ipocriti speculatori, che si nascondevano dietro la loro santa professione, praticavano ogni sorta di estorsioni, e facevano della loro sacra professione una fonte di reddito personale”.
Queste condizioni, ovviamente, non esistevano in origine. Fu solo dopo secoli di trasgressione che la corruzione raggiunse le vette qui descritte. Tuttavia questi abusi cominciarono ad insinuarsi relativamente presto, come evidenziato nella citazione dal libro di Samuele nella prima parte di questo capitolo.
Poiché i sacerdoti persero di vista l’intento originario delle offerte e pervertirono il piano di Dio riguardo ai sacrifici, divenne necessario mandare loro degli avvertimenti. Per fare questo, Dio si è servito dei profeti. Fin dall’inizio il messaggio dei profeti al Suo popolo fu: “gradisce forse l’Eterno gli olocausti e i sacrifici come l’ubbidire alla voce dell’Eterno? Ecco l’ubbidienza è migliore del sacrificio, e ascoltare attentamente è meglio del grasso dei montoni” {1 Samuele 15: 22}. Per alcuni dei sacerdoti apostati sembrò una calamità che il popolo smettesse di peccare, perché in tal caso le offerte per il peccato sarebbero cessate. A questo si riferisce lo scrittore di Ebrei quando dice: “la legge infatti, avendo solo l’ombra dei beni futuri e non la realtà stessa delle cose, non può mai rendere perfetti quelli che si accostano a Dio con gli stessi sacrifici che vengono offerti continuamente, anno dopo anno. Altrimenti si sarebbe cessato di offrirli, perché gli adoratori, una volta purificati, non avrebbero avuto più alcuna coscienza dei peccati” {Ebrei 10: 1-2}.
Il profeta rimprovera l’apostasia
L’Antico Testamento può essere meglio compreso quando si comprende la lotta tra sacerdote e profeta. Fu una lotta tragica, che si concluse in molti casi con la vittoria dei sacerdoti. Il profeta è il portavoce di Dio. Le persone possono sbagliare e anche i sacerdoti possono sbagliare. Dio, però, non permette di essere lasciato senza testimoni e in tali circostanze invia un profeta al Suo popolo per riportarlo sulla retta via.
Si può facilmente immaginare che i profeti non fossero apprezzati dai sacerdoti. Mentre i sacerdoti prestavano servizio nel tempio ogni giorno, invitando il popolo a portare i loro sacrifici, Dio avrebbe comandato ai profeti di posizionarsi vicino alla porta del tempio, avvertendo il popolo di non portare più offerte. Il profeta Geremia ci dice: “questa è la parola che fu rivolta a Geremia da parte dell’Eterno dicendo: «Fermati alla porta della casa dell’Eterno e là proclama questa parola e di’: Ascoltate la parola dell’Eterno o voi tutti di Giuda che entrate per queste porte per prostrarvi davanti all’Eterno!». Cosí dice l’Eterno degli eserciti, il DIO d’Israele: «Emendate le vostre vie e le vostre opere, e io vi farò abitare in questo luogo. Non ponete la vostra fiducia in parole ingannatrici, dicendo: «Questo è il tempio dell’Eterno, il tempio dell’Eterno, il tempio dell’Eterno!»” {Geremia 7: 14}.
Dopo questo segue un ulteriore ammonimento da parte dei profeti al popolo, affinché modificasse le proprie vie e non confidasse nelle parole bugiarde. “Cosí voi rubate, uccidete, commettete adulteri, giurate il falso, bruciate incenso a Baal e andate dietro ad altri dèi che prima non conoscevate, e poi venite a presentarvi davanti a me in questo tempio su cui è invocato il mio nome e dite: Siamo salvi! per poi compiere tutte queste abominazioni” {Geremia 7: 9-10}.
Poi aggiunse: “Poiché io non parlai ai vostri padri e non diedi loro alcun ordine, quando li feci uscire dal paese d’Egitto, riguardo agli olocausti e sacrifici; ma questo comandai loro: «Ascoltate la mia voce, e io sarò il vostro DIO e voi sarete il mio popolo; camminate in tutte le vie che vi ho comandato, perché siate felici»” {Geremia 7: 22-23}.
Obbedienza, non sacrificio
Ascolta ciò che Dio disse per mezzo di Isaia: “«che m’importa la moltitudine dei vostri sacrifici, dice l’Eterno. Sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso di bestie ingrassate; il sangue dei tori, degli agnelli e dei capri non lo gradisco. Quando venite a presentarvi davanti a me, chi ha richiesto questo da voi, che calpestiate i miei cortili? Smettete di portare oblazioni inutili; l’incenso, è per me un abominio; non posso sopportare i noviluni e i sabati, il convocare assemblee e l’iniquità assieme alle riunioni sacre. Io odio i vostri noviluni e le vostre feste solenni; sono un peso per me, sono stanco di sopportarle. Quando stendete le vostre mani, io nascondo i miei occhi da voi; anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto; le vostre mani sono piene di sangue. Lavatevi, purificatevi, togliete dalla mia presenza la malvagità delle vostre azioni, cessate di fare il male. Imparate a fare il bene, cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova” {Isaia 1: 11-17}.
Ripetiamo alcune di queste forti espressioni: “sono sazio degli olocausti di montoni”; “il sangue dei tori, degli agnelli e dei capri non lo gradisco”; “chi ha richiesto questo da voi?”; “smettete di portare oblazioni inutili”; “l’incenso, è per me un abominio”; “io odio i vostri noviluni e le vostre feste solenni”; “sono un peso per me, sono stanco di sopportarle”; “anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto; le vostre mani sono piene di sangue”.
Amos dice: “io odio, disprezzo le vostre feste, non provo piacere nelle vostre solenni assemblee. Anche se mi offrite i vostri olocausti e le vostre oblazioni di cibo, io non le gradirò, né riguarderò con favore ai sacrifici di ringraziamento di bestie grasse” {Amos 5: 21-22}.
Michea, similmente, chiede: “con che cosa verso davanti all’Eterno e mi inchinerò davanti al Dio eccelso? Verrò davanti a lui con olocausti, con vitelli di un anno? Gradirà l’Eterno migliaia di montoni o miriadi di rivi d’olio? Darò il mio primogenito, per la mia trasgressione, il frutto delle mie viscere per il peccato della mia anima?” {Michea 6: 6-7}. E risponde alla domanda in questo modo: “o uomo, egli ti ha fatto conoscere ciò che è bene; e che altro richiede da te l’Eterno, se non praticare la giustizia, amare la clemenza e camminare umilmente col tuo Dio?” {Michea 6: 8}.
L’ultimo profeta dell’Antico Testamento dice: “E ora questo comandamento è per voi, o sacerdoti” {Malachia 2: 1}. “Voi invece vi siete allontanati dalla via, avete fatto inciampare molti nella legge, avete violato il patto di Levi», dice l’Eterno degli eserciti. «Perciò anch’io vi ho reso spregevoli e abietti davanti a tutto il popolo, perché non avete osservato le mie vie, e avete usato parzialità nell’applicazione della legge»” {Malachia 2: 8-9}.
Davide aveva ragione quando disse: “tu infatti non prendi piacere nel sacrificio altrimenti te l’offrirei, né gradisci l’olocausto. I sacrifici di Dio sono lo spirito rotto; o Dio tu non disprezzi il cuore rotto e contrito” {Salmo 51: 16-17}.
I sacerdoti si oppongono ai profeti
Difficilmente Dio avrebbe potuto usare parole più forti di quelle appena lette per rimproverare sia i sacerdoti che il popolo, ma era ampiamente giustificato nel farlo. I sacerdoti avevano corrotto il patto. Avevano insegnato al popolo a peccare e fatto credere loro che un’offerta o un sacrificio avrebbe pagato il peccato commesso. Essi meritavano il rimprovero del Signore, che Egli mandò per mezzo dei Suoi profeti. I risultati furono quelli che ci si poteva aspettare date le circostanze. Tra molti dei sacerdoti sorse un terribile odio nei confronti dei profeti. Essi odiavano quegli uomini che erano stati mandati a rimproverarli. Gran parte della persecuzione dei profeti nell’Antico Testamento fu portata avanti o istigata proprio dai sacerdoti. Infatti non era tanto il popolo quanto i sacerdoti ad opporsi e a perseguitare i profeti.
Erano i sacerdoti, gli scribi e i farisei ad opporsi continuamente a Gesù. Fu proprio per loro che Cristo riservò il Suo più feroce rimprovero: “guai a voi, scribi e farisei ipocriti! Perché edificate i sepolcri dei profeti e ornate i monumenti dei giusti e dite: «se noi fossimo vissuti al tempo dei nostri padri, non ci saremmo associati a loro nell’uccisione dei profeti. Così dicendo, voi testimoniate contro voi stessi, che siete figli di coloro che uccisero i profeti. Voi superate la misura dei vostri padri! Serpenti, razza di vipere! Come sfuggirete al giudizio della Geenna? Perciò, ecco io vi mando dei profeti, dei savi e degli scribi; di loro ne ucciderete e crocifiggerete alcuni, altri ne flagellerete nelle vostre sinagoghe e li perseguiterete di città in città, affinché ricada su di voi tutto il sangue giusto sparso sulla terra, dal sangue del giusto Abele, fino al sangue di Zaccaria, figlio di Barachia che uccideste fra il tempio e l’altare. In verità vi dico che tutte queste cose ricadranno su questa generazione” {Matteo 23: 29-36}.
Non peccare più
Cristo era un profeta. In quanto tale fece risuonare il messaggio profetico: “l’ubbidienza è migliore del sacrificio” {1 Samuele 15: 22}. “Va’ e non peccare più” {Giovanni 8: 11}, questo era il centro dei suoi discorsi. Egli annullò il sistema sacrificale offrendo Sé stesso sul Calvario. Cristo, personalmente, non offrì alcun sacrificio per il peccato. Egli, infatti, non peccò mai e, insegnando agli uomini a non peccare, colpì proprio al cuore di questa perversione sacerdotale. I sacerdoti si rendevano conto che il Suo messaggio costituiva un rimprovero per le loro pratiche, e furono entusiasti di trovare un’accusa contro di Lui, quando, con le Sue parole, menzionò il tempio di Gerusalemme {Matteo 26: 61}. I sacerdoti odiavano Cristo e, quando venne il momento, Egli seguì la lunga fila dei nobili eroi tra i profeti dando la Sua vita. I sacerdoti respinsero il messaggio profetico. Furono loro che in realtà portarono alla crocifissione di Cristo. Facendo questo riempirono la coppa della loro iniquità. Loro credevano che attraverso i sacrifici per i peccati si poteva ottenere il perdono, ma il messaggio profetico più ampio della vittoria sul peccato molti dei sacerdoti non lo capivano, o almeno molti di loro non lo insegnavano.
Non si deve pensare, però, che tutti i sacerdoti fossero malvagi. C’erano molti uomini fedeli tra loro. Alcuni dei sacerdoti, infatti, erano anche profeti, come Ezechiele. L’intenzione di Dio era che ogni sacerdote avesse lo spirito profetico e proclamasse il messaggio profetico. Nel piano di Dio non basta tentare di rimediare dopo che è stato commesso uno sbaglio. È molto meglio prevenire il male che tentare di guarirlo. Per quanto meraviglioso sia essere sollevati dal peccato e dalla degradazione, è ancora più meraviglioso essere trattenuti dal peccare. “Va’ e non peccare più” è il vero messaggio profetico. È meglio l’obbedienza al sacrificio. Ogni servitore di Dio dovrebbe fare eco a questo messaggio se vuole adempiere il consiglio di Dio. Dio ha sempre avuto bisogno di profeti. Sono i Suoi messaggeri per correggere l’errore. Quando tra il Suo popolo compaiono tendenze sbagliate, Dio manda i Suoi profeti per correggere queste tendenze e ammonire il popolo.
Cerchiamo di non dimenticare l’importante lezione che abbiamo imparato in questa occasione. L’opera del profeta non sarà compiuta finché l’opera del Signore in favore degli abitanti della terra non sarà terminata. Dio vuole che i Suoi ministri annuncino questo messaggio profetico. Quando gli abusi si insinuano, bisogna alzare la voce e richiamare le persone alle rette vie del Signore. Attraverso questo messaggio deve essere rivolto un grande appello di astenersi dal peccato, ricercando la santificazione e la santità. I profeti dicevano: “l’ubbidienza è migliore del sacrificio”. Cristo disse: “va’ e non peccare più”. Ogni ministro deve esemplificare questa dottrina nella sua vita ed insegnarla con le sue labbra. Nella misura in cui non riesce a farlo, viene a mancare del suo alto privilegio. Di tutti i tempi, ora è il momento di proclamare questo messaggio profetico fino alle estremità della terra. Questo fu il comando di Cristo quando diede il grande mandato del Vangelo ai Suoi discepoli, dicendogli di insegnarlo a tutte le nazioni, battezzandole, “insegnando loro di osservare tutte le cose che io vi ho comandato” {Matteo 28: 20}. Tra tutte le cose che ha comandato Gesù vi è incluso il messaggio profetico che dice: “l’ubbidienza è migliore del sacrificio”. Quando quest’opera di predicazione sarà terminata, allora verrà la fine.
“OLAH” è la parola ebraica comunemente usata per “olocausto”. Significa “ciò che sale” o “ciò che ascende”. Un’altra parola che viene usata a volte è “KALLIL”, che significa “per intero”. Infatti la parola “olocausto” significa letteralmente “ciò che è completamente bruciato”.
La principale fonte di informazioni riguardo agli olocausti si trova nel primo capitolo del libro di Levitico. Qui viene data l’istruzione: “quando uno di voi porta un’offerta all’Eterno, portate come vostra offerta un animale preso dalla mandria o dal gregge. Se la sua offerta è un olocausto di un capo preso dalla mandria, offra un maschio senza difetto; lo porterà all’ingresso della tenda di convegno di sua spontanea volontà davanti all’ Eterno. Poserà quindi la sua mano sulla testa dell’olocausto, che sarà gradito al suo posto, per fare l’espiazione per lui. Poi scannerà il torello davanti all’Eterno; e i sacerdoti, figli di Aaronne, presenteranno il sangue e spargeranno il sangue tutt’intorno sull’altare, che è all’ingresso della tenda di convegno” {Levitico 1: 2-5}.
L’olocausto era un’offerta volontaria {Levitico 1: 3} in contrasto con altre offerte, che erano obbligatorie. Un uomo avrebbe potuto portare non per forza un toro, come nei versetti precedenti, ma anche una pecora o una capra e persino una tortora o dei piccioni {Levitico 1: 10, 14}. Doveva essere però un animale puro, come tutte le altre offerte, e nel caso degli animali, un maschio. Portandolo nel luogo apposito per l’immolazione dei sacrifici, vicino alla porta del tabernacolo, l’offerente doveva posare la mano sulla testa dell’animale affinché fosse “gradito al suo posto, per fare l’espiazione per lui” {Levitico 1: 4}. Poi uccideva l’animale sacrificale, lo scorticava e lo faceva a pezzi {Levitico 1: 5-6}. Mentre l’animale veniva ucciso, il sacerdote raccoglieva il sangue in un vaso e lo spruzzava “tutt’intorno sull’altare” {Levitico 1: 5}. Dopo che l’animale veniva tagliato a pezzi, le interiora e le gambe venivano lavate nell’acqua, poi i pezzi venivano posti in ordine sull’altare e bruciati {Levitico 1: 8}. Tutto l’animale, compresa la testa e il grasso, venivano interamente consumato sull’altare. Questo, tuttavia, non includeva la pelle, che veniva data al sacerdote {Levitico 7: 8}.
Nel caso in cui si usassero tortore o piccioni, il sacerdote eseguiva l’uccisione strappandogli la testa e spruzzando o spremendo il sangue sul lato dell’altare {Levitico 1: 15}. Dopo questo, il corpo dell’uccello veniva posto sull’altare e lì veniva consumato come olocausto ordinario, dopo aver rimosso “il gozzo con le sue piume” {Levitico 1: 16}.
L’olocausto era il sacrificio più importante di tutte le offerte, poiché in esso erano contenute tutte le richieste essenziali degli altri sacrifici. Esso indicava una consacrazione completa, poiché veniva offerto interamente a Dio. L’offerente non tratteneva nulla per sé stesso. Era interamente consumato sull’altare {Levitico 1: 9, 13, 17}.
Gli olocausti potevano essere offerti da soli, ma l’usanza più comune era di accompagnarli alle offerte per il peccato o per la trasgressione. In questi casi veniva presentato prima il sacrificio per il peccato, seguito dall’olocausto {Levitico 9: 7, 15, 16}.
Consacrazione completa
Gli olocausti venivano usati in molte occasioni, come per la purificazione dei lebbrosi {Levitico 14: 19-20}, per la purificazione delle donne dopo il parto {Levitico 12: 6-8} e anche per la contaminazione cerimoniale {Levitico 15: 15, 30}. In questi casi veniva usata un’offerta per il peccato e un olocausto. Il primo espiava il peccato, il secondo mostrava una sincera consacrazione dell’offerente verso Dio.
L’olocausto fu molto importante nella consacrazione di Aaronne e dei suoi figli {Esodo 29: 15-25; Levitico 8: 18}, così come nella loro introduzione al ministero {Levitico 9: 12-14}. Era anche usato in connessione con il voto di nazireo {Numeri 6: 14}. In tutti questi casi rappresentava la completa consacrazione dell’individuo a Dio. L’offerente si deponeva simbolicamente sull’altare, consacrando completamente tutta la sua vita a Dio.
Non è difficile vedere il collegamento tra queste cerimonie e la dichiarazione fatta in {Romani 12: 1} “vi esorto dunque, fratelli, per le compassioni di Dio, a presentare i vostri corpi, il che è il vostro ragionevole servizio, quale sacrificio vivente, santo e accettevole a Dio”. Dobbiamo essere completamente consacrati a Dio. Dobbiamo essere perfetti. Solo quando tutta la sporcizia veniva rimossa dall’olocausto esso diveniva accettevole a Dio e poteva essere posto sull’altare, diventando un’offerta consumata mediante il fuoco, di soave odore al Signore. Lo stesso deve essere anche con noi. Tutti i peccati, tutte le impurità della carne e dello spirito devono essere rimosse prima di poter essere accettati da Dio {2 Corinzi 7: 1}. In quanto offerta completamente consumata sull’altare, l’olocausto rappresenta in un senso speciale Cristo, che si è donato pienamente, completamente, al servizio di Dio. Rappresentando così Cristo, costituisce per l’uomo un esempio da seguire. Insegnando una consacrazione completa. Per questo motivo è giustamente collocato al primo posto nell’elenco delle offerte enumerate nel Levitico. Ci dice senza mezzi termini che, per essere un sacrificio di “odore soave” a Dio, deve essere un sacrificio di resa totale. Tutto deve essere messo sull’altare. Niente deve essere trattenuto.
Nell’olocausto ci viene insegnato che Dio non fa “favoritismi di persona” {1 Pietro 1: 17}. Il povero che porta le sue due tortore è gradito quanto il ricco che porta un bue, o come Salomone, che ha offerto mille sacrifici {1 Re 3: 15}. Le due monetine sono accettate da Dio quanto l’abbondanza dei ricchi. Secondo la sua capacità ciascuno è accettato.
Un’altra lezione dall’olocausto è quella dell’ordine. Dio vuole ordine nella sua opera e dà indicazioni specifiche in merito. La legna deve essere sistemata “in ordine sul fuoco”, non semplicemente ammucchiata. I pezzi dell’animale devono essere disposti “in ordine sulla legna”, non semplicemente gettati da qualche parte sul fuoco {Levitico 1: 7-8, 12, KJV}. L’ordine è la prima legge del cielo. “Dio non è un Dio di confusione, ma di pace; e così si fa in tutte le chiese dei santi… ogni cosa sia fatta con decoro e con ordine” {1 Corinzi 14: 33, 40}.
Un’altra lezione importante è quella della pulizia. Prima che i pezzi dell’animale venissero bruciati sull’altare, “gli intestini e le gambe” dovevano essere lavati con acqua {Levitico 1: 9}. Sembrerebbe superfluo, questi pezzi comunque dovevano essere consumati sull’altare. Era solo una perdita di tempo lavarli prima di bruciarli. Questo, tuttavia, non è il ragionamento di Dio. Il comando è: “lava ogni pezzo; nulla d’impuro deve essere posto sull’altare”. I pezzi venivano così lavati e disposti con cura e in ordine sulla legna, che era stata sistemata sull’altare.
Purificazione mediante fuoco e acqua
Nel servizio venivano usati tre elementi di purificazione: fuoco, acqua e sangue. Il fuoco, emblema dello Spirito Santo, è un’agente purificatore. Cristo “è come un fuoco d’affinatore, come la soda dei lavandai. Egli siederà come chi affina e purifica l’argento; purificherà i figli di Levi e li affinerà come oro e argento, perché possano offrire all’Eterno un’oblazione con giustizia” {Malachia 3: 2-3}. La domanda è posta: “chi di noi potrà dimorare con il fuoco divorante? Chi di noi potrà dimorare con le fiamme eterne?” {Isaia 33: 14}. “Il nostro Dio è anche un fuoco consumante” {Ebrei 12: 29}. Il fuoco è la presenza di Dio, che consuma o purifica.
Il fuoco sull’altare non era un fuoco comune. Esso, originariamente, veniva da Dio. “Un fuoco uscì dalla presenza dell’Eterno e consumò sull’altare l’olocausto e il grasso; tutto il popolo lo vide, proruppe in grida di gioia e si prostrò con la faccia a terra” {Levitico 9: 24}.
Dio aveva accettato il loro sacrificio. Era puro, lavato e “in ordine”, pronto per il fuoco; e il fuoco uscì “dalla presenza dell’Eterno”. Questo fuoco sull’altare era sempre tenuto acceso e non si poteva spegnere; poiché proveniva da Dio era chiamato sacro in opposizione al fuoco comune, e doveva essere usato solo nel servizio.
L’acqua è simbolo sia del battesimo che del Signore, ovvero altri due agenti purificatori. “Cristo ha amato la chiesa e ha dato sé stesso per lei, per santificarla, avendola purificata col lavacro dell’acqua per mezzo della parola” {Efesini 5: 25-26}. “Egli ci ha salvati non per mezzo di opere giuste che noi avessimo fatto, ma secondo la sua misericordia, mediante il lavacro della rigenerazione e il rinnovamento dello Spirito Santo, che egli ha copiosamente sparso su di noi, per mezzo di Gesù Cristo, nostro Salvatore” {Tito 3: 5-6}. A Paolo fu detto: “sii battezzato e lavato dai tuoi peccati” {Atti 22: 16}. Quando i pezzi dell’animale usato per l’olocausto venivano lavati prima di essere posti sull’altare, si voleva insegnare al popolo non solo l’ordine e la pulizia, ma anche la lezione spirituale che prima di porre ogni cosa sull’altare, ed essere accettato da Dio, deve essere pulito, lavato, puro e santo.
Vita nel sangue
Nell’olocausto – come in tutte le offerte – il sangue, come elemento vitale, è importante. È ciò che fa espiazione per l’anima. Il classico passo delle Scritture che lo spiega è {Levitico 17: 11}, che dice: “poiché la vita della carne è nel sangue. Per questo vi ho ordinato di porlo sull’altare per fare l’espiazione per le vostre vite, perché è il sangue che fa l’espiazione per la vita”.
La vita della carne è nel sangue. È il sangue che fa espiazione “a motivo della vita”. Quando il sangue fu asperso sull’altare e il fuoco scese e consumò il sacrificio, indicava l’accettazione da parte di Dio del sacrifico sostitutivo. “L’olocausto, che sarà gradito al suo posto, per fare l’espiazione per lui” {Levitico 1: 4}. Questa espiazione veniva fatta “a motivo della vita” che era nel sangue. Ma questo sangue, che rappresentava la vita, era efficace solo dopo la morte della vittima. Se Dio avesse inteso trasmettere l’idea che era il sangue in quanto tale ad essere utile senza la morte, lo avrebbe affermato. Una certa quantità di sangue può essere prelevata da un animale senza ucciderlo, come avviene ora nelle trasfusioni di sangue. Il sangue sarebbe potuto quindi essere fornito senza la morte. Ma questo non era il piano di Dio. Il sangue non poteva essere utilizzato fino a quando non avveniva la morte. Lo stesso fu con Cristo. Fu solo dopo la Sua morte che sgorgò sangue e acqua {Giovanni 19: 34}. Cristo “è venuto con acqua e sangue… non con acqua soltanto, ma con acqua e con sangue” {1 Giovanni 5: 6}. Non si può sottolineare con troppa forza che è mediante “la morte per il riscatto dalle trasgressioni commesse sotto il primo patto, i chiamati ricevano la promessa dell’eterna eredità” {Ebrei 9: 15}.
Fu la morte espiatoria di Cristo che rese possibile la nostra salvezza. Quindi la croce deve essere sempre centrale nel cristianesimo. Ma il potere nel sangue di purificare e salvare dipende dalla vita di Colui che lo ha dato. È il sangue che fa l’espiazione a motivo della vita vissuta da Colui che è morto per noi. Quella vita era una vita senza peccato. In una vita del genere c’è potere. Nessun uomo è salvato per la legge. Nessun uomo si salva con le buone opere. Nessun uomo si salva semplicemente conformandosi alle regole. “Infatti, se mentre eravamo nemici siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del suo Figlio, molto più ora, che siamo stati riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita” {Romani 5: 10}.
Accettabile a Dio
L’olocausto è “un sacrificio fatto col fuoco in odore soave all’Eterno” {Levitico 1: 17}. Esso piaceva al Signore. Gli era gradito. E ci vengono anche fornite alcune ragioni di ciò, che ora cercheremo di enfatizzare.
Poiché l’olocausto era, prima di tutto, un tipo del sacrificio perfetto di Cristo, è naturale che sia gradito a Dio. Come il sacrificio deve essere senza macchia, perfetto, così Cristo è stato “agnello senza difetto e senza macchia” {1 Pietro 1: 19}, che “ci ha amati e ha dato sé stesso per noi, in offerta e sacrificio a Dio come un profumo di odore soave” {Efesini 5: 2}. Cristo, come rappresentato nell’olocausto, rappresenta la consacrazione completa, la piena dedizione.
L’olocausto era gradito a Dio perché rivelava nel cuore dell’offerente il desiderio di dedicarsi a Dio. Ciò che di fatto diceva l’offerente era: “Signore, voglio servirti. Mi metto senza riserve sull’altare. Non tengo niente per me. Accettami come sostituto”. Un tale atteggiamento è un dolce profumo per il Signore.
L’olocausto era un dolce profumo per Dio perché era un’offerta volontaria. Esso non era richiesto se non in connessione con altre offerte. Se un uomo avesse peccato, Dio richiedeva un sacrificio per il peccato e l’olocausto che lo accompagnava, ma mai un olocausto da solo. E se un uomo lo avesse offerto, sarebbe stato “di sua spontanea volontà” {Levitico 1: 3}. Non c’era costrizione. Era quindi un’offerta molto significativa e indicava un cuore riconoscente.
C’è il pericolo che i cristiani facciano troppe cose relative alla religione non perché abbiano un intenso desiderio di farle, ma perché è consuetudine o perché è richiesto. Il dovere è una grande parola; ma l’amore è più grande. Non dovremmo minimizzare il dovere; piuttosto, dobbiamo sottolinearlo. Ma non dobbiamo dimenticare che l’amore è una forza ancora più grande e che, rettamente inteso e applicato, compie il dovere perché lo include. L’amore è volontario, gratuito; il dovere è esigente, obbligatorio. Il dovere è legge; l’amore è grazia. Entrambi sono necessari, e l’uno non deve essere messo in evidenza escludendo l’altro, ma il più grande di questi è l’amore.
Poiché non vi era alcun comando circa l’offerta di un olocausto, si trattava in realtà di un’offerta d’amore, di dedizione, di consacrazione. Questo era gradito a Dio.
“Dio ama un donatore allegro” {2 Corinzi 9: 7}. Alcuni leggono questo versetto come se volesse dire che Dio ama un grande donatore. Anche se questo può essere vero, l’affermazione dice che Dio ama chi dà con allegria e di sua spontanea volontà. Il dono può essere piccolo o grande, ma se è offerto volontariamente, è gradito a Dio.
Sarebbe bene se lo spirito di un felice e gioioso servizio fosse più comune di quello che è. Spesso facciamo con rassegnazione ciò che Dio vorrebbe fosse fatto con gioia. Dio ama un donatore allegro non solo di denaro ma anche di servizio. Ci sono compiti da svolgere che non sono sempre piacevoli da fare. Li facciamo non perché ci piace farli, ma perché sentiamo che dovremmo. Dio lo apprezza; ma sarebbe molto contento se facessimo la Sua opera senza sentire che stiamo sacrificando molto per farlo, e che è un peso piuttosto che una gioia.
Troppi cristiani aspettano di essere esortati, incoraggiati e persino ammoniti prima di fare ciò che dovrebbero fare senza ricevere alcun impulso. Isaia si lamenta dicendo: “non c’è più alcuno… che si scuota” {Isaia 64: 7}. Un tale atteggiamento deve stancare Dio. Ecco perché l’apostolo disse che Dio ama un donatore allegro.
L’esperienza di Davide
Senza alcun dubbio Davide aveva il desiderio di essere amato da Dio. Lui aveva peccato gravemente, ma si pentì profondamente e Dio lo perdonò. Questa esperienza lasciò una vivida impressione nella mente di Davide, da allora egli ebbe il desiderio di compiacere Dio e di fare qualcosa per Lui.
Fu questo spirito che lo portò a proporre la costruzione di un tempio che fosse l’abitazione di Dio. Il tabernacolo eretto nel deserto aveva diverse centinaia di anni e doveva essere in condizioni fatiscenti. Dio sarebbe stato contento se qualcuno Gli avesse costruito un tempio, ma decise di aspettare qualcuno che lo facesse di propria iniziativa. Davide era felice nell’attesa di costruire un tempio per Dio.
La sua delusione doveva essere stata grande quando gli venne detto che non sarebbe stato lui a costruirlo; ma apprezzando ciò che Davide aveva in mente di fare, Dio gli disse che non sarebbe stato lui a costruirgli una casa, ma che Dio stesso avrebbe costruito una casa per Davide {1 Cronache 17: 6-10}. Fu proprio in questa circostanza che Dio gli fece la promessa che il suo trono sarebbe stato “stabilito per sempre”. Questa promessa trova il suo compimento in Cristo, il quale, quando verrà, siederà sul “trono di suo padre Davide” {Luca 1: 32}. Questa è una promessa meravigliosa.
Abramo, Mosè ed Elia sono trascurati ma l’onore è stato dato a Davide. La ragione di ciò, crediamo, si trova nella volontà di Davide di fare qualcosa per Dio al di là di ciò che era stato richiesto.
Questo è sorprendentemente illustrato nell’esperienza di Davide in relazione alla costruzione del tempio. Dio gli aveva detto che non sarebbe stato lui a costruire il tempio. Davide, tuttavia, desiderava farlo; e mentre rifletteva sulla questione trovò diversi modi per facilitare la costruzione senza realizzare lui stesso la costruzione vera e propria. Davide disse: “Salomone, mio figlio, è giovane e inesperto e la casa che si deve costruire all’Eterno, sarà estremamente magnifica e acquisterà fama e gloria in tutti i paesi; farò quindi i preparativi per essa». Così Davide, prima di morire, fece ingenti preparativi” {1 Cronache 22: 5}.
La prima cosa che Davide fece fu raccogliere i soldi per la costruzione. Le cifre fornite in {1 Cronache 22: 14} ammontano a molti milioni di dollari, attualizzati ai nostri tempi, che Davide ha dato e raccolto. Poi cominciò a “squadrare pietre per costruire la casa di Dio” {1 Cronache 22: 2}. Inoltre “preparò pure ferro in abbondanza per i chiodi dei battenti delle porte e per i ganci, una quantità di bronzo di peso incalcolabile” {1 Cronache 22: 3}. Prima che potesse fare qualsiasi cosa, tuttavia, era necessario che avesse uno progetto. Questo progetto, ci dice Davide, lo ricevette dal Signore: “tutto questo mi è stato dato per iscritto dalla mano dell’Eterno, che mi ha fatto comprendere tutti i lavori di questo progetto” {1 Cronache 28: 19}.
Possiamo quasi immaginare le parole di Davide a Dio: “Signore, tu mi hai detto che non posso costruire il tempio. Mi piacerebbe molto farlo, ma sono contento di attenermi alla Tua decisione. Potrei preparare un progetto? Non sarebbe una costruzione vera e propria, giusto, Signore?” Quindi il Signore lo aiutò a creare un progetto, compiaciuto della disponibilità di Davide di fare qualcosa per Lui.
A questo proposito vi è un’affermazione interessante in {1 Cronache 28: 4}: “tuttavia l’Eterno, il Dio d’Israele, ha scelto me fra tutta la casa di mio padre, perché divenissi re d’Israele per sempre. Egli, infatti, ha scelto Giuda come principe e nella casa di Giuda la casa di mio padre e tra i figli di mio padre gli è piaciuto di fare me re di tutto Israele”. Questa espressione, unica nel suo genere, mostra l’alto riguardo di Dio per Davide. E così Davide ottenne il permesso di preparare la pietra, il legno e il ferro per il tempio del Signore, così come il progetto stesso per la costruzione. Questo potrebbe essere il motivo per cui in seguito, durante l’erezione del tempio, non si udì il suono di alcun martello. Davide aveva preparato tutto il materiale in anticipo. Davide, tuttavia, non si accontentò di fare solo i preparativi per la costruzione del tempio. Voleva anche preparare la musica per l’adorazione all’interno del tempio. Davide era il dolce cantore d’Israele; amava la musica con tutto il suo cuore. Davide allora cominciò a prepararsi per l’occasione radunando un gruppo di quattromila persone che “dovevano lodare l’Eterno con gli strumenti che Davide aveva fatto per celebrarlo” {1 Cronache 23: 5}. Riunì anche i cantanti come riportato nel venticinquesimo capitolo dello stesso libro. È piacevole pensare a Davide, dopo la triste esperienza della sua vita, trascorrendo alcuni anni in pace e contentezza, preparandosi per la costruzione del tempio del Signore e formando i cantori e i musicisti per la sua consacrazione.
Eppure Davide non era soddisfatto. Il Signore gli aveva detto che non poteva costruire il tempio, ma che suo figlio Salomone avrebbe dovuto farlo. Cosa poteva impedire a Davide di abdicare e di nominare suo figlio Salomone re d’Israele? “Davide, ormai vecchio e sazio di giorni, costituì re su Israele suo figlio Salomone” {1 Cronache 23: 1}.
Anche se c’erano buone ragioni politiche per farlo, l’impostazione della dichiarazione indica che la costruzione del tempio era un fattore vitale.
Non c’è da stupirsi che a Dio piacesse Davide. Continuava a insistere affinché Dio gli permettesse di fare qualcosa in più per Lui. Pensò al progetto di preparazione per la costruzione del tempio. Raccolse somme di denaro inaudite. Formò i musicisti; tutto questo con il desiderio di fare qualcosa per Dio. Davide era un donatore allegro di denaro e di servizio, e questo a Dio piaceva. Non sappiamo per quanto tempo visse Davide dopo che Salomone divenne re, ma quando morì “per la seconda volta proclamarono re Salomone, figlio di Davide e lo unsero davanti all’Eterno” {1 Cronache 29: 22}.
Se avessimo più uomini di chiesa come Davide, disposti a sacrificarsi e a lavorare, ansiosi di fare sempre di più, non ci sarebbe più bisogno di spronare le persone. Fu grazie a questo spirito che Davide, nonostante il suo peccato, fu scelto per essere il capostipite terreno di Cristo. Fu lo stesso spirito che portò Cristo a darsi volenterosamente, a soffrire tutto, e infine a compiere il sacrificio supremo. Dio ama un donatore allegro.
Tutto questo era simboleggiato dall’olocausto. Come è stato detto, non era un’offerta obbligatoria. È un dono d’amore, di dedizione, di consacrazione. È offerto attraverso uno spirito di allegro sacrificio a Dio. L’offerente deponeva tutto sull’altare per essere consumato, dando sé stesso come sacrificio vivente.
La parola usata in ebraico per “offerta di cibo” o “oblazione di cibo” è “minchah”. Significa “un dono fatto a un altro”, di solito a un superiore. Quando Caino e Abele presentarono le loro offerte a Dio come riportato in {Genesi 4: 3-4}, offrivano un “minchah”. Così fu anche il dono di Giacobbe a Esaù in {Genesi 32: 13}. Era un “minchah” che i fratelli di Giuseppe gli presentarono in Egitto {Genesi 43: 11}.
Le “oblazioni di cibo” consistevano in prodotti vegetali che costituivano il principale approvvigionamento alimentare della nazione: farina, olio, grano, mosto, sale, e incenso. Quando venivano presentati al Signore, una parte veniva bruciata sull’altare come un soave profumo per il Signore, mentre il resto apparteneva al sacerdote. “È cosa santissima tra i sacrifici fatti col fuoco all’Eterno” {Levitico 2: 3}. Come l’olocausto, anche l’oblazione aveva come significato la consacrazione della persona, in questo modo l’oblazione di cibo significava sottomissione e dipendenza. Gli olocausti rappresentavano una completa resa di tutta la propria vita; le offerte di cibo erano un riconoscimento di sovranità, amministrazione e di dipendenza da un potere superiore. Erano un atto di omaggio a Dio, un pegno di lealtà.
Le “oblazioni di cibo” erano normalmente usate in connessione con gli olocausti e le offerte di riconciliazione, ma non a quelle del peccato o della trasgressione. Il resoconto in Numeri ci dice: “parla ai figli d’Israele e di’ loro: Quando sarete entrati nel paese che dovete abitare che io vi do, e offrirete all’Eterno un sacrificio fatto col fuoco, un olocausto o un sacrificio, per l’adempimento di un voto o come offerta volontaria o nelle vostre feste stabilite, per fare un odore soave all’Eterno con un animale, preso dalla mandria o dal gregge, colui che presenterà la sua offerta all’Eterno, offrirà come oblazione di cibo un decimo di efa di fior di farina mescolata con un quarto di hin di olio; inoltre porterai una libazione di un quarto di hin di vino con l’olocausto o il sacrificio, per ogni agnello” {Numeri 15: 2-5}. Quando veniva offerto un montone, l’oblazione veniva aumentata a due decimi di efa di fior di farina; e quando un torello veniva sacrificato, l’oblazione era di tre decimi di efa di fior di farina. Anche le libazioni venivano aumentate di conseguenza {Numeri 15: 6-10}.
Quando l’oblazione era composta da fior di farina, essa veniva mescolata con olio e vi veniva posto di sopra dell’incenso {Levitico 2: 1}. “Una manciata di fior di farina e olio con tutto l’incenso, e la farà fumare sull’altare come ricordo, un sacrificio fatto col fuoco in odore soave all’Eterno” {Levitico 2: 2}. Tutto ciò che rimaneva, dopo che la manciata veniva posta sull’altare, apparteneva ad Aaronne e ai suoi figli.
Quando l’offerta consisteva in “focacce non lievitate” e in “schiacciate senza lievito”, doveva essere fatta di fior di farina mescolata con olio, tagliata a pezzi e vi si doveva versare sopra dell’olio {Levitico 2: 4-6}. A volte veniva cotta in padella {Levitico 2: 7}. Anche in questo caso il sacerdote ne prendeva una parte e la bruciava sull’altare come ricordo {Levitico 2: 8-9}. Ciò che rimaneva apparteneva ai sacerdoti ed era considerata una cosa santissima {Levitico 2: 10}.
L’offerta di focacce e schiacciate azzime unte con olio aveva lo scopo di insegnare a Israele che Dio è il sostenitore della vita, che dipendevano da Lui per il cibo quotidiano. E che prima di prendere parte al loro cibo quotidiano dovessero riconoscerlo come il donatore di tutto. Questo riconoscimento di Dio come dispensatore di benedizioni temporali avrebbe condotto naturalmente le loro menti alla Fonte di tutte le benedizioni spirituali. Il Nuovo Testamento rivela questa Fonte come il Pane sceso dal cielo che dà vita al mondo {Giovanni 6: 33}.
Senza lievito
Si precisa espressamente che tutte le “offerte di cibo” dovevano essere senza lievito. “Non farete fumare nulla che contenga lievito o miele, come sacrificio fatto col fuoco all’Eterno” {Levitico 2: 11}. Nonostante ciò, fu comandato che, sia il lievito che il miele, fossero offerti come primizie. Tuttavia, non dovevano essere poste sull’altare {Levitico 2: 12}.
Si potrebbe giustamente porre la domanda sul perché il lievito e il miele, proibiti con gli altri sacrifici, potessero essere invece offerti come primizie. Mentre il lievito è simbolo del peccato, dell’ipocrisia, della malizia e della malvagità {Luca 12: 1; 1 Corinzi 5: 8}, nella Bibbia non c’è una chiara dichiarazione sul significato simbolico del miele. I commentatori sono generalmente d’accordo, tuttavia, che il miele rappresenti quei peccati della carne che sono piacevoli ai sensi, ma che tuttavia corrompono. Il miele è quindi considerato il simbolo della ricerca del piacere di sé.
Perciò ora possiamo comprendere che quando Dio comandò a Israele di portare lievito e miele come primizia, voleva trasmettere l’idea che quando veniamo per la prima volta a Lui, dobbiamo portare tutti i nostri peccati, tendenze e mondanità a Lui. Vuole che veniamo così come siamo. Se da un lato Dio odia peccato, non essendo un odore soave per Lui, ecco il motivo per il quale il suo simbolo, il lievito, non doveva essere offerto sull’altare, dall’altro Dio vuole che veniamo a Lui con tutti i nostri peccati. Una volta venuti, dobbiamo deporli tutti ai Suoi piedi. Da quel momento dobbiamo andare e non peccare più.
Nelle “oblazioni di cibo”, così come anche in altre offerte, veniva usato il sale, chiamato: “sale del patto di Dio”. “Ogni oblazione di cibo che offrirai, la condirai con sale; non lascerai mancare il sale del patto di DIO dalle tue oblazioni. Su tutte le tue offerte offrirai del sale” {Levitico 2: 13}. Tutti i sacrifici, sia animali che vegetali, venivano salati. “Ognuno deve essere salato col fuoco, e ogni sacrificio deve essere salato col sale” {Marco 9: 49}. Il sale ha proprietà di conservazione. Inoltre, rende il cibo appetibile. Era un elemento significativo di ogni sacrificio. È il simbolo del potere di Dio che preserva e mantiene in vita.
Quando si portava un’offerta di cibo delle primizie una persona poteva usare “spighe tostate al fuoco, chicchi di grano schiacciati da spighe intere. E vi metterai sopra dell’olio e vi porrai sopra dell’incenso. Poi il sacerdote farà fumare come ricordo una parte del grano e una parte dell’olio, con tutto l’incenso. È un sacrificio fatto col fuoco all’Eterno” {Levitico 2: 14-16}. Il grano schiacciato qui menzionato rappresenta sicuramente Colui che è stato schiacciato per noi e dalle cui ferite siamo guariti {Isaia 53: 5}. Le offerte di cibo ci presentano Cristo come il datore e il sostenitore della vita, Colui per mezzo del quale e nel quale “viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” {Atti 17: 28}.
Alle “oblazioni di cibo” appartiene anche la libazione di vino {Numeri 15: 10, 24}. Questa libazione di vino veniva presentata al Signore e versata nel luogo santo, ma non sull’altare {Numeri 28: 7; Esodo 30: 9}.
Il covone offerto come primizia della mietitura doveva essere agitato davanti al Signore il secondo giorno della Pasqua; anche questo era considerato un’oblazione {Levitico 23: 10-12}. Un’altra “offerta di cibo” erano i due pani, cotti con lievito, agitati durante la Pentecoste come primizia al Signore {Levitico 23: 17-20}. Anche il pasto quotidiano di Aaronne e dei suoi figli era considerato come un’offerta perpetua {Levitico 6: 20}; così pure l’oblazione di cibo per gelosia riportata in {Numeri 5: 15}.
Il pane della presentazione
Il pane della presentazione posto settimanalmente sulla tavola del primo compartimento nel santuario era un’oblazione di cibo presentata al Signore. Il suo nome ebraico significa “pane della Presenza”. È anche chiamato il “pane perpetuo” {Numeri 4: 7}. La tavola è chiamata “tavola dei pani della presentazione” o “tavola d’oro puro” {Numeri 4: 7; Levitico 24: 6; 2 Cronache 13: 10-11}. Il pane della presentazione consisteva in dodici pani, disposti in due pile sulla tavola ogni sabato.
I sacerdoti iniziavano il loro servizio settimanale con il sacrificio serale del sabato e lo terminavano con il sacrificio mattutino del sabato. Sia i sacerdoti uscenti che quelli entranti erano implicati nella rimozione del pane della presentazione e nella sua sostituzione. Mentre i sacerdoti uscenti toglievano il pane vecchio, i sacerdoti entranti portavano il pane nuovo. Erano attenti a non rimuovere il pane vecchio fino a quando non era pronto il nuovo. Il pane doveva essere sempre sulla tavola perché era il “pane della Presenza”.
Vi è una divergenza di opinioni sulla dimensione dei pani. Alcuni credono che fossero grandi sette centimetri altri quattordici. Anche se ciò non può essere dimostrato, è chiaro che i due decimi di efa, utilizzati per ogni pagnotta, farebbero pensare ad una pagnotta considerevole. Sulle due pile dei pani era posto dell’incenso in due coppe, ovvero una manciata di incenso su ciascuna. Quando il pane veniva cambiato di sabato, questo incenso veniva portato via e bruciato sull’altare degli olocausti.
Il “pane della Presenza” veniva offerto a Dio come “un patto perpetuo” {Levitico 24: 8}. Era una testimonianza sempre presente del fatto che Israele dipendeva da Dio per il sostentamento ed era una costante promessa da parte di Dio che Egli li avrebbe sostenuti. Il loro bisogno era sempre davanti a Lui e la Sua promessa costantemente davanti a loro.
Il resoconto relativo alla tavola del pane della presentazione rivela che c’erano dei piatti sulla tavola: cucchiai, caraffe, coppe, calici e tazze “con cui si fanno le libazioni” {Esodo 25: 29}. Sebbene non si parli di vino sulla tavola, è evidente che le coppe con cui si “versavano” le libazioni erano lì per uno scopo. Vi era infatti una libazione di vino in relazione al sacrificio quotidiano in {Numeri 28: 7}. Il vino doveva essere versato al Signore come libazione nel luogo santo. Il versetto non specifica dove doveva essere versato il vino nel luogo santo, ma solo che doveva essere versato al Signore.
Tuttavia, ci viene detto dove non doveva essere versato. Quanto all’altare dell’incenso, era proibito offrire “incenso estraneo” su di esso, “su di esso non verserete libazioni” {Esodo 30: 9}. Se la libazione del vino doveva essere versata nel luogo santo; se non doveva essere versata sull’altare; se sulla tavola della presentazione c’erano delle caraffe da cui “versare”, sembra evidente che le caraffe sulla tavola contenevano del vino.
Non c’è una grande differenza tra la tavola del pane di presentazione dell’Antico Testamento e l’ultima cena del Signore nel Nuovo Testamento {Luca 22: 30; 1 Corinzi 10: 21}. Vi è un forte parallelismo. Il pane è il suo corpo, che è stato spezzato per noi. La coppa, nel Nuovo Testamento, è il Suo sangue {1 Corinzi 11: 24-25}. Ogni volta che mangiamo il pane e beviamo il calice, “annunziate la morte del Signore, finché egli venga” {1 Corinzi 11: 26}. “Il pane della Presenza” è il simbolo di Colui che vive sempre per intercedere in nostro favore {Ebrei 7: 25}. Egli è “il pane vivente che è disceso dal Cielo” {Giovanni 6: 51}.
Come già affermato, le “offerte di cibo” erano un riconoscimento della sovranità di Dio e della cura che ha dell’uomo. Attraverso gli “olocausti” si voleva dire che “tutto ciò che si è appartiene al Signore”. Mentre attraverso le “offerte di cibo” si voleva affermare che “tutto ciò che si ha è del Signore”. In quest’ultimo possiamo dire che in realtà sia incluso anche il primo, perché quando un uomo è consacrato a Dio, quella dedizione include i suoi beni oltre che sé stesso. Questo è senza dubbio il motivo per cui le “oblazioni di cibo” accompagnavano sempre l’olocausto {Numeri 15: 1}.
Consacrazione dei mezzi
L’oblazione di cibo è un sacrificio che denota una consacrazione dei mezzi, come anche il sacrificio dell’olocausto denota una consacrazione della vita. La consacrazione dei mezzi deve essere sempre preceduta dalla consacrazione della vita. L’una è il risultato dell’altra. Nel piano di Dio non è prevista una consacrazione della vita senza consacrazione dei mezzi. Una consacrazione dei mezzi senza una consacrazione della vita non è accettabile. I due devono andare insieme. Solo insieme formano un sacrificio completo, gradito a Dio, “un odore soave al Signore”.
L’idea di una buona amministrazione ha bisogno di essere enfatizzata. Alcuni che portano il nome di cristiani parlano ad alta voce di santità e devozione a Dio, ma le loro opere non sempre corrispondono alla loro professione. I nostri averi sono tenuti stretti, gli appelli rimangono inascoltati e la causa di Dio langue. Tali persone devono comprendere che la consacrazione della vita include la consacrazione dei mezzi.
Sarebbe fuorviante, tuttavia, credere che la consacrazione dei mezzi sia tutto ciò che Dio richiede. Siamo responsabili di tutti i talenti che abbiamo, siano essi denaro, tempo o doni naturali. Di tutti questi Dio è il legittimo proprietario e noi solo degli amministratori. Talenti come la musica, il canto, l’arte, la parola, la leadership, l’efficienza, appartengono a Dio. Devono essere dedicati a Lui. Devono essere messi sull’altare.
Il fior di farina usato nell’oblazione era in parte il prodotto del lavoro dell’uomo. Dio fa crescere il grano; dà il sole e la pioggia; mette le proprietà vivificanti all’interno del granello. L’uomo semina e raccoglie il grano, macina la farina, ne separa tutte le parti grossolane fino a renderla “fine”. Viene poi presentato a Dio o come farina o come focacce preparate al forno. Dio e l’uomo hanno collaborato e il prodotto che ne risulta è dedicato a Dio. Esso rappresenta il dono di Dio unito al lavoro dell’uomo. È un restituire a Dio ciò che Gli appartiene con gli interessi. Dio dà il seme; l’uomo lo pianta; Dio lo annaffia. Moltiplicato, viene restituito a Dio, che lo accoglie con grazia. È il simbolo dell’opera della vita dell’uomo, dei suoi talenti migliorati sotto la guida di Dio.
Dio dona ad ogni uomo almeno un talento {Matteo 25: 15}. Si aspetta che l’uomo migliori quel talento e lo moltiplichi {Matteo 25: 20-27}. Dio non gradisce che gli restituiamo solo ciò che ci ha dato. Lui vuole che prendiamo il seme che Egli ci dà, che lo piantiamo, lo curiamo e lo raccogliamo. Vuole che il grano passi attraverso quel processo che sembra togliergli la vita stessa, ma in realtà lo prepara ad essere utile per l’uomo; vuole togliere tutto ciò che è grossolano, e vuole che Gli venga poi presentata come “fior di farina”. Vuole che i talenti migliorino e gli siano presentati con l’interesse.
Come già notato, il “fior di farina” rappresenta l’opera svolta nella vita dell’uomo. È sinonimo di talenti migliorati. Ciò che significava il “pane della presentazione” per la nazione, l’offerta di cibo significava per l’individuo. Essa è la rappresentazione di una vita consacrata.
Quanto è il significato dell’espressione “fior di farina”. La farina è il risultato del grano schiacciato tra due macine: quella superiore e quella inferiore. Prima era un grano che poteva essere piantato e perpetuare la vita. Ora è schiacciato, senza vita. Non potrà mai più essere piantato; ma è forse inutile? No, assolutamente no! Ha dato la sua vita, è morto affinché gli altri potessero vivere. Lo schiacciamento è diventato il mezzo attraverso il quale la vita è perpetuata. La vita del seme sostiene la vita di una persona fatta a immagine di Dio.
Il ministero della sofferenza
Poche vite hanno un valore reale per l’umanità finché non vengono ferite o schiacciate. È solo nelle profonde esperienze della vita che gli uomini trovano Dio. È solo quando le acque coprono l’anima che si costruisce il carattere. Il dolore, la delusione e la sofferenza sono abili servitori di Dio che permettono al seme di germogliare e di portare frutto.
Il problema della sofferenza può essere insondabile nei suoi aspetti più profondi. Ma alcune cose sono chiare. La sofferenza ha uno scopo preciso nel piano di Dio. Addolcisce lo spirito. Prepara l’anima per una comprensione più profonda della vita. Ispira simpatia per gli altri. Fa camminare dolcemente davanti a Dio e agli uomini.
Solo chi ha sofferto ha vissuto. Solo chi ha amato ha vissuto. I due sono inseparabili. L’amore richiede sacrificio. Il sacrificio spesso richiede la sofferenza. Non che debba essere necessariamente una sofferenza fisica o addirittura dolorosa. Il tipo di sofferenza più elevato è pieno di gioia e santità. Una madre può sacrificarsi per suo figlio, può soffrire, ma lo fa volentieri, con gioia. L’amore considera il sacrificio un privilegio. Paolo dice: “ora mi rallegro nelle mie sofferenze per voi, e a mia volta compio nella mia carne ciò che manca ancora alle afflizioni di Cristo per il suo corpo, che è la chiesa” {Colossesi 1: 24}.
La lezione della sofferenza non sarà appresa finché non sapremo come gioire in essa. Potremmo gioire solo quando ci verrà in mente che “come abbondano in noi le sofferenze di Cristo, così per mezzo di Cristo abbonda pure la nostra consolazione” {2 Corinzi 1: 5}. Che quando “siamo afflitti, ciò è per la vostra consolazione e salvezza” {2 Corinzi 1: 6}; che Cristo stesso “imparò l’ubbidienza dalle cose che soffrì” {Ebrei 5: 8}. E che poiché Egli “ha sofferto quando è stato tentato, può venire in aiuto di coloro che sono tentati” {Ebrei 2: 18}. Le sofferenze di cui abbiamo parte sono permesse affinché possiamo “usare compassione verso gli ignoranti e gli erranti, poiché è circondato anch’egli di debolezza” {Ebrei 5: 2}. Tale sofferenza non è dolorosa, ma gioiosa. Cristo “per la gioia che gli era posta davanti, soffrì la croce” {Ebrei 12: 2}.
La sofferenza è sempre stata la sorte del popolo di Dio. Fa parte del piano di Dio. Solo attraverso la sofferenza si possono imparare certe lezioni. Solo così possiamo, in vece di Cristo, servire come dovremmo coloro che stanno attraversando la valle dell’afflizione “affinché, per mezzo della consolazione con cui noi stessi siamo da Dio consolati, possiamo consolare coloro che si trovano in qualsiasi afflizione” {2 Corinzi 1: 4}. Vista in questa luce, la sofferenza diventa una benedizione. Permette di servire il prossimo in un modo che non sarebbe possibile senza tale esperienza. Diventa un privilegio “non solo di credere in lui, ma anche di soffrire per lui” {Filippesi 1: 29}.
Per capire quanto sia necessario condividere la sua sofferenza, basta guardare all’esperienza di alcuni santi uomini di Dio nei secoli passati. Ricorda quei tre terribili giorni dopo che Dio aveva detto ad Abramo di uccidere suo figlio. Ricorda la notte di tribolazione di Giacobbe, quella notte che fece di un peccatore un santo. Ricorda il tempo trascorso da Giuseppe nell’attesa di morire nella cisterna, la sua agonia per essere stato venduto come schiavo, la sua esperienza in prigione causata da false accuse e amareggiato dall’ingratitudine. Ricorda le persecuzioni di Geremia e lo spaventevole giorno in cui a Ezechiele fu comandato di uscire e predicare, invece di restare con la moglie morente. Ricorda l’oscura e terribile esperienza di Giovanni Battista in prigione quando il dubbio assaliva la sua anima; la spina nella carne di Paolo che non gli fu permesso di rimuovere. Eppure da tutte queste esperienze sono nate vite più nobili, con una visione più ampia e una maggiore utilità. Senza queste esperienze non avrebbero mai potuto fare il lavoro che hanno fatto, né le loro vite sarebbero mai state l’ispirazione che sono ora. Come i fiori danno un profumo più delizioso quando vengono schiacciati, così un grande dolore può nobilitare e abbellire una vita, sublimandola e impiegandola in un servizio utile per l’opera di Dio.
Santificato dallo Spirito
La farina usata nelle “offerte di cibo” non doveva essere offerta secca; doveva essere mescolata con olio, o unta con olio {Levitico 2: 4-5}. L’olio è lo Spirito di Dio. Solo una vita santificata dallo Spirito, mescolata con esso, unta con esso, può essere gradita a Dio. La sofferenza, in sé e per sé stessa, potrebbe non essere una benedizione. Può solo portare alla durezza del cuore, all’amarezza dello spirito. Ma quando lo Spirito di Dio si impossessa dell’anima, mentre lo spirito dolce del Maestro permea la vita, il profumo di una vita consacrata diventa puro.
Poiché l’incenso offerto ogni mattina e ogni sera nel luogo santo era il simbolo della giustizia di Cristo che ascende con le preghiere del sacerdote per la nazione come un odore soave a Dio, questo ci fa capire che l’incenso offerto in connessione con ogni “offerta di cibo” era di utilità per l’individuo. Si trattava di un’applicazione personale di ciò che altrimenti sarebbe stato solo generale. Durante il sacrificio la mattina e la sera il sacerdote pregava per tutto il popolo, Nell’offerta di cibo l’incenso veniva applicato individualmente.
Nella mente degli israeliti, l’incenso e la preghiera erano strettamente associati. Mattina e sera, mentre l’incenso simboleggiava i meriti e l’intercessione di Cristo ascese nel luogo santo, preghiere venivano offerte in favore di tutta la nazione. Non solo l’incenso permeava il luogo santo e quello santissimo, ma la sua fragranza si diffondeva tutt’intorno al tabernacolo. Ovunque, gli uomini venivano chiamati alla preghiera e alla comunione con Dio.
La preghiera è di vitale importanza per il cristiano. È il respiro dell’anima. È l’elemento vitale in ogni attività della vita. Deve accompagnare ogni sacrificio, rendere profumata ogni offerta. Non è solo un ingrediente importante del cristianesimo, è la sua stessa vita. Senza il suo soffio vitale, la vita cessa rapidamente; e con la cessazione della vita, si instaura la decomposizione, e ciò che dovrebbe essere un odore di vita per la vita diventa un odore di morte per la morte.
“Ognuno deve essere salato col fuoco, e ogni sacrificio deve essere salato col sale” {Marco 9: 49}. Il fuoco purifica; il sale conserva. Essere salati con il fuoco significa non solo purificazione ma anche conservazione. Dio vuole un popolo puro, un popolo i cui peccati siano perdonati. Non basta essere perdonati e purificati, deve essere accettato anche il potere di Dio di salvaguardare {Giuda 1: 24}. Dobbiamo essere mantenuti puliti. Il fuoco non deve essere un fuoco distruttivo, ma purificatore. Dobbiamo essere prima purificati, poi conservati in tale stato.
L’oblazione di cibo, sebbene non sia la più importante, insegna delle importanti lezioni per l’anima devota. Tutto ciò che siamo dovrebbe essere posto sull’altare. Tutto ciò che abbiamo appartiene a Dio. E Dio purificherà e custodirà i Suoi. Possano queste lezioni rimanere in noi.
Il termine ebraico da cui deriva l’espressione “offerta di riconciliazione” significa “riparare, provvedere a ciò che manca, dare una ricompensa”. Denota uno stato in cui le incomprensioni sono state risolte, i torti riparati e in cui prevale il buon senso. Le offerte di riconciliazione venivano usate in ogni occasione che dava la possibilità di manifestare gratitudine e gioia, oppure di fare un voto. Erano offerte dall’odore soave, come gli olocausti e le oblazioni di cibo. Erano un’espressione da parte dell’offerente della sua pace con Dio e della sua gratitudine per le numerose benedizioni ricevute.
Per quanto riguarda l’offerta di riconciliazione, l’offerente non era limitato nella sua scelta. Poteva scegliere un torello, una pecora, un agnello o una capra, maschio o femmina. Di solito il sacrificio doveva essere perfetto, “non dovrà avere alcun difetto” {Levitico 22: 21; Levitico 3: 1-17}. Tuttavia, quando veniva presentata un’offerta di riconciliazione come offerta volontaria, non era necessario che fosse perfetta. Poteva essere impiegato anche un animale che avesse “un arto troppo lungo o troppo corto” {Levitico 22: 23}. Come nel caso dell’olocausto, l’offerente doveva posare la mano sul capo del sacrificio e ucciderlo all’ingresso del tabernacolo. Il sangue veniva poi asperso sull’altare tutt’intorno dal sacerdote {Levitico 3: 2}. Dopo questo il grasso veniva bruciato: “è un’offerta fatta col fuoco all’Eterno” {Levitico 3: 11}. “Tutto il grasso appartiene all’Eterno. Questa è una legge perpetua per tutte le vostre generazioni, in tutti i luoghi dove abiterete: non mangerete né grasso né sangue” {Levitico 3: 16-17}.
Le offerte di riconciliazione erano di tre tipi: offerte di ringraziamento, offerte per un voto e offerte volontarie. Di questi l’offerta di ringraziamento, o l’offerta di lode, viene presentata come la più importante. Veniva offerta in occasioni di gioia e gratitudine, per qualche istanza specifica di liberazione oppure per delle benedizioni ricevute, da un cuore colmo di lode di Dio, traboccante di gioia.
Gli olocausti rappresentavano la completa consacrazione da parte dell’offerente. Le oblazioni di cibo riconoscevano la dipendenza dell’offerente da Dio per tutti i bisogni temporali e l’accettazione di esserne un amministratore responsabile. Le offerte di riconciliazione erano un’offerta di lode per le misericordie ricevute, un’offerta di ringraziamento per le benedizioni ottenute; un’offerta volontaria dettata da un cuore pieno di gioia. Non chiedevano ulteriori favori, ma attribuivano lode a Dio per ciò che aveva fatto e magnificavano il Suo nome per la Sua bontà e misericordia verso i figli degli uomini.
Condivisione festosa
Le offerte nell’Antico Testamento erano preghiere incarnate. Combinavano la fede con le opere e la preghiera con la fede. Nella loro totalità, esse esprimevano il legame e il bisogno dell’uomo di Dio.
Le offerte di riconciliazione erano offerte di condivisione. Considerando che gli olocausti venivano interamente bruciati sull’altare e nessuna parte veniva mangiata; che le oblazioni di cibo in parte venivano bruciate sull’altare e in parte mangiate; mentre i sacrifici di ringraziamento erano condivisi tra Dio, il sacerdote e la maggior parte di esso andava all’offerente e alla sua famiglia.
La parte che spettava a Dio veniva bruciata sull’altare {Levitico 3: 14-17}. Il sacerdote riceveva “il petto dell’offerta agitata e la coscia dell’offerta elevata” {Levitico 7: 33-34}. Il resto apparteneva all’offerente, che poteva invitare qualsiasi altra persona pura a partecipare con lui. Andava consumato lo stesso giorno, o in alcuni casi il secondo giorno, ma non più tardi {Levitico 7: 16-21}.
Di queste offerte facevano parte “focacce senza lievito intrise con olio, schiacciate senza lievito unte con olio e focacce di fior di farina mescolate con olio”. A questo si aggiungeva del “pane senza lievito”. Una parte veniva prima presentata al Signore come un’offerta elevata all’Eterno, che poi veniva data al sacerdote come sua parte {Levitico 7: 11-13}.
L’intera cerimonia costituiva una sorta di condivisione in cui il sacerdote e il popolo partecipavano con il Signore alla Sua mensa; era un’occasione gioiosa, in cui tutti si univano nel ringraziare Dio e lodarlo per la Sua misericordia.
L’uso del lievito nell’offerta di riconciliazione è molto significativo. Normalmente il lievito non era permesso in nessun sacrificio. In un altro caso in cui si usava – nell’oblazione delle primizie {Levitico 2: 12} – non veniva permesso che fosse posto sull’altare. In questo caso veniva presentato al Signore come un’offerta elevata, poi data al sacerdote che ne aveva asperso il sangue {Levitico 7: 13-14}.
Nel caso dell’oblazione della primizia, il lievito rappresentava l’uomo che portava per la prima volta la sua offerta a Dio. Doveva portare ciò che aveva. Ma doveva farlo solo una volta. Nell’offerta di ringraziamento erano accettati sia i pani azzimi che quelli lievitati. In questo caso non può essere che gli azzimi rappresentino Colui che è senza peccato e che è la nostra pace, poiché questo è un pasto comune a cui partecipano Dio, sacerdote e offerente; che il lievito rappresenti l’imperfezione dell’uomo che tuttavia è accolto da Dio? Si fa riferimento a questo anche in {Amos 4: 5}, che dice: “offrite un sacrificio di ringraziamento con lievito”.
“La carne del sacrificio di rendimento di grazie presentato in ringraziamento sarà mangiata il giorno stesso in cui è offerta” {Levitico 7: 15}. Sebbene questa fosse in parte anche una misura sanitaria, tuttavia non era l’unica ragione; poiché nei casi in cui l’offerta di riconciliazione fosse stata un voto o un’offerta volontaria, si poteva consumare anche il secondo giorno {Levitico 7: 16}. Era chiaramente impossibile per un uomo consumare da solo tutta la sua offerta in un giorno, se fosse stato un toro o un capro o un agnello. Gli fu quindi permesso e comandato di chiedere ad altri di partecipare al pasto. “Entro le tue città non potrai mangiare… ciò che hai promesso in voto, né le tue offerte volontarie, né l’offerta elevata delle tue mani. Ma le mangerai davanti all’Eterno, il tuo DIO, nel luogo che l’Eterno, il tuo DIO, sceglierà, tu, tuo figlio e tua figlia, il tuo servo e la tua serva, e il Levita che abiterà entro le tue porte; e gioirai davanti all’Eterno, il tuo DIO, di ogni cosa a cui metti mano. Guardati dal trascurare il Levita, fino a quando vivrai nel paese” {Deuteronomio 12: 17-19}.
Questa era una caratteristica distintiva dell’offerta di riconciliazione. Doveva essere consumata lo stesso giorno e doveva essere condivisa anche con alti; doveva essere mangiata “davanti al Signore” e i partecipanti dovevano rallegrarsi. Era un pasto gioioso, comune, e proprio in questo si differenziava dalle altre offerte.
I voti
A volte le offerte di riconciliazione venivano fatte in seguito a un voto fatto al Signore. Per un motivo o per l’altro, forse per qualche speciale benedizione, desiderata o inattesa, un offerente poteva fare un voto al Signore. Poteva votare sé stesso al Signore, o sua moglie o i suoi figli, o il bestiame, la casa o le terre {Levitico 27}. Proprio per questo motivo Samuele fu votato al Signore {1 Samuele 1: 11}. Nel caso di persone, un voto poteva essere riscattato, o ricomprato, a un prezzo fisso, oppure leggermente modificato dai sacerdoti nel caso dei più poveri {Levitico 27: 1-8}. Ma se il voto riguardava un animale per il sacrificio allora, non poteva essere riscattato. Se un uomo tentava di scambiarlo con un altro animale, entrambi gli animali dovevano essere offerti {Levitico 27: 9-10}. Nel caso di un animale impuro, il sacerdote doveva valutarlo. Poteva essere riscattato aggiungendo un quinto al valore stimato {Levitico 27: 11-13}. Un chiaro principio era anche che nulla di già appartenente a Dio poteva essere votato. Sotto questa regola vi erano i primogeniti {Levitico 27: 26-127}, tutto ciò che è già destinato a Dio {Levitico 27: 28-29} e anche la decima {Levitico 27: 30-34}.
Ci sono alcuni che non considerano i voti come dovrebbero, eppure Dio ha provveduto che ci fossero. Sebbene sia meglio non fare voti che fare voti e poi non adempierli {Ecclesiaste 5: 5}, quando vengono messi in pratica i voti sono apprezzati e graditi a Dio. “Se ti astieni dal far voti, non commetti peccato” {Deuteronomio 23: 22}; ma se uno fa un voto, “non tarderai ad adempierlo” {Deuteronomio 23: 21}. Il voto è facoltativo. Un uomo può scegliere di fare o di non fare un voto, ma se lo fa “non violerà la sua parola, ma farà tutto ciò che è uscito dalla sua bocca” {Numeri 30: 2}.
Il punto principale è questo, che un uomo deve mantenere ciò che ha promesso. Egli “non violerà la sua parola”. Non deve nemmeno “tardare” nell’adempiere il suo voto. Quando arriva il momento opportuno, deve adempierlo. Dio si aspetta questo.
Dio vuole che il Suo popolo sia onesto e affidabile. Vuole che mantengano le promesse. Nessun uomo sta adempiendo ai suoi doveri cristiani se è inaffidabile in ciò che dice di fare. Nessun uomo può violare la sua parola e continuare ad ottenere il favore di Dio. Nessun uomo può “dimenticare” di pagare i suoi conti, o essere pigro riguardo ad essi, e continuare ad essere considerato onesto agli occhi del cielo. Un cristiano deve essere uomo di parola.
Questa è un’epoca in cui molti considerano la loro parola di poca importanza e quindi hanno poco rispetto per le promesse che fanno. Anche se questo ce lo si può aspettare dal mondo, non esistono scuse per coloro che portano il nome di Cristo e poi rinnegano le loro promesse. Eppure quanti impegni non adempiuti, quanti voti infranti! Il voto matrimoniale, il voto battesimale e il voto di ordinazione vengono violati con leggerezza. I patti vengono ripudiati, gli accordi violati, le promesse dimenticate. La perdita della fede è comune, il disprezzo della responsabilità quasi universale. Cristo stesso si chiese se avrebbe trovato la fede sulla terra quando tornerà nell’ultimo giorno {Luca 18: 8}.
In mezzo a tutta questa confusione ci deve essere, ci sarà, un popolo su cui Dio può contare, nella cui bocca non si trova inganno, che è fedele alla Sua parola {Apocalisse 14: 5}. Nel {Salmo 15: 1-5} viene posta la domanda: “o Eterno, chi dimorerà nella tua tenda? Chi abiterà sul tuo santo monte?” E la risposta che viene data è: “colui che cammina in modo irreprensibile e fa ciò che è giusto, e dice la verità come l’ha nel cuore, che non calunnia con la sua lingua, non fa alcun male al suo compagno, non lancia alcun insulto contro il suo prossimo. Ai suoi occhi è disprezzata la persona spregevole, ma egli onora quelli che temono l’Eterno; anche se ha giurato a suo danno, egli non ritratta; non dà il suo denaro ad usura e non accetta doni contro l’innocente. Chi fa queste cose non sarà mai smosso”.
Una delle condizioni qui menzionate per dimorare nel tabernacolo di Dio è quella di giurare “a suo danno” e di non ritrattare. Un uomo può accettare di vendere o acquistare una proprietà e, dopo che l’accordo è stato stipulato, ricevere un’offerta più favorevole. Riuscirà a rispettare il suo patto anche se in perdita? Lo farà, se è cristiano.
Il rispetto per la propria parola è una disperata necessità. Anche le nazioni ne hanno bisogno per evitare che i loro accordi diventino privi di significato. Il business ne ha bisogno, per evitare confusione e disastri. Soprattutto, i cristiani ne hanno bisogno, affinché la fede non perisca dalla terra. Questa è l’ora e l’opportunità suprema della chiesa. Il mondo vuole una dimostrazione del fatto che esiste un popolo fedele in una generazione infedele; che ha rispetto per la propria parola così come per quella di Dio; che è fedele alla fede assegnata una volta per sempre ai santi. La manifestazione dei figli di Dio è in ritardo {Romani 8: 19}. Questa rivelazione dei figli di Dio non è solo “il desiderio intenso della creazione”, ma di “tutto il mondo creato” che “geme insieme ed è in travaglio” per essa {Romani 8: 22}. Questa manifestazione rivelerà un popolo che ha il sigillo dell’approvazione di Dio. Che osserva i comandamenti e ha la fede di Gesù {Apocalisse 14: 12}. La sua parola è «sì», «sì», e il «no», «no» {Giacomo 5: 12}. “Sono irreprensibili davanti al trono di Dio” {Apocalisse 14: 5}.
In pace con Dio
Come si è detto in precedenza, l’offerta di riconciliazione era un’offerta di pasto comune a cui partecipavano Dio, il sacerdote e il popolo. Si teneva all’interno del recinto del tempio, qui la gioia e la felicità prevalevano, e il sacerdote e il popolo conversavano tra loro. Non era necessariamente un’occasione in cui veniva fatta la pace; era piuttosto una festa gioiosa. Era generalmente preceduta da un’offerta per il peccato e da un olocausto. Veniva fatta l’espiazione, il sangue veniva asperso, il perdono era esteso e la giustificazione era assicurata. Per celebrare ciò, l’offerente invitava i suoi parenti stretti e i suoi servi, nonché i leviti, a mangiare con lui. “Entro le tue città non potrai mangiare”, era il comando, ma solo “nel luogo che l’Eterno, il tuo DIO, sceglierà” {Deuteronomio 12: 17-18}. E così tutta la famiglia celebrava in modo festoso la pace che era stata stabilita tra Dio e l’uomo, e tra gli uomini.
“Giustificati dunque per fede abbiamo pace presso Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore” {Romani 5: 1}. “Egli infatti è la nostra pace” {Efesini 2: 14}. Israele anticamente era invitato a celebrare il fatto che avevano pace con Dio, che i loro peccati erano stati perdonati e che aveva ottenuto nuovamente il favore di Dio. Questa celebrazione includeva il figlio e la figlia, il servo e la serva, oltre al levita. Tutti si sedevano alla mensa del Signore e ne gioivano insieme “nella speranza della gloria di Dio” {Romani 5: 2}. “E non solo, ma anche ci vantiamo in Dio per mezzo del Signor nostro Gesù Cristo, tramite il quale ora abbiamo ricevuto la riconciliazione” {Romani 5: 11}.
Pochi apprezzano o si rallegrano della pace di Dio così come dovrebbero. Sebbene la ragione possa essere la mancanza di apprezzamento di ciò che Dio ha fatto per loro, sono molte le persone che non riescono a capire che è loro diritto e privilegio essere felici nella loro religione. Loro vivono all’ombra della croce piuttosto che al suo splendore. Sentono che ci sia qualcosa di sbagliato nella felicità, che sorridere sia inappropriato e che una risata innocente sia sacrilega. Portano il peso del mondo sulle loro spalle e sentono che trascorrere del tempo ricreandosi non solo è una perdita di tempo, ma è decisamente irreligioso. Sono buoni cristiani ma non sono felici. Se vivessero ai giorni di Cristo e Lo avessero seguito, avrebbero descritto inopportuno il Suo recarsi alle nozze di Cana in Galilea. Sarebbero stati perplessi riguardo al fatto che Cristo mangia e beve con i peccatori. Essi avrebbero digiunato e pregato con i discepoli di Giovanni {Luca 5: 29-35}.
Tuttavia, quanto scritto fin ora viene fatto con pieno apprezzamento dei tempi che stiamo vivendo. Se c’è mai stato un periodo in cui la serietà e la sobrietà abbiano a caratterizzare il nostro lavoro, questo è proprio il momento giusto. In vista della crisi che si avvicina, che tipo di uomini dovremmo essere, in ogni santa conversazione e devozione? Si metta da parte ogni frivolezza e leggerezza, e la solennità si impossessi di ogni elemento terreno. Grandi e importanti eventi si stanno susseguendo rapidamente. Non è tempo di sciocchezze e superficialità. Il Re è alle porte!
Gioire nel Signore
Queste condizioni, tuttavia, non dovrebbero farci perdere di vista il fatto che siamo figli del Re, che i nostri peccati sono perdonati e che abbiamo il diritto di essere felici e rallegrarci. L’opera di Dio deve essere completata e noi dobbiamo averne parte. Ma dopo tutto, è Dio che deve finire l’opera. Molti parlano e si comportano come se dovessero finire tutto il lavoro, come se dipendesse da loro. Pensano che l’intera responsabilità del lavoro cada su di loro e che, sebbene Dio possa aiutare, spetta a loro fare tutto il lavoro. Anche nelle loro preghiere, spesso ricordano a Dio cosa dovrebbe fare, timorosi del fatto che Egli possa dimenticare alcune cose che pesano sul loro cuore. Sono buone persone, ansiose di fare sempre il bene, ma non hanno imparato a gettare i loro fardelli sul Signore {1 Pietro 5: 7}. Stanno facendo del loro meglio per portare il carico e, sebbene ne stiano gemendo sotto il peso, sono determinati a non arrendersi. Stanno lottando e stanno facendo molto bene. Sono lavoratori preziosi e il Signore li ama teneramente.
Ma mancano di alcuni elementi essenziali e importanti, non traggono molta gioia dal loro cristianesimo. Sono come Marta, faticano e lavorano, ma tralasciano l’unica cosa necessaria. Guardano con disapprovazione le Marie che non fanno come loro e si lamentano al Signore. Non capiscono come Cristo possa prendere la parte di Maria, quando a loro avviso va rimproverata. Operano, ma non ne sono contenti. Pensano che gli altri non stiano facendo la loro parte {Luca 10: 38-42}.
È la stessa lezione che viene sottolineata nella storia del figliol prodigo. Il figlio maggiore ha detto di non aver mai fatto nulla di male. Aveva sempre lavorato sodo e non aveva perso tempo a banchettare e fare baldoria. E ora, quando il figlio minore tornò a casa dopo aver trascorso parte della sua vita in modo sfrenato, si adirò e non volle andare alla festa in onore del fratello che era appena tornato. Non servì a nulla che il padre uscì e lo supplicasse. Piuttosto rimproverò il padre, rimproverandolo che “quando è tornato questo tuo figlio, che ha divorato i tuoi beni con le meretrici, tu hai ammazzato per lui il vitello ingrassato” {Luca 15: 30}. Il padre gentilmente rispose: “si doveva fare festa e rallegrarsi perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” {Luca 15: 32}. Non ci viene raccontata la fine della storia. Il figlio vi entrò? L’amore del padre prevalse? Noi non lo sappiamo. La storia non ce lo dice. L’ultima foto che abbiamo è del figlio maggiore che è fuori casa, arrabbiato. C’è da sperare che si sia pentito e che sia entrato, ma non lo sappiamo.
I cristiani dovrebbero essere persone felici, anche nel mezzo degli eventi più solenni. E perché non dovrebbero esserlo? I loro peccati sono perdonati e hanno pace con Dio. Sono giustificati, santificati, salvati. Dio ha messo un nuovo canto nelle loro bocche. Sono figli dell’Altissimo. Stanno camminando con Dio e sono felici nel Suo amore.
Pochi cristiani hanno la pace di Dio nei loro cuori così come dovrebbero. Dimenticano la loro eredità. Cristo disse: “io vi lascio la pace, vi do la mia pace; io ve la do, non come la dà il mondo; il vostro cuore non sia turbato e non si spaventi” {Giovanni 14: 27}.
Eppure i cuori di molti sono turbati. Sono spaventati. Sono preoccupanti. Qualche caro è fuori dall’ovile e stanno cercando di “pregarlo”. Giorno e notte faticano e pregano. Nel loro tentativo di salvarlo non lasciano nulla di intentato. Se qualcuno può essere salvato dalle opere di qualcun altro, loro sono determinati a farlo. Ma non lasciano Dio fuori dai loro conti. Lo pregano. Lo supplicano. Pregano come se Dio avesse bisogno di stimoli. E quando finalmente il loro caro si rivolge a Dio, come ne sono felici! Ora possono riposare. Ora il loro lavoro è finito, il loro compito è realizzato.
A tali persone viene mai in mente che Dio è allo stesso modo così interessato alla conversione della persona cara come lo sono loro, anzi, molto più di loro? Gli viene mai in mente che molto tempo prima che iniziassero a pregare e a lavorare in loro favore, Dio ha già pianificato e operato per la salvezza della persona tanto amata; che sta facendo e ha già fatto tutto ciò che si può fare? Che invece di farsi carico dell’opera di Dio e implorarlo di aiutarli, sarebbe meglio se riconoscessero l’opera come opera di Dio e cooperassero con Lui? Nel momento in cui tale realizzazione arriva all’anima, arriva anche la pace. Non ci farà lavorare di meno o pregare di meno, ma sposterà l’enfasi. Inizieremo a pregare con fede. Se crediamo che Dio sia veramente all’opera, se crediamo che sia interessato alla salvezza degli uomini, pregheremo più che mai, ma lasceremo la responsabilità a Dio.
Gran parte del nostro lavoro e molte delle nostre preghiere sono fondate sull’incredulità. A volte crediamo che Dio non stia facendo la sua parte. Crediamo ci siano cose che dovrebbero essere richiamate alla Sua attenzione e facciamo di tutto per ricordagliele. Invece di avere fede in Dio, nella Sua saggezza, nella Sua potenza, noi ci carichiamo di questo peso, dicendo, in effetti, che non possiamo fidarci del fatto che Dio faccia ciò che ha promesso di fare per noi. Ma quando viene la fede, quando splende su di noi la meravigliosa luce di Dio, allora realizziamo che Egli governa ancora tutte le questioni degli uomini; che Egli sta facendo tutto ciò che può essere fatto per salvare l’umanità. E che la nostra principale preoccupazione dovrebbe essere quella di conoscere la Sua volontà: quando questa realizzazione giungerà a noi, sicurezza, riposo e pace saranno nostri in una misura abbondante. Non ci saranno meno opere, ma saranno opere di fede. Non ci saranno meno preghiere, ma saranno preghiere di fede. Il ringraziamento salirà ogni giorno per il privilegio di lavorare insieme a Dio. La pace riempirà il cuore e l’anima. Ansia e preoccupazione non ci saranno più. Pace, dolce pace, tranquillità, riposo, felicità e gioia saranno la nostra porzione quotidiana. La vita e la prospettiva della vita saranno completamente cambiate perché avremmo imparato a sedere ai piedi di Gesù. Mentre Marta lavora ancora – e si lamenta – Maria ascolta le parole di vita. Ha trovato l’unica cosa necessaria. Ora comprende la parola di Cristo: “questa è l’opera di Dio: che crediate” {Giovanni 6: 29}. Lei crede e riposa.
Non c’è beatitudine più grande che avere la pace di Dio nel cuore. È l’eredità che Cristo ha lasciato. “Io vi lascio la pace”, dice. Bellissime parole. “Vi do la mia pace” {Giovanni 14: 27}. La Sua pace è quella tranquilla rassicurazione che deriva dalla fiducia in Dio. Nel momento in cui Cristo pronunciò queste parole si stava avvicinando alla croce. Il Golgota era davanti di Lui. Ma non ha vacillato. Il Suo cuore era pieno di pace e sicurezza. Conosceva Colui in cui confidava. E riposò nella consapevolezza che Dio conosceva la via. Forse non era in grado di “vedere oltre la tomba”. Forse la speranza “non gli permetteva di vedere la sua uscita dalla tomba come un vincitore, né di assicurargli l’accettazione del sacrificio da parte del Padre”. Ma “per fede Cristo riposò in Colui al quale da sempre obbedì con gioia… Per fede, Cristo fu vincitore”. Questa è la stessa pace che Egli ci lascia. Significa unità con il Padre, fraternità, comunione. Significa calma, gioia, riposo, appagamento. Significa fede e speranza. In questa pace non c’è paura, preoccupazione o ansia. Chi la possiede, possiede ciò che supera ogni scienza. Ha una fonte di forza che non dipende dalle circostanze perché è in sintonia con Dio.
Il termine “peccato” e “offerta per il peccato” sono traduzioni diverse della stessa parola ebraica: “chattath”. Le offerte per il peccato erano strettamente legate al peccato tanto che veniva usata la stessa parola ebraica per denotare entrambi. Quando Osea dice dei sacerdoti: “si nutrono del peccato del mio popolo e attaccano il loro cuore alla sua iniquità” {Osea 4: 8}, si usa la parola “chattath”, e quindi il versetto può essere giustamente tradotto con: “si nutrono del peccato” oppure “si nutrono dell’offerta per il peccato”.
Le offerte per il peccato sono menzionate per la prima volta nella Bibbia in relazione alla consacrazione di Aaronne e dei suoi figli {Esodo 29: 14}.
Ci sono quelli che credono che esistessero e fossero usati già da prima, ma non vi è traccia di questo fino al tempo di Mosè. Durante questo primo periodo gli olocausti sembrano essere le uniche offerte utilizzate.
Bisogna capire però che le offerte per il peccato erano utili solo per i peccati commessi per ignoranza. “se uno commette peccato per ignoranza” {Levitico 4: 2}; “se tutta l’assemblea d’Israele commette peccato per ignoranza” {Levitico 4: 13}. “Se uno del popolo commette peccato per ignoranza” {Levitico 4: 27}; “se il peccato è stato commesso per ignoranza” {Numeri 15: 24}; “se è una sola persona a peccare per ignoranza” {Numeri 15: 27} – queste sono affermazioni legate alle offerte per il peccato. Si trattava di peccati commessi per sbaglio, per stoltezza, a causa di azioni avventate, di cui il peccatore non era a conoscenza, ma che in seguito gli divennero noti.
Le offerte per il peccato non coprivano i peccati commessi consapevolmente, volontariamente, in modo provocatorio o persistente. Quando Israele peccò deliberatamente, adorando il vitello d’oro, e rifiutò la misericordia offerta da Dio quando Mosè li chiamò al pentimento, furono prontamente puniti. “In quel giorno caddero circa tremila uomini” {Esodo 32: 28}. Così fu anche con quell’uomo che, nonostante l’espresso comando di Dio, raccolse bastoni di Sabato {Numeri 15: 32-36}; fu messo a morte.
Riguardo ai peccati volontari, dettati dalla presunzione, la legge dice: “ma la persona che commette un peccato deliberatamente, sia essa nativa del paese o straniera, oltraggia l’Eterno; quella persona sarà sterminata di mezzo al suo popolo. Poiché ha disprezzato la parola dell’Eterno e ha violato il suo comandamento, quella persona dovrà essere sterminata; porterà il peso della sua iniquità»” {Numeri 15: 30-31}.
A questa regola generale c’erano alcune eccezioni che saranno discusse nel capitolo: “Offerte di trasgressione del peccato”. Va anche notato che, sebbene nel rituale quotidiano non vi fosse alcuna disposizione per i peccati commessi consciamente o volontariamente, i servizi nel giorno dell’Espiazione prevedevano anche tali trasgressioni. Ma questo sarà considerato più approfonditamente in seguito.
Varie offerte per il peccato
Il quarto capitolo del Levitico parla delle offerte per il peccato. In esso vengono ricordate quattro categorie di colpevoli: il peccato del sacerdote unto {Levitico 4: 3-12}, di tutta l’assemblea {Levitico 4: 13-21}, dei capi {Levitico 4: 22-28} e di qualcuno del popolo {Levitico 4: 27-35}. I sacrifici richiesti non erano gli stessi in tutti i casi, né il sangue veniva impiegato allo stesso modo. Se il sommo sacerdote peccava “rendendo così il popolo colpevole”, doveva portare un “torello all’ingresso della tenda di convegno davanti all’Eterno” {Levitico 4: 3-4}. Se l’intera assemblea d’Israele avesse peccato per ignoranza, doveva anch’essa offrire “un torello e lo porterà davanti alla tenda di convegno” {Levitico 4: 14}. Se uno dei capi avesse peccato, doveva portare “un capro, maschio, senza difetto” {Levitico 4: 23}. Se una delle persone del popolo peccava inconsapevolmente, doveva portare “una capra, femmina, senza difetto, per il peccato che ha commesso” {Levitico 4: 28}. Nel caso non avesse potuto portare una capra, doveva portare una femmina di agnello {Levitico 4: 32}.
In ogni caso il peccatore doveva offrire un sacrificio, posare la mano sulla testa dell’animale e ucciderlo. Quando l’intera congregazione peccava, l’assemblea doveva portare un’offerta e gli anziani ponevano le mani sulla testa del torello.
Nella disposizione del sangue c’era un’importante differenza da notare. Quando il sacerdote unto peccava, doveva prendere un torello ed ucciderlo, poi “il sacerdote intingerà il suo dito nel sangue e spruzzerà un po’ di quel sangue sette volte davanti all’Eterno, di fronte al velo del santuario” {Levitico 4: 6}. Doveva versare anche un po’ di sangue sui corni dell’altare degli incensi, che sta davanti al Signore, nel luogo santo. E avrebbe poi versato tutto il resto sangue del torello alla base dell’altare degli olocausti, che è all’ingresso della tenda di convegno {Levitico 4: 7}.
Quando l’intera assemblea peccava, il sangue veniva impiegato allo stesso modo di quando il sacerdote unto peccava. Parte di esso veniva portato nel primo appartamento del santuario e asperso davanti al velo. I corni dell’altare degli incensi venivano tinti dal sangue, e il resto del sangue era versato ai piedi dell’altare degli olocausti nel cortile esterno {Levitico 4: 18}.
Quando uno dei capi peccava, il sangue non veniva portato nel santuario. Il resoconto dice: “il sacerdote prenderà col suo dito un po’ del sangue del sacrificio per il peccato e lo metterà sui corni dell’altare degli olocausti, e verserà il sangue del capro alla base dell’altare dell’olocausto” {Levitico 4: 25}. In questo caso il sangue non veniva né portato nel santuario né asperso sul secondo velo. Veniva posto sui corni dell’altare degli olocausti nel cortile esterno, e il resto del sangue era versato ai piedi dello stesso altare.
Quando una delle persone del popolo peccava, il sangue veniva impiegato in quest’ultimo stesso modo. Veniva posto sui corni dell’altare degli olocausti e il resto versato alla base dell’altare {Levitico 4: 30, 34}.
In tutti e quattro i casi il grasso veniva tolto dalla carcassa e bruciato sull’altare degli olocausti {Levitico 4: 8-10, 19, 26, 31, 35}. La carcassa, invece, era trattata diversamente nei diversi vari casi. Se il sacerdote unto peccava, “la pelle del torello e tutta la sua carne, con la sua testa, le sue gambe, i suoi intestini e i suoi escrementi, l’intero torello, lo porterà fuori del campo, in un luogo puro, dove si gettano le ceneri; e lo brucerà sulla legna col fuoco; sarà bruciato dove si gettano le ceneri” {Levitico 4: 11-12}. Lo stesso veniva fatto con il corpo del torello offerto in sacrificio per il peccato di tutta l’assemblea. Il corpo era portato fuori dall’accampamento in un luogo puro e lì veniva bruciato sulla legna con il fuoco {Levitico 4: 21}. Non c’è alcuna istruzione nel quarto capitolo del Levitico su ciò che doveva essere fatto con il corpo del sacrificio quando un capo o una delle persone del popolo peccava. Ma nel sesto capitolo del Levitico, invece, nella “legge del sacrificio per il peccato”, si trova qualche ulteriore istruzione. “Nel luogo dove si sgozza l’olocausto, si sgozzi il sacrifico per il peccato davanti all’Eterno. È cosa santissima. Il sacerdote che l’offre per il peccato la mangerà; dovrà essere mangiata in luogo santo, nel cortile della tenda di convegno” {Levitico 6: 25-26}.
Questa affermazione è illuminante. Il sacerdote che ha offerto il sacrificio per il peccato doveva mangiarlo. L’avrebbe mangiato nel luogo santo, nell’atrio del tabernacolo del convegno. {Levitico 6: 29} afferma: “Ogni maschio fra i sacerdoti ne potrà mangiare; è cosa santissima”. Tuttavia in {Levitico 6: 30} vi è un eccezione: “non si mangerà alcuna vittima per il peccato, il cui sangue è portato nella tenda di convegno per fare l’espiazione nel santuario. Essa sarà bruciata col fuoco”.
Il sangue
Da quanto precede riassumiamo l’uso del sangue nelle offerte per il peccato come segue: nei primi due casi, quelli del sacerdote unto e dell’intera assemblea, il ministero del sangue veniva svolto nel seguente modo: veniva portato nel primo appartamento del santuario, asperso sette volte davanti al velo e posto anche sui corni dell’altare dell’incenso {Levitico 4: 6-7}. Solo una piccola parte del sangue veniva usata per l’aspersione; il resto veniva sparso alla base dell’altare per gli olocausti.
Negli altri due casi, quello dei capi e quello delle persone del popolo, il sangue non veniva portato nel santuario, il sacerdote ne prendeva il sangue e con il dito ne metteva un po’ sui corni dell’altare degli olocausti {Levitico 4: 25}. La differenza da notare è che nei primi due casi il sangue veniva portato nel santuario; negli altri due casi no.
La carne
In nessuno dei quattro casi la carne veniva usata in alcun ministero all’altare. Mentre il grasso di tutti gli animali usati nel servizio veniva tolto dal corpo e bruciato “sull’altare come un odore soave all’Eterno” {Levitico 4: 8, 19, 26, 31, 35}, la carne veniva bruciata fuori dall’accampamento o mangiata dai sacerdoti {Levitico 4: 12, 21; Levitico 4: 6, 26, 29}. Bruciare la carcassa fuori dall’accampamento aveva semplicemente lo scopo per il quale era impiegato, ma non aveva alcun significato espiatorio. Per spiegare l’ardere della carne da parte dei sacerdoti, Mosè disse: “Ecco, il sangue della vittima non è stato portato dentro il luogo santo; voi avreste dovuto mangiarla in luogo santo, come avevo comandato” {Levitico 10: 18}. Questo concorda con il principio affermato in {Levitico 6: 30}. Infatti si doveva fare una di queste due cose: o il sangue del sacrificio veniva portato nel luogo santo, oppure la carne doveva essere mangiata dal sacerdote. Ma non spettava al giudizio del sacerdote scegliere quale di questi due. Gli fu espressamente comandato di portare il sangue nel santuario nel caso del sacerdote unto e dell’intera adunanza. Mentre negli altri due casi non doveva portare il sangue nel luogo santo, ma metterlo sui corni dell’altare dell’olocausto e poi mangiarne la carne. Il sacerdote inoltre non poteva omettere di mangiare la carne quando il sangue non veniva portato di dentro. Poteva fare solo una delle due cose, ma non potevano essere omesse. Da ciò si può dedurre che il mangiare la carne fosse, in qualche modo, considerato l’equivalente del portare il sangue nel santuario.
Trasferimento del peccato
“Mosè indagò accuratamente circa il capro del sacrificio per il peccato; ed ecco, era stato bruciato; per cui si adirò contro Eleazar e contro Ithamar, i figli di Aaronne che erano rimasti, dicendo: «Perché non avete mangiato il sacrificio per il peccato in luogo santo, poiché è cosa santissima, e l’Eterno ve l’ha dato affinché portiate l’iniquità dell’assemblea, perché facciate l’espiazione per loro davanti all’Eterno? Ecco, il sangue della vittima non è stato portato dentro il luogo santo; voi avreste dovuto mangiarla in luogo santo, come avevo comandato»” {Levitico 10: 16-18}.
Aaronne e i suoi figli avevano commesso l’errore di non mangiare la carne del sacrificio per il peccato. Quando veniva offerto un capro, il sangue doveva essere versato sui corni dell’altare dell’olocausto e la carne doveva essere mangiata. In questo caso avevano omesso di mangiare la carne. Questo fece sdegnare Mosè, che disse: “voi avreste dovuto mangiarla in luogo santo, come avevo comandato”. Si afferma che il motivo per cui si doveva mangiare la carne è perché: “l’Eterno ve l’ha dato affinché portiate l’iniquità dell’assemblea”. Questa è una chiara affermazione del fatto che il sacerdote, mangiando la carne, prendeva su di sé l’iniquità del popolo.
Questa affermazione ha una precisa attinenza con la questione del trasferimento del peccato da un individuo all’altro. Questa questione è fondamentale per il cristianesimo. Se il peccato non può essere trasferito, allora Cristo, ovviamente, non poteva prendere i nostri peccati. E se Lui non poteva prendere i nostri peccati, allora siamo senza speranza. Il cristianesimo è costruito sulla proposizione che Cristo è “l’Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo” {Giovanni 1: 29} prendendolo su di Sé. Togli questa speranza all’umanità ed è tutto perduto.
Ora ci domandiamo: esiste un parallelo con ciò che abbiamo appena visto nel servizio del santuario? Esiste qualche trasferimento del peccato? Uno porta i peccati di un altro? La risposta è affermativa. Aaronne viene al santuario carico di peccato, ma quando se ne va non lo è più; è stato perdonato e se ne va libero e felice. Cos’è successo?
Ha portato la sua offerta per il peccato: “porterà quindi all’Eterno, come sacrifico della sua colpa per il peccato che ha commesso, una femmina del gregge, una pecora o una capra, come sacrificio per il peccato; e il sacerdote farà per lui l’espiazione a motivo del suo peccato” {Levitico 5: 6; Levitico 4: 28, 31}. Ha messo la sua mano sulla testa dell’offerta e l’ha immolata. Ha confessato di essersi “reso colpevole in una di queste cose” {Levitico 5: 5}. Dopo questo il sacerdote ha preso “del suo sangue e lo metterà sui corni dell’altare dell’olocausto” {Levitico 4: 30-31}. Come ultima parte della cerimonia, il sacerdote ha mangiato la carne dell’offerta per il peccato nell’atrio del tabernacolo {Levitico 6: 26}, con questo atto prendeva su di sé il peccato, portando “l’iniquità dell’assemblea” {Levitico 10: 17}. In questo modo il sacerdote simboleggia Colui che “portò il peccato di molti”, sul quale il Signore pose “l’iniquità di tutti noi” {Isaia 53: 1-12}. “Egli portava le nostre malattie e si era caricato dei nostri dolori” {Isaia 53: 4}; La sua vita è divenuta “sacrificio per il peccato… il giusto, il mio servo renderà giusti molti, perché si caricherà delle loro iniquità” {Isaia 53: 10-11}.
Chi è che non riesce a vedere il parallelismo? Di Cristo si viene detto che Egli porterà le iniquità di molti. Dei sacerdoti altrettanto ci viene detto che “l’Eterno ve l’ha dato affinché portiate l’iniquità dell’assemblea”. Come Cristo prese su di Sé il peccato, così i sacerdoti prendevano su di loro il peccato. Come Cristo ha preso i nostri peccati su di Lui per rendere giusti i molti, così i sacerdoti prendevano su di loro il peccato “perché facciate l’espiazione per loro davanti all’Eterno” {Levitico 10: 17}. Non c’è alcun dubbio che in questi casi vi fosse un trasferimento del peccato; sia nel tipo, che nella realtà.
Quando il sacerdote ministrava il sangue e mangiava la carne, non solo prendeva su di sé il peccato, ma si identificava completamente con il peccatore; quei peccati che prendeva su di sé diventati i suoi propri peccati, e ne diventava responsabile. “L’Eterno ve l’ha dato [sacrificio] affinché portiate l’iniquità dell’assemblea, perché facciate l’espiazione per loro davanti all’Eterno” {Levitico 10: 17}.
Nel corso della sua settimana di servizio nel santuario, il sacerdote mangiava molti dei sacrifici per il peccato, portando così i peccati di molti offerenti. Poiché non poteva espiare questi peccati con la propria vita, e poiché portava i peccati allo scopo dichiarato di fare espiazione per essi, diventava necessario che portasse un’offerta personale per tutti i peccati di cui si era caricato e di cui era diventato responsabile. Poiché i peccati che portava ora erano suoi, quando un sacerdote peccava, il sangue doveva essere portato nel luogo santo, perciò il sangue veniva portato nel santuario, facendo l’espiazione per tutti i peccati di cui si era caricato.
Il fatto che il peccato potesse essere trasferito è confermato anche dal servizio nel giorno dell’Espiazione. “Aaronne poserà entrambe le sue mani sulla testa del capro vivo e confesserà su di esso tutte le iniquità dei figli d’Israele tutte le loro trasgressioni, tutti i loro peccati, e li metterà sulla testa del capro; lo manderà poi nel deserto per mezzo di un uomo appositamente scelto” {Levitico 16: 21}.
Questa affermazione è chiara e precisa. Il sommo sacerdote impone le mani sulla testa del capro espiatorio e confessa su di lui tutte le iniquità dei figli d’Israele e tutte le loro trasgressioni, le “metterà sulla testa del capro”. Le parole non potrebbero essere più chiare di queste.
Sulla base dell’evidenza qui presentata, capiamo con certezza che il trasferimento del peccato è una vera dottrina biblica, che è stato prefigurato nel servizio del santuario e che è stato effettivamente compiuto nella vita di Cristo. Crediamo che questa dottrina sia vitale per la salvezza, uno dei pilastri fondamentali dell’espiazione.
Il sangue contamina?
Che il sangue purifichi è una dottrina evangelica ben evidente. “Se confessiamo i nostri peccati, egli [Gesù] è fedele e giusto, da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità” {1 Giovanni 1: 7} questa è la convinzione e il credo di ogni cristiano. Ma anche la dottrina secondo la quale il sangue contamini è veramente biblica? Lo esamineremo proprio ora.
Se dovessimo cambiare la domanda in: “il peccato contamina?” Tutti sarebbero d’accordo. “Dal cuore”, dice Cristo, “provengono pensieri malvagi, omicidi, adultèri, fornicazioni, furti, false testimonianze, maldicenze. Queste sono le cose che contaminano l’uomo” {Matteo 15: 19-20}. Questo è un vero e proprio principio biblico confermato dall’insegnamento generale di tutta la Bibbia. Non solo il peccato contamina l’uomo, ma contamina tutto ciò che tocca. L’adulterio contamina la terra e il santuario {Ezechiele 23: 37-38}. L’omicidio contamina la terra {Numeri 35: 33}. La profanazione del sabato contamina sia il sabato che il santuario {Ezechiele 23: 38}. L’impurità contamina il tabernacolo {Levitico 15: 31; Levitico 16: 16}. L’adorazione di Molek contamina il santuario {Levitico 20: 3}. L’uomo cerimonialmente impuro, che non si purifica, contamina il tabernacolo e il santuario del Signore {Numeri 19: 13, 20}. In tutti questi casi è il peccato che contamina, sia esso una persona, una cosa o un giorno. La terra può essere contaminata, così come il sabato, il tabernacolo, il santuario o il cuore umano. Il peccato contamina ciò che tocca.
La purificazione del Santuario
Quando nel giorno dell’espiazione il santuario veniva purificato mediante il sangue del capro, Aaronne doveva spruzzare il sangue “sul propiziatorio e davanti al propiziatorio” e di fare “l’espiazione per il santuario, per la tenda di convegno e per l’altare” {Levitico 16: 15-20}. In particolare, avrebbe messo il sangue “sui corni dell’altare tutt’intorno” {Levitico 16: 18}. Allo stesso modo si doveva purificare l’altare dell’incenso. “Aaronne farà una volta all’anno l’espiazione sui suoi corni; col sangue del sacrificio di espiazione per il peccato farà su di esso l’espiazione una volta l’anno, di generazione in generazione. Sarà cosa santissima, sacra all’Eterno” {Esodo 30: 10}.
Questi altari venivano purificati ogni anno, come anche il luogo Santo e quello Santissimo. Possiamo, quindi, giustamente chiedere che cosa abbia reso impuri i due altari, il luogo Santo e il luogo Santissimo? Si dice che il motivo della contaminazione sia “a motivo delle impurità dei figli d’Israele, delle loro trasgressioni e di tutti i loro peccati” {Levitico 16: 16}. Ciò è confermato da ciò che abbiamo letto prima, ovvero che il sangue veniva messo “sui corni dell’altare tutt’intorno” e anche spruzzato su di esso sette volte, “così lo purificherà e lo santificherà dalle impurità dei figli d’Israele” {Levitico 16: 18-19}.
Comprendiamo quindi che il santuario sia stato reso impuro a causa dei peccati di Israele, questo fatto infatti era particolarmente vero per quanto riguarda le corna degli altari. Dell’altare d’oro si sottolinea che Aaronne “farà una volta all’anno l’espiazione sui suoi corni” e che tale espiazione doveva essere fatta “col sangue del sacrificio di espiazione per il peccato” {Esodo 30: 10}. Doveva anche mettere “del sangue del capro e lo metterà sui corni dell’altare tutt’intorno… così lo purificherà e lo santificherà dalle impurità dei figli d’Israele” {Levitico 16: 18-19}.
Potrebbe essere pertinente chiedere: se il sangue purifica solamente e non contamina mai, perché era necessario purificare le corna dell’altare nel giorno dell’Espiazione, visto che il sangue veniva posto su queste corna ogni giorno dell’anno? Se il sangue posto quotidianamente sulle corna le purificavano, allora le corna dovevano essere molto pure nel giorno dell’Espiazione. Ma era il contrario. Esse venivano contaminate; diventavano impure. Il sangue era stato posto sulle corna dal sacerdote; e in questo modo il peccato veniva registrato. Per questo motivo vi era bisogno di una purificazione.
Una dichiarazione importante
Una dichiarazione importante riguardo al sangue la si trova in {Levitico 17: 11}, di cui abbiamo discusso brevemente nel capitolo sugli olocausti, e ci dice: “poiché la vita della carne è nel sangue. Per questo vi ho ordinato di porlo sull’altare per fare l’espiazione per le vostre vite, perché è il sangue che fa l’espiazione per la vita” oppure “perché è il sangue che fa l’espiazione a motivo della vita” {KJV}.
Il versetto sottolinea il fatto che “la vita della carne è nel sangue” e che “è il sangue che fa l’espiazione a motivo della vita”. Questo vuol dire che non è il sangue in sé e di per sé che fa l’espiazione, ma è la vita nel sangue che la fa. È la vita della persona stessa che determina il valore del sangue.
Per questo motivo il sangue di un essere peccatore non ha valore espiatorio. E proprio per la stessa ragione, il sangue di Cristo invece ha un valore infinitamente espiatorio. Il Suo sangue espia perché è “a motivo della vita”.
Infatti la preposizione “per” nella frase: “è il sangue che fa l’espiazione per la vita”, denota i mezzi con cui viene fatta l’espiazione, e quindi può essere appropriatamente tradotta “a motivo di”.
Il piano della salvezza si basa sull’espiazione del sangue. A causa del peccato l’uomo ha perso il suo diritto alla vita, quindi tale diritto spetta solamente a Dio. Perciò Dio offrì all’umanità una via di fuga, una soluzione misericordiosa, accettando un’altra vita al posto della vita del trasgressore. Siccome “la vita della carne è nel sangue”, il sangue del sostituto doveva essere sparso e presentato a Dio sull’altare al posto del sangue del vero peccatore. Ma prima che ciò avvenisse, il peccatore doveva identificarsi con il suo sostituto, mettendo la mano sul capo della vittima, e “confesserà il peccato che ha commesso” {Levitico 5: 5}. In questa transizione poichè il sostituto prende il posto del peccatore e muore al suo posto, questo vuol dire che necessariamente il peccato e la colpa si trasferiscono sul sostituto, che si sottomette alla pena. Dopo che il sacrificio è stato immolato, il sangue, simbolo della vita, viene posto sui corni dell’altare; questo atto costituisce il riconoscimento della vita perduta e anche la giustizia della legge nel richiederla.
Riguardo al sangue usato nell’offerta per il peccato, ci viene detto che: “il sacerdote prenderà col suo dito un po’ del suo sangue e lo metterà sui corni dell’altare dell’olocausto” {Levitico 4: 30}. Riguardo a questa cerimonia Geremia spiega che: “il peccato di Giuda è scritto con uno stilo di ferro, è inciso con una punta di diamante sulla tavola del loro cuore e sui corni dei vostri altari” {Geremia 17: 1}. Mentre il sacerdote macchiava solennemente le corna di sangue, con il proprio dito, in quel momento il peccato veniva registrato. Era una sorta di impronta digitale, un’impronta di sangue sulle corna, e questa impronta digitale costituiva una registrazione così precisa, come se fosse scolpita con la punta di un diamante. L’uomo aveva peccato. Ha confessato il suo peccato. Ed infine, il peccato è stato registrato con il sangue del sacrificio che l’uomo ha portato. Ha ammesso la sua colpa. Ha riconosciuto la giustizia della morte come punizione del suo peccato, e riconoscendo ciò, ha tolto la vita alla vittima con la sua stessa mano. E la registrazione di questa transazione è ora posta sui corni dell’altare per mezzo del sangue.
Il sangue che veniva messo sui corni dell’altare era il sangue di un animale a cui era stato imputato il peccato dell’uomo. L’animale è morto perché su di esso è stato posto il peccato. Il sangue che veniva posto sui corni dell’altare era dunque sangue carico di peccato. Il peccato è stato registrato sulle corna come “con uno stilo di ferro”. Questo atto ha anche registrato la morte del peccatore nel suo sostituto. Registrava che una vita, perduta a causa del peccato, era stata restituita a Colui che l’aveva data. Registrava il pagamento del debito nei confronti della legge. Registrava che il colpevole si rendeva conto e riconosceva il suo peccato, e che rinunciava a quella vita deponendola davanti a Dio.
La vita che il peccatore deponeva non era una vita perfetta e pura. Era una vita contaminata dal peccato. Di quella vita, il sangue era l’elemento più emblematico, perché “la vita è nel sangue”, ed è la vita del peccatore a determinare il valore di quel sangue.
Se quella vita non fosse stata una vita peccaminosa, non ci sarebbe stato alcun motivo per la confessione del peccato né per l’immolazione di quella vita sull’altare. La violazione della legge esige la vita del peccatore, il cui sangue, carico di peccato, ne è il simbolo, e l’uomo la depone volentieri. La vita richiesta è la vita peccaminosa, non la vita perfetta, e proprio a questa vita peccaminosa l’uomo ora rinuncia. Attraverso la confessione ha già posto il suo peccato sull’animale innocente, che è diventato il suo sostituto e che ora viene considerato peccatore al posto suo. E come tale deve morire, pagando in questo modo il salario del peccato {Romani 6: 23}, onorando così la dignità della legge. È proprio questo sangue carico di peccato che il sacerdote prende e depone sui corni dell’altare, registrandone così il peccato e anche il fatto che uno sdebitamento è stato effettuato. Così si adempie l’affermazione di Geremia secondo la quale “il peccato di Giuda è scritto con uno stilo di ferro, è inciso con una punta di diamante sulla tavola del loro cuore e sui corni dei vostri altari” {Geremia 17: 1}.
Due cose necessarie
Considerando l’espiazione, molti dimenticano la parte che la legge gioca. Eppure era proprio la legge dei dieci comandamenti attorno a cui ruotavano tutti i servizi del santuario. Togli la legge, e non ci sarebbe stato bisogno di alcuna espiazione, perché senza legge non c’è peccato. Considerato da questo punto di vista, per l’espiazione sono quindi necessarie due cose: in primo luogo, un riconoscimento delle giuste pretese della legge, che è semplicemente un’altra espressione per indicare la giustizia di Dio. Ciò è resa dalla confessione del peccatore, e dalla conseguente rinuncia e restituzione di quella vita che ha perso. Questo atto soddisfa la legge e la pena è paga attraverso il sacrificio sostitutivo. Ma mentre la legge è così soddisfatta, il peccatore, nel tipo, è morto. Questa è la prima parte della transazione.
In secondo luogo, ci deve essere una liberazione del peccatore dalla morte, deve avvenire una transazione attraverso la quale la vita contaminata dal peccato del peccatore venga scambiata con una vita pura e senza peccato. Questa vita senza peccato non solo deve essere di per sé senza peccato, ma deve essere una vita sulla quale non sono mai stati posti altri peccati. Deve essere una vita pura e santa, “senza macchia, senza difetti, e su cui non è mai stato posto alcun giogo” {Numeri 19: 2}. Tale vita si trova solo in Cristo, e il perfetto simbolo di questa vita si trova nel capro per il Signore, che nel giorno dell’Espiazione moriva senza che su di esso venisse confessato alcun peccato; era il suo sangue a completare la purificazione del santuario {Levitico 16}.
Queste due fasi del ministero di Cristo non vanno confuse. Sono distinte e separate; eppure, trovarono il loro adempimento nell’unico e perfetto Redentore, il quale, senza peccato, portò “il peccato di molti” {Isaia 53: 12}, fu fatto “peccato per noi colui che non ha conosciuto peccato” {2 Corinzi 5: 21}, e portò “la sua vita in sacrificio per il peccato” {Isaia 53: 10}, versando “la sua vita fino a morire” {Isaia 53: 12}; sebbene non avesse “commesso alcuna violenza e non c’era stato alcun inganno nella sua bocca” {Isaia 53: 9}.
Il rituale dell’offerta per il peccato
Ora siamo pronti a considerare ulteriormente il significato di ciò che accadeva quando un uomo portava la sua offerta per il peccato al tabernacolo e se ne andava essendo perdonato. Ne abbiamo già discusso brevemente, ma aggiungeremo alcune ulteriori osservazioni. Quando qualcuno del popolo peccava senza saperlo e successivamente se ne accorgeva, doveva portare “una capra, femmina, senza difetto, per il peccato che ha commesso. Poserà la mano sulla testa del sacrificio per il peccato e sgozzerà il sacrificio per il peccato nel luogo dell’olocausto” {Levitico 4: 28-29}.
L’imposizione della mano era un’antica usanza in Israele, un atto simbolico per cui qualcosa posseduto da uno veniva trasmesso ad un altro. Giacobbe pose volontariamente la sua mano destra su Efraim e la sua sinistra su Manasse, e li benedisse {Genesi 48: 14-15}. Anche Gesù impose le mani sui bambini e li benedisse {Marco 10: 16}. Gesù si servì delle mani per guarire le persone {Marco 6: 5}; Paolo riacquistò la vista in questo modo {Atti 9: 12}; gli uomini ricevevano lo Spirito Santo attraverso l’imposizione delle mani {Atti 19: 6}; Giosuè venne consacrato al suo santo incarico da Mosè in questo modo {Numeri 27: 18}; e Stefano fu ordinato al ministero {Atti 6: 6}. In ogni caso, attraverso il segno esteriore dell’imposizione delle mani, qualcosa veniva trasmesso dall’uno all’altro. Nel Nuovo Testamento l’imposizione delle mani è considerata una delle dottrine fondamentali della Chiesa {Ebrei 6: 2}; tuttavia si insegna a non imporre con precipitazione le mani ad alcuno {1 Timoteo 5: 22}.
Se ora domandiamo che cosa possieda il peccatore e che cosa egli possa impartire ad un altro quando appare davanti a Dio, ponendo la mano sul sacrificio, scopriamo che è in possesso di una sola cosa, il peccato, da cui spera e prega di essere liberato. E ne viene liberato.
Egli pone la mano sulla testa dell’animale, e con questo atto trasmette il suo peccato all’agnello innocente, che ora porta i suoi peccati.
Successivamente quella stessa mano che ha trasmesso i peccati all’agnello lo uccide. Ora inizia il servizio sacerdotale e il sangue viene deposto sui corni dell’altare dei sacrifici. Questo sangue rappresenta la vita perduta del peccatore, che viene versata per soddisfare le richieste della legge.
La legge richiede il sangue, la vita del peccatore, fino al giorno dell’Espiazione, quando veniva compiuta la redenzione. Come notato prima, il sacerdote immergeva il dito nel sangue e poneva un segno sulle corna, un segno di sangue, un’impronta digitale. Con questo segno il peccato veniva registrato, come se l’impronta digitale costituisse una vera e propria registrazione. Questo segno registrava il peccato, e anche il fatto che era avvenuta una morte per quel peccato.
Con questa transazione l’altare veniva contaminato, e in particolare le corna. Per questo era necessario fare un’espiazione dell’altare una volta all’anno con il sangue di un’offerta per il peccato. Questa espiazione veniva compiuta quando il sacerdote prendeva il sangue puro del capro per il Signore, sul quale non era stato posto alcun peccato, e lo metteva sui corni dell’altare e tutt’intorno. “Egli uscirà verso l’altare che è davanti all’Eterno e farà l’espiazione per esso: prenderà del sangue del torello e del sangue del capro e lo metterà sui corni dell’altare tutt’intorno. Poi spruzzerà del sangue su di esso col suo dito sette volte; così lo purificherà e lo santificherà dalle impurità dei figli d’Israele” {Levitico 16: 18-19}. Siccome durante l’anno queste corna erano state contaminate dal sangue carico di peccato che era stato posto su di loro, ora sono purificate con il sangue senza peccato usato nel giorno dell’Espiazione.
È interessante notare che nel giorno dell’Espiazione il sangue espiatorio veniva posto solo sugli oggetti che erano stati precedentemente contaminati. Il sangue non veniva posto sulla conca o sul candeliere o sulla tavola del pane di presentazione, perché su di essi non era stato precedentemente applicato alcun sangue. Ma il sangue era versato sul propiziatorio, dove era stato asperso il sangue del torello. Anche l’altare dell’incenso e l’altare dell’olocausto venivano aspersi e il sangue versato sui corni {Esodo 30: 10; Esodo 16: 18-19}, poiché questi altari erano stati precedentemente contaminati durante il servizio quotidiano. Del velo non ci viene detto chiaramente che sia stato asperso dal sangue, né nel servizio quotidiano né nella purificazione nel giorno dell’Espiazione. L’affermazione biblica che il sangue era asperso “di fronte” al velo, è probabilmente la lettura più corretta {Levitico 4: 6, 17}, tuttavia, una volta all’anno il velo veniva tolto e ne veniva appeso uno nuovo. Riteniamo quindi che il sangue possa sia contaminare che purificare, ma ciò dipende solo dal valore del sangue utilizzato. La vita misura il sangue, e il sangue la vita; poiché “la vita della carne è nel sangue” {Levitico 17: 11}. Se è una vita peccaminosa, il sangue contamina; se è una vita senza peccato, purifica. In armonia con quanto detto fin ora è il fatto che mentre il peccato sia stato confessato sul sacrificio nel servizio quotidiano, non vi è alcuna testimonianza che il peccato sia stato confessato sul capro per il Signore durante il servizio annuale. Nel primo caso il sacrificio si caricava del peccato, è stato fatto diventare peccato e, come peccatore, doveva morire. Nel secondo caso Cristo morì come Uno senza peccato: una vita innocente, che senza peccato fu data per la nostra santa consacrazione.
La mancata distinzione di queste due fasi nell’opera della redenzione, mostrate chiaramente nel tipo cerimoniale, rende impossibile un’affidabile valutazione dell’opera espiatoria di Cristo. Come nostro Sostituto, Cristo prese su di Sé i nostri peccati e morì al posto del peccatore e per il peccato. Come peccatore doveva morire – lo diciamo con rispetto – e così pagare la pena. Ma in quanto “senza peccato” non aveva alcun obbligo di morire; ma Egli è morto volentieri per noi, ci ha redenti dalla morte e dalla tomba, e ci ha posti nei luoghi celesti in Cristo Gesù.
Le offerte per il peccato erano usate anche in altri casi oltre a quelli citati in {Levitico 4}. Una circostanza di questo tipo era la consacrazione di Aronne e dei suoi figli come {Levitico 8}. Qui è bene ricordare che Mosè fu colui che eseguì la cerimonia e non il sacerdote. È vero che furono Aronne e i suoi figli a mettere le loro mani sulla testa del vitello per il sacrificio espiatorio e lo immolarono, ma fu Mosè colui che usò il sangue e lo mise tutto intorno sulle corna dell’altare. E dovrebbe essere preso in considerazione il fatto che il sangue invece di contaminare l’altare, lo purificava.
“Mosè lo scannò, ne prese del sangue, lo mise col dito sui corni dell’altare tutt’intorno e purificò l’altare; poi sparse il sangue alla base dell’altare e lo consacrò per fare su di esso l’espiazione” {Levitico 8: 15}.
Alla fine dei sette giorni della consacrazione di Aronne, fu ordinato di fare un’offerta per il peccato. Aronne doveva prendere per sé un vitello come offerta per il peccato prima di iniziare il suo servizio per il popolo.
“Così Aaronne si avvicinò all’altare e scannò il vitello del sacrificio per il peccato, che era per sé. Poi i suoi figli gli presentarono il sangue ed egli intinse il suo dito nel sangue e lo mise sui corni dell’altare, e versò il resto del sangue alla base dell’altare; ma il grasso, i reni e il lobo grasso del fegato della vittima per il peccato, li fece fumare sull’altare, come l’Eterno aveva ordinato a Mosè. La carne e la pelle invece le bruci fuori del campo” {Levitico 9: 8-11}.
Vi erano anche altre occasioni in cui erano richiesti i sacrifici per il peccato. Dopo la nascita dei bambini, una giovane colomba o una tortora, doveva essere portata come sacrificio per il peccato {Numeri 6: 10}. Allo stesso modo, quando i giorni della consacrazione terminavano, il nazireo doveva portare un agnello di un anno senza difetto, come sacrificio di espiazione {Numeri 6: 14}. Alla consacrazione e purificazione dei Leviti, un vitello doveva essere portato come offerta per il peccato {Numeri 8: 6-12}. Un sacrificio per il peccato era richiesto alla festa del novilunio {Numeri 28: 15}, di Pasqua {Numeri 28: 22}, della Pentecoste {Numeri 28: 30}, del primo giorno del settimo mese {Numeri 29: 5}, del decimo, quindicesimo e ventesimo giorno {Numeri 28: 10-38}.
Il sangue fa l’espiazione
Per tutte le offerte menzionate in questo capitolo l’espiazione è fatta con il sangue e non con il corpo. Il corpo serviva come mezzo di trasferimento del peccato quando il sacerdote mangiava la carne. E in tutti i casi il grasso veniva bruciato sull’altare come gradevole odore. Ma era il sangue a compiere l’espiazione. E lo faceva “a motivo della vita”. La vita di Cristo, simboleggiata dal sangue, è la nostra salvezza. Poiché “siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del suo Figlio, molto più ora, che siamo stati riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita” {Romani 5: 10}. La vita mediante la quale siamo salvati è la Sua vita qui su questa terra ad esempio. È anche la Sua vita dopo la risurrezione, incluso il Suo sedersi alla destra di Dio, “vivendo egli sempre per intercedere per loro” {Ebrei 7: 25}. Ed è attraverso la potenza di questa “vita indissolubile” {Ebrei 7: 16} che Egli purifica la nostra “coscienza dalle opere morte per servire il Dio vivente” {Ebrei 9: 14}.
La giovenca rossa
La cerimonia della giovenca rossa merita un’attenzione particolare. Differiva per molti aspetti dalle regolari offerte per il peccato; eppure, serviva allo stesso scopo. {Numeri 19: 9} dice: “è per purificare dal peccato”. La parola qui usata, “chattath”, è la stessa usata altrove per indicare l’offerta per il peccato. Possiamo quindi includere la giovenca rossa tra le offerte per il peccato comandate da Dio.
A Israele fu comandato di portare una giovenca rossa, senza macchia e senza difetto, e di darla al sacerdote Eleazar {Numeri 19: 2-3}. Il sacerdote doveva portare la giovenca fuori dal campo e farla scannare da qualcuno in sua presenza. Allora avrebbe dovuto prendere il sangue con il dito e aspergerlo sette volte davanti al tabernacolo della congregazione {Numeri 19: 4}. Dopo che ciò veniva fatto, si doveva bruciare la giovenca davanti a Eleazar; “la sua pelle, la sua carne, il suo sangue e i suoi escrementi saranno bruciati” {Numeri 19: 5}. Mentre la giovenca veniva così consumata, il sacerdote doveva prendere “legno di cedro, dell’issopo, del panno scarlatto, e li getterà in mezzo al fuoco che consuma la giovenca” {Numeri 19: 6}. Allora il sacerdote doveva lavarsi le vesti e il suo corpo nell’acqua, e tornare all’accampamento, rimanendo impuro fino alla sera {Numeri 19: 7}. Dopo questo, un uomo puro avrebbe raccolto le ceneri della giovenca e le avrebbe deposte fuori dell’accampamento in un luogo puro. Doveva essere “come acqua di purificazione: è per purificare dal peccato” {Numeri 19: 9}.
Le ceneri così conservate dovevano essere usate per certi tipi di impurità, come quando si toccava un cadavere. In tal caso le ceneri dovevano essere prese “e si verserà su di essa dell’acqua corrente, in un vaso; poi un uomo puro prenderà dell’issopo, lo intingerà nell’acqua e ne spruzzerà la tenda, tutti gli utensili, tutte le persone che si trovano là e colui che ha toccato un osso o l’ucciso o il morto di morte naturale o il sepolcro. L’uomo puro spruzzerà l’impuro il terzo giorno e il settimo giorno; nel settimo giorno l’uomo impuro si purificherà: laverà le sue vesti, laverà sé stesso nell’acqua, e alla sera sarà puro” {Numeri 19: 17-19}.
Si noterà che mentre questa cerimonia era “per purificare dal peccato”, nessun sangue in quanto tale veniva usato per purificare l’uomo dalla sua contaminazione. L’unico momento in cui viene menzionato l’uso del sangue è al momento dell’uccisione della giovenca, quando i sacerdoti ne prelevavano il sangue e lo aspergevano sette volte verso il tabernacolo della congregazione {Numeri 19: 4}. Ma per quanto riguarda la persona in sé, non vi era alcuna aspersione di sangue.
È importante anche notare che la giovenca non veniva uccisa entro i confini del cortile del tabernacolo dove venivano portati anche gli altri sacrifici. Il sangue non veniva portato nel santuario, il sangue non veniva asperso davanti al velo, non veniva messo sui corni dell’altare dell’incenso, non veniva messo sui corni dell’altare degli olocausti, né veniva versato alla base dell’altare degli olocausti. Non entrava in contatto diretto né con il santuario né con l’altare degli olocausti.
Per il rituale della giovenca rossa non era richiesto che officiasse un sacerdote, ma una qualsiasi persona pura. Inoltre, in questa offerta, la purificazione valeva non solo per i figli d’Israele, ma anche per lo straniero. “Questo sarà uno statuto perpetuo per i figli d’Israele e per lo straniero che risiede in mezzo a loro” {Numeri 19: 10}.
La cerimonia occasionale della giovenca rossa ha un profondo significato per l’attento studioso della Parola di Dio. In questo caso la purificazione dal peccato si compie mediante l’uso dell’acqua in cui sono state aggiunte le ceneri della giovenca sacrificata. E il suo ministero è al di fuori dell’accampamento, quindi non è direttamente connesso al consueto ciclo del servizio al santuario.
È a questa cerimonia che si riferisce lo scrittore di Ebrei quando dice: “se il sangue dei tori e dei capri e la cenere di una giovenca aspersi sopra i contaminati li santifica, purificandoli nella carne, quanto più il sangue di Cristo, che mediante lo Spirito eterno offerse sé stesso puro di ogni colpa a Dio, purificherà la vostra coscienza dalle opere morte per servire il Dio vivente!” {Ebrei 9: 13-14}. Infatti, la preghiera di Davide era questa: “purificami con issopo, e sarò mondo; lavami, e sarò più bianco della neve” {Salmo 51: 7}.
Acqua santa, acqua amara
Un uso simile a quello dell’acqua di purificazione è menzionato nel quinto capitolo del libro dei Numeri. In caso di alcuni peccati, “il sacerdote prenderà dell’acqua santa in un vaso di terra; prenderà pure della polvere che è sul pavimento del tabernacolo e la metterà nell’acqua” {Numeri 5: 17}. L’acqua santa, così preparata, è anche chiamata “acqua amara” {Numeri 5: 18-19, 23}. Sebbene non sia necessario entrare nei dettagli riguardo alla cerimonia menzionata in questo capitolo, vogliamo richiamare l’attenzione sul versetto di {Numeri 5: 23}. Il sacerdote doveva scrivere delle maledizioni in un rotolo e poi “le farà scomparire nell’acqua amara”.
Come il sangue, nell’Antico Testamento, è menzionato essere un mezzo per la purificazione dal peccato, così anche l’acqua, in alcuni casi, serviva a uno scopo simile. La conca situata poco prima del tabernacolo, l’acqua usata nella cerimonia della giovenca rossa, l’acqua amara usata per cancellare le maledizioni registrate nel quinto capitolo di Numeri, testimoniano l’uso dell’acqua per la purificazione cerimoniale. Di Cristo è scritto: “questi è colui che è venuto con acqua e sangue, cioè, Gesù Cristo; non con acqua soltanto, ma con acqua e con sangue” {1 Giovanni 5: 6}. Alla crocifissione, “uno dei soldati gli trafisse il costato con una lancia, e subito ne uscì sangue ed acqua. E colui che ha visto ne ha reso testimonianza, e la sua testimonianza è verace; ed egli sa che dice il vero, affinché voi crediate” {Giovanni 19: 34-35}. L’acqua battesimale “(non la rimozione di sporcizia della carne, ma la richiesta di buona coscienza presso Dio), che ora salva anche noi mediante la risurrezione di Gesù Cristo” {1 Pietro 3: 21}.
Concludendo questo breve studio innalza una preghiera di ringraziamento a Dio per il Suo Dono indicibile in Cristo Gesù.
I primi tredici versetti del quinto capitolo del Levitico trattano tipi di trasgressioni che sono chiamati sia “peccati” che “trasgressioni”. I commentatori non si trovano d’accordo su quale nome sia più corretto impiegare, alcuni li chiamano offerte per il “peccato” e altri per la “trasgressione”. Poiché la Bibbia si riferisce a loro sotto entrambe le denominazioni, li chiameremo generalmente “offerte per il peccato”. Di solito una trasgressione è un peccato commesso consapevolmente. Potrebbe essere commesso inconsapevolmente, ma in questi casi si ritiene che l’uomo avrebbe dovuto saperlo, quindi è ritenuto responsabile della sua ignoranza. La parola ebraica per questa offerta di peccato, “asham”, potrebbe benissimo essere tradotta con “offerta per la colpa o per il debito”. Denota un grado di colpa maggiore rispetto alla comune offerta per il peccato, sebbene il peccato in questione possa non essere maggiore.
Come affermato, alcuni peccati hanno la natura di una trasgressione. Per esempio, una persona può in una certa misura ignorare qualche peccato che sta commettendo, e tuttavia non esserne del tutto ignorante. Non è sicuro di fare bene; eppure continua a farlo. Questi sono i tipi di “trasgressione” menzionati nella prima parte del quinto capitolo del Levitico. A quelli appartiene l’omettere delle informazioni {Levitico 5: 1}, il toccare qualsiasi cosa impura {Levitico 5: 2-3}, o giuramento avventato {Levitico 5: 4}. In tali casi al peccatore era comandato di portare un “sacrifico della sua colpa per il peccato che ha commesso, una femmina del gregge, una pecora o una capra, come sacrificio per il peccato; e il sacerdote farà per lui l’espiazione a motivo del suo peccato” {Levitico 5: 6}.
Se non poteva portare una pecora, poteva portare una tortora o un giovane piccione. Non viene data alcuna indicazione su come doveva essere ministrato il sangue degli animali. In assenza di qualsiasi istruzione specifica si ritiene che fosse smaltito allo stesso modo delle regolari offerte per il peccato. Nel caso degli uccelli il sangue veniva asperso sulla base dell’altare {Levitico 5: 9}.
Offerta per il peccato senza sangue
Se il peccatore non poteva portare una tortora o un piccione, poteva portare come offerta la decima parte di un’efa di fior di farina come sacrificio per il peccato. Tuttavia, non gli era permesso metterci sopra né olio né incenso. Il motivo: “è un’offerta per il peccato”. Il sacerdote, portando questa offerta, prendeva una manciata di farina e la bruciava come memoriale sull’altare. Il resto apparteneva al sacerdote come per l’oblazione {Levitico 5: 11-13}.
Questo fatto è davvero qualcosa di straordinario. Normalmente un’offerta per il peccato doveva essere un’offerta di sangue, bisognava infatti togliere la vita ad un animale e il suo sangue doveva essere posto sui corni dell’altare. Ma per chi non ne aveva proprio la possibilità si accettava l’offerta della decima parte di un’efa di farina al posto del sangue. Il sacerdote prendeva una manciata di questa farina e la bruciava sull’altare; “così il sacerdote farà per lui l’espiazione del suo peccato che ha commesso in una di queste cose, ed esso gli sarà perdonato” {Levitico 5: 13}. Affinché nessuno pensi che questa fosse un’offerta di cibo ordinaria, per ben due volte viene fatta la seguente dichiarazione: “è un’offerta per il peccato” {Levitico 5: 11-12}.
Appare quindi chiaro che, almeno in questo caso, veniva accettata un’offerta per il peccato che non conteneva sangue, ma che faceva comunque l’espiazione per il peccato.
Questo richiama l’attenzione sulla dichiarazione che si trova in {Ebrei 9: 22} “secondo la legge, quasi tutte le cose sono purificate col sangue; e senza spargimento di sangue non c’è perdono dei peccati”. Benché sia vero, in generale, che nel servizio tipico non ci sia perdono dei peccati senza spargimento di sangue, tuttavia non va dimenticata l’esenzione portata dall’avverbio “quasi”.
Una simile situazione la ritroviamo nell’offerta della giovenca rossa. Per il processo di purificazione non veniva usato il sangue, ma solo la cenere e l’acqua. Eppure, era una purificazione per il peccato, un’offerta per il peccato {Numeri 19: 9}.
Detto questo non stiamo affatto affermando che i peccati siano mai stati, o che possano mai essere, perdonati senza il sacrificio di sangue del Calvario. La morte di Cristo è necessaria per la nostra salvezza. È tuttavia significativo che nei sacrifici sopra menzionati l’espiazione e il perdono dei peccati siano stati talvolta compiuti senza l’uso diretto del sangue.
Cercando un’applicazione di ciò nell’economia cristiana, non potremmo forse credere che significhi e si applichi a persone che non hanno una conoscenza diretta o definita del Salvatore e tuttavia fanno la volontà di Dio vivendo in conformità a tutta la luce che hanno? Non potrebbe forse rappresentare quei pagani che non hanno mai sentito parlare del nome di Gesù e tuttavia, in misura maggiore o minore, partecipano al Suo Spirito? Crediamo che esistano persone che non hanno mai udito il benedetto nome del Maestro, che non sappiano nulla del Calvario e della redenzione operata per loro sulla croce, ma che tuttavia hanno mostrato attraverso di loro lo spirito di Cristo e saranno salvati nel regno dei cieli. A tali crediamo che si applichi.
Tre casi
Il primo caso menzionato nel quinto capitolo del Levitico, versetto uno, è quello di omettere informazioni quando si è sotto giuramento. “Se uno commette peccato, dopo aver pubblicamente giurato di testimoniare, quando egli è testimone, perché ha visto il fatto o ne è venuto a conoscenza, se non lo riferisce, ne porterà la colpa” {Levitico 5: 1}. Questo giuramento pubblico fa riferimento al giuramento amministrato in un tribunale ebraico. Quando Cristo fu processato, “il sommo sacerdote replicò dicendo: «Io ti scongiuro per il Dio vivente di dirci se sei il Cristo, il Figlio di Dio»” {Matteo 26: 63}. In questa circostanza Cristo non poteva tacere, infatti rispose: “tu l’hai detto” {Matteo 26: 64}.
Questo caso potrebbe rappresentare la conoscenza di un peccato commesso. Una persona è chiamata in tribunale a testimoniare riguardo a ciò che ha visto o sentito, ma si rifiuta di farlo. Questo è un peccato di omissione, ed è soggetto al rimprovero di Dio. Costui “porterà la sua iniquità”.
Il secondo caso è il toccare “qualunque cosa per mezzo della quale l’uomo diviene impuro” {Levitico 5: 2-3}. L’uomo poteva diventare impuro inconsapevolmente; poteva diventarlo senza rendersene conto, e di conseguenza trascurare di purificarsi. Per questo ci viene detto: “quando lo riconosce, è colpevole”.
Questa era una misura sanitaria. L’impurità denota qualcosa di più che una semplice impurità cerimoniale. C’erano molte terribili malattie, sia per l’uomo che per gli animali, altamente trasmissibili. A causa di una sola negligenza poteva facilmente verificarsi un’epidemia. Era quindi comandato che una persona che si fosse esposta all’impurità osservasse le regole che disciplinavano tali casi, ed evitasse il contatto con altre persone per un determinato periodo, lavandosi il corpo e i vestiti, e prendendo altre misure precauzionali. Se ciò non veniva fatto, per ignoranza o intenzionalmente, “quando lo riconosce, è colpevole”.
Il terzo caso è quello di un uomo che: “parlando sconsideratamente con le sue labbra, giura di fare del bene o di fare del male, qualunque cosa un uomo possa dire sconsideratamente con un giuramento” {Levitico 5: 4}. Giurare in modo sconsiderato può anche essere tradotto “giurare con parole oziose e vuote”, oppure lievi volgarità. Tutto ciò è proibito.
A volte si insiste sul fatto che Dio, nei tempi antichi, non richiedesse una vera e propria confessione per concedere il perdono, ma solo di portare il sacrificio. Il rituale dell’offerta per la trasgressione del peccato dovrebbe correggere tale concezione. La confessione era decisamente necessaria. “Quando un uomo o una donna commette qualsiasi offesa contro qualcuno, così facendo, commette un peccato contro l’Eterno, e questa persona si rende colpevole; essa confesserà l’offesa commessa e farà piena restituzione del danno fatto, aggiungendovi un quinto e lo darà a colui che ha offeso” {Numeri 5: 6-7}.
Una semplice confessione generale, tuttavia, non era sufficiente.
“Se dunque uno si è reso colpevole in una di queste cose, confesserà il peccato che ha commesso” {Levitico 5: 5}.
Questa affermazione è decisiva e definitiva. Non solo il peccatore doveva confessare di aver peccato, ma doveva confessare di aver peccato in “una di queste cose”. È proprio “una di queste cose” che conta.
Solo quando si confessa in modo specifico si può ricevere l’espiazione.
Nel caso in cui c’ci fosse stato anche un inganno, la confessione non era sufficiente, anche se questa era assolutamente necessaria. Questa restituzione includeva anche la quinta parte del valore della cosa stessa. “Farà piena restituzione del danno fatto, aggiungendovi un quinto e lo darà a colui che ha offeso”. Nel caso non fosse possibile restituire all’uomo, l’uomo nei confronti del quale si aveva commesso un errore in qualche modo, o a causa della morte, o per qualche altra ragione, o non aveva parenti, la ricompensa doveva essere data al sacerdote {Numeri 5: 7-8}.
Questa ricompensa era aggiunta al montone che doveva essere dato come offerta per la colpa. Da qui si nota chiaramente che Dio richiedeva dal Suo popolo di più che portare un semplice sacrificio. Egli richiedeva la confessione e la restituzione. Ma se qualcuno vuole dire che non si dice nulla riguardo al pentimento, la risposta che viene in modo naturale è che Dio qui si occupa solo degli atti esteriori del culto. Se fosse stato richiesto anche il pentimento come soluzione per il perdono, sarebbe stato possibile a qualsiasi sacerdote negare a qualcuno il fatto che il suo peccato è stato espiato anche se l’uomo aveva adempiuto le ordinanze imposte da Dio. Avrebbe significato che spettava al sacerdote dire se l’uomo era pentito oppure no. È troppo pericoloso lasciare questo potere nelle mani di un uomo, perciò, con grande saggezza, ha riservato questo compito per Sé stesso.
Se c’è ancora qualche dubbio su ciò che sta chiedendo Dio per quanto riguarda il pentimento, e come l’uomo comprende questa richiesta di Dio, leggi in particolare la preghiera di Salomone per la dedicazione del tempio {1 Re 8: 46-53}. Oppure ascolta la richiesta di Davide: “Tu infatti non prendi piacere nel sacrificio altrimenti te l’offrirei, né gradisci l’olocausto. I sacrifici di DIO sono lo spirito rotto; o DIO tu non disprezzi il cuore rotto e contrito” {Salmo 51: 16-17}.
Israele aveva avuto abbastanza opportunità per capire che ciò che Dio voleva era un cuore spezzato e addolorato. Se avessero voluto, avrebbero potuto rendere bella e spirituale la loro adorazione, come senza dubbio alcuni facevano.
Vi erano altre circostanze che richiedevano un sacrificio per il peccato e per la colpa. Una di queste era la purificazione dei lebbrosi. Dopo essere stato esaminato dal sacerdote e dichiarato puro, il lebbroso era restituito alla vita sociale attraverso una speciale cerimonia di purificazione, descritta in {Levitico 14: 18}. Ma era necessaria ancora un’altra cerimonia mostrarlo alla Chiesa e consentirgli di partecipare al servizio nel santuario. Questo è evidente in {Levitico 14: 9-32}. Il lebbroso doveva portare un’offerta per la colpa e una per l’espiazione oltre alla consueta offerta di cibo. Per l’offerta dell’espiazione per la colpa, l’agnello era immolato e il sangue non veniva asperso sull’altare, ma doveva essere posto sull’orecchio destro della persona che si purifica, sul pollice della sua mano destra e sull’alluce del suo piede destro.
“Poi il sacerdote prenderà un po’ di olio dal log e lo verserà nella palma della sua mano sinistra; quindi il sacerdote intingerà il dito della sua mano destra nell’olio che ha nella sua mano sinistra e col dito spruzzerà sette volte un po’ d’olio davanti all’Eterno” {Levitico 14: 15-16}.
Dopodiché doveva ungere il lebbroso, facendo con l’olio ciò che aveva fatto con il sangue. “Del resto dell’olio che ha in mano, il sacerdote ne metterà un po’ sull’estremità dell’orecchio destro di colui che deve essere purificato sul pollice della sua mano destra e sul dito grosso del suo piede destro sul posto ove ha messo il sangue del sacrificio di riparazione. Il resto dell’olio che ha in mano, il sacerdote lo metterà sul capo di colui che deve essere purificato; così il sacerdote farà per lui l’espiazione’ davanti all’Eterno” {Levitico 14: 17-18}.
Il sacerdote, quindi, doveva portare il sacrificio per l’espiazione e l’olocausto [di cibo]. Se il lebbroso era povero, invece di due agnelli, poteva portare due tortore o due giovani piccioni, “secondo le sue disponibilità” {Levitico 14: 21-22}.
Questa parola viene ripetuta più volte in questi capitoli. Dio ci richiede solo quanto è in nostro potere di fare. Ed è significativo che la lebbra richiedesse sia un’offerta per la colpa che per l’espiazione. Da questo fatto possiamo trarre la seguente conclusione: la lebbra è la conseguenza di un peccato conosciuto? Non la pensiamo affatto così. È meglio per noi credere che il rituale, nel caso della lebbra, sia più un’illustrazione del fatto che esistono malattie che sono il risultato di un comportamento nocivo e che non possono essersi causate da sole, a causa dell’ignoranza. Senza dubbio è così, anche se sarebbe una cosa audace per chiunque dirlo in modo definitivo per un caso come questo.
Un’altra occasione che richiedeva un’offerta per la colpa era la contaminazione di un nazireo durante la sua consacrazione. Se fosse successo qualcosa del genere, il nazireo “porterà un agnello di un anno come sacrificio di riparazione; ma i giorni precedenti non saranno più contati, perché il suo nazireato è stato contaminato” {Numeri 6: 12}. Appuntati questa frase, poiché nonostante si fosse fatta l’espiazione per lui “i giorni precedenti non saranno più contati”. Nonostante il perdono sia stato ricevuto, in molti casi vi è una vera e propria perdita. Questo corrisponde a ciò che ci dice anche il Nuovo Testamento: “ma se la sua opera è arsa, egli ne subirà la perdita, nondimeno sarà salvato, ma come attraverso il fuoco” {1 Corinzi 3: 15}. L’uomo è salvato ma ne subisce il danno.
Il rituale dei sacrifici per la trasgressione o la colpa è lo stesso anche per il sacrificio di espiazione. Gli animali sono stati accoltellati nello stesso punto. E nello stesso modo il grasso è stato bruciato sul fuoco dell’altare {Levitico 7: 1-5}. I Sacerdoti erano obbligati a mangiare l’offerta per il peccato come prescritto in {Levitico 6: 24-30}, e lo stesso doveva essere fatto nel caso delle offerte per la colpa [di riconciliazione]: “Ogni maschio tra i sacerdoti ne potrà mangiare; lo si mangerà in luogo santo; è cosa santissima. Il sacrificio per la trasgressione è come il sacrificio per il peccato; la stessa legge vale per entrambi; la vittima con la quale il sacerdote fa l’espiazione spetta a lui” {Levitico 7: 6-7}.
Ma una distinzione tra il sacrificio per l’espiazione e il sacrificio per la colpa sta nel modo in cui veniva sparso il sangue. Nel sacrificio espiatorio, il sangue veniva messo sui corni dell’altare degli olocausti {Levitico 4: 25, 30, 34}. Questo non è ricordato quando si parla dell’offerta per la colpa. Secondo il rapporto in {Levitico 7: 2} il sangue del sacrificio per la colpa veniva spruzzato intorno all’altare, come si faceva con il sangue dell’olocausto e il sacrificio per la riconciliazione. Alcuni dicono che l’espressione: “Il sacrificio per la trasgressione è come il sacrificio per il peccato; la stessa legge vale per entrambi” {Levitico 7: 7} si riferisca all’aspersione di sangue. In questo caso, il sangue dell’offerta per il peccato così come il sangue dell’offerta per la trasgressione si sarebbero dovuti aspergere intorno all’altare. Tuttavia, si può notare che “la stessa legge” si riferisce ai sacerdoti che dovevano mangiare quella carne. In assenza di parole chiare su questo tema, concludiamo che il sangue del sacrificio per l’espiazione veniva posto sui corni dell’altare, mentre quello dell’offerta per la colpa veniva spruzzato intorno all’altare e che, in entrambi i casi, ciò che rimaneva veniva versato alla base dell’altare degli olocausti.
Sacrifici per la colpa
Uno studio delle offerte per la trasgressione riportate negli ultimi sei versetti di {Levitico 5}, e nei primi sette versetti di {Levitico 6}, rivela che queste offerte, per certi aspetti, differiscono materialmente dalle offerte per il peccato. Benché includano la trasgressione compiuta per ignoranza, come riportato nel quinto capitolo, includono anche i peccati volontari, come riportato nel sesto. Sembrano essere dei peccati che richiedono quella restituzione, che è richiesta in ogni caso.
Le offerte per il peccato prevedevano una scala graduata di sacrifici a seconda della posizione e della capacità finanziaria del trasgressore, che andava dal toro alle tortore e ai piccioni, fino anche a un po’ di farina. Le offerte di trasgressione come qui registrate non avevano dei gradi. Era richiesto un montone, insieme alla restituzione di quanto preso, più un quinto del valore in questione.
Un’altra differenza tra le offerte per il peccato e le offerte per la trasgressione sta nel come veniva impiegato il sangue. Nelle offerte per il peccato il sangue veniva versato sui corni dell’altare, mentre nelle offerte per la colpa [o trasgressione] veniva asperso tutt’intorno sull’altare {Levitico 4: 7, 18, 25, 30; Levitico 7: 1-2}. La carne del sacrificio di trasgressione veniva mangiata dai sacerdoti, come nel caso delle offerte per il peccato di una delle persone del popolo {Levitico 7: 6; Levitico 6: 26, 29}.
“Se uno pecca e commette una violazione contro l’Eterno, comportandosi falsamente col suo vicino in merito a un deposito o a un pegno o per un furto, o se ha ingannato il suo vicino” {Levitico 6: 2}. Mentire è qui considerato una trasgressione sia contro il Signore che contro il prossimo. Per questo il trasgressore deve riparare ad entrambi: deve confessare il suo peccato e portare un’offerta a Dio e restituire all’uomo.
Sembra inconcepibile che un uomo possa mentire al suo prossimo “in ciò che gli è stato dato di custodire”, e farlo per ignoranza. Il vicino se ne va e affida qualcosa che l’uomo conserverà fino al suo ritorno. Sebbene sia possibile che l’uomo dimentichi la transazione, sembra improbabile che lo faccia. Anche se dimentica, probabilmente se ne ricorderà quando il vicino tornerà; ma nel caso in esame non ci sono circostanze attenuanti. L’uomo semplicemente mente e non c’è alcun motivo d’ignoranza. La conclusione è inevitabile: l’uomo è colpevole di un peccato volontario.
La stessa cosa avviene nel caso successivo. Due uomini stipulano un accordo e uno dei due tenta di mentire. È concepibile che possa esserci stato un vuoto di memoria, ma l’evidenza è contraria. È colpevole.
Se in questi primi due casi può esserci solo un minimo dubbio sulla colpevolezza dell’uomo, ce n’è ancora meno nel terzo caso, in cui una cosa è stata “estorta con frode” {Levitico 6: 4}. Sarebbe esagerato sostenere che in questo caso si tratti di ignoranza; sebbene alcuni abbiano tentato di fare ciò affermando che l’uomo pensava che fosse suo e quindi lo ha recuperato con la forza. Pur ammettendo che una tale situazione possa realizzarsi, la probabilità è così piccola che sembrerebbe che Dio non citerebbe un caso del genere come base per l’offerta di un sacrificio.
“O se ha ingannato il suo vicino, o perché ha trovato una cosa perduta e ha mentito in merito e ha giurato il falso” {Levitico 6: 2-3}. Dio, citando questi casi, non intende mostrare che l’uomo è nell’ignoranza, ma piuttosto che ha commesso una trasgressione deliberatamente o avventatamente, e che è colpevole. Poiché questi casi richiedono la restituzione, prima di poter essere definitivamente e giustamente eliminati, Dio ne prende atto e prescrive una punizione adeguata per le violazioni.
Primo, la confessione. “Quando un uomo o una donna commette qualsiasi offesa contro qualcuno, così facendo, commette un peccato contro l’Eterno, e questa persona si rende colpevole; essa confesserà l’offesa commessa” {Numeri 5: 6-7}.
Secondo, la restituzione: “farà piena restituzione del danno fatto, aggiungendovi un quinto e lo darà a colui che ha offeso” {Numeri 5: 7}.
Terzo, il sacrificio a Dio: “Porterà quindi al sacerdote la sua offerta per la trasgressione all’Eterno: un montone senza difetto, preso dal gregge secondo la tua stima, come offerta per la trasgressione” {Levitico 6: 6}.
Quarto, il perdono: “Così il sacerdote Farà l’espiazione per lui davanti all’Eterno, e gli sarà perdonato qualunque colpa di cui si è reso colpevole” {Levitico 6: 7}.
Alcuni credono che la frase in {Levitico 6: 6}, “secondo la tua stima”, si riferisca a una pena extra che il sacerdote potrebbe esigere se le circostanze lo giustificassero. Altri sostengono che faccia riferimento al valore del montone. In ogni caso sembra che il sacerdote abbia una giurisdizione che l’uomo, nel caso, era tenuto a rispettare.
Se consideriamo i diversi aspetti delle offerte di trasgressione, non troviamo nulla di discutibile o immorale nei regolamenti, ma troviamo l’evidenza di un Dio misericordioso e compassionevole, che perdonerà ma che anche “non lascia il colpevole impunito” {Esodo 34: 7}.
Non troviamo nulla in questi regolamenti che incoraggi la trasgressione o che dia la minima impressione che il peccato porti a un guadagno e che si possa riscattare la via d’uscita facendo un dono a Dio. Ciò che Roma fece ai tempi di Tetzel fu una perversione delle misure piene di misericordia stabilite da Dio, e totalmente contrarie al Suo piano della salvezza.
Offese contro dio
Le trasgressioni appena menzionate [nel titolo] sono quelle che riguardano le “cose sante” {Levitico 5: 15}. Questo fa riferimento alle cose del Signore, a tutto ciò che riguarda il servizio, comprese le cose dedicate a Dio, le primizie, le decime, ecc. Se per negligenza, mancanza di fedeltà o svista dovesse venire qualche danno alla causa di Dio, anche se ciò avviene per ignoranza, il peccatore deve portare “per la trasgressione, un montone senza difetto preso dal gregge, valutata da te in sicli d’argento, secondo il siclo del santuario, come offerta per la trasgressione. E risarcirà il danno che ha causato nei confronti della cosa santa, aggiungendovi un quinto in più, e lo darà al sacerdote; così il sacerdote farà per lui l’espiazione col montone dell’offerta per la trasgressione, e la trasgressione gli sarà perdonata” {Levitico 5: 15-16}.
Che le trasgressioni qui registrate siano considerate più gravi di quelle menzionate nella prima parte del capitolo è evidente dall’affermazione: “Se uno pecca e, senza rendersene conto, commette qualunque cosa che l’Eterno ha vietato di fare, è ugualmente colpevole e ne porta la pena” {Levitico 5: 17}. Degli altri peccati è affermato: “quando lo riconosce, è colpevole in ognuna di queste cose” {Levitico 5: 4}. La differenza è che in un caso l’uomo non è considerato colpevole finché non si accorge di aver trasgredito, mentre nell’altro caso è colpevole che sappia o meno di aver trasgredito. Se è colpevole pur ignorando la trasgressione in questione, può essere così solo perché le circostanze indicano che avrebbe dovuto saperlo. Quando si prendono in considerazione le “cose sante” del Signore, Dio vuole che gli uomini lo sappiano.
Alcuni sono giunti alla conclusione che le decime possono essere trattenute se alla fine vi è un pagamento con una penale di un quinto aggiunto. Questo non è supportato da alcun testo delle Scritture. È solo quando tali cose sono fatte nell’ignoranza che Dio provvede un rimedio. Non esiste una tale disposizione per la trasgressione intenzionale.
Reati contro gli uomini
Anche le trasgressioni contro un simile richiedevano la restituzione così come le trasgressioni contro Dio, poiché qualsiasi cosa fatta contro l’uomo era considerata anche una trasgressione contro Dio. “Se uno pecca e commette una violazione contro l’Eterno, comportandosi falsamente col suo vicino in merito a un deposito o a un pegno o per un furto, o se ha ingannato il suo vicino, o perché ha trovato una cosa perduta e ha mentito in merito e ha giurato il falso, per qualsiasi cosa l’uomo può peccare nel suo operare, allora se ha peccato ed è colpevole, egli deve restituire ciò che ha rubato, o la cosa estorta con frode o il deposito che gli è stato affidato o l’oggetto perduto che ha trovato, o tutto quello in merito a cui ha giurato il falso. Non solo ne farà piena restituzione, ma vi aggiungerà un quinto e lo consegnerà al proprietario il giorno stesso della sua offerta per la trasgressione” {Levitico 6: 2-5}.
Le trasgressioni qui registrate riguardano il rapporto dell’uomo con il prossimo, specialmente per quanto riguarda la proprietà. Qualcosa è stato affidato a una persona e lui nega di averlo ricevuto; trasgredisce il suo patto, prende con la forza ciò che non gli appartiene, trova qualcosa e mente a suo riguardo; tutto ciò sembra essere fatto consapevolmente e per il quale l’ignoranza non può essere invocata come scusa. È colpevole.
{Numeri 5} fornisce alcune informazioni aggiuntive sulle offerte per la colpa. Riconosce anche che il peccato contro l’uomo è anche un peccato contro il Signore {Numeri 5: 6}, e che non solo deve essere confessato, ma deve essere restituito, con l’aggiunta di una quinta parte {Numeri 5: 7}. Viene anche poi aggiunta questa interessante disposizione: “Ma se questi non ha alcun parente stretto a cui si possa fare restituzione per l’offesa, la restituzione andrà all’Eterno per il sacerdote, oltre al montone espiatorio, col quale si farà espiazione per lui” {Numeri 5: 8}.
Le offerte di trasgressione, quindi, differiscono dalle offerte per il peccato, che riconoscono solo i peccati commessi nell’ignoranza. Le offerte di trasgressione provvedono ai peccati commessi consapevolmente e per i quali l’ignoranza non può essere rivendicata. Ciò ha causato qualche difficoltà a quegli studenti della Bibbia che riconoscono esserci dei pericoli in qualsiasi dottrina che consideri un sacrificio come mezzo di espiazione per una deliberata trasgressione. Se un uomo pecca per ignoranza, la sua ignoranza costituisce una base per il perdono; ma pensare in anticipo al costo di un peccato premeditato, è immorale. Fu questo che la Chiesa Cattolica Romana di un tempo acconsentì a fare, e che portò ogni sorta di abusi; fu proprio questo la causa immediata della Riforma. Esaminiamo un po’ più da vicino le offerte bibliche prima di giungere a una conclusione finale.
La situazione di oggi
Se Dio nei tempi antichi avesse perdonato solo i peccati di ignoranza, ci sarebbe stata poca speranza di salvezza per chiunque. E il caso non è diverso oggi. Se Dio perdonasse solo ciò che facciamo inconsapevolmente, saremmo senza speranza. Dio deve anche perdonare i nostri peccati volontari se ce ne pentiamo. E non è forse questo il vangelo? Agli uomini d’Israele radunati ad Antiochia, Paolo disse: “Vi sia dunque noto, fratelli, che per mezzo di lui vi è annunziato il perdono dei peccati, e che, mediante lui, chiunque crede è giustificato di tutte le cose, di cui non avete potuto essere giustificati mediante la legge di Mosè” {Atti 13: 38-39}.
Questa era la buona notizia allora, ed è la buona notizia oggi. Abbiamo bisogno di un Salvatore che non solo ci perdoni i nostri peccati, ma anche “purificarci da ogni iniquità” {1 Giovanni 1: 9}.
Non dobbiamo dimenticare che una violazione di domicilio è un reato gravissimo. Se un uomo di notte inciampasse in un filo che non vedeva o non poteva vedere, né l’uomo né Dio lo riterrebbero colpevole. Ma se il giorno successivo, in pieno giorno, l’uomo si reca nello stesso luogo e vede sospeso sul filo un segno, “Non oltrepassare”, e deliberatamente si avvicinasse, non potrà dire di essere nell’ignoranza. Ha trasgredito e deve subirne le conseguenze. Così è anche con noi. Oggi molti dei nostri peccati sono intenzionali, e sono quindi considerati trasgressioni. Siamo senza scuse. Ma grazie a Dio, c’è il perdono per la trasgressione così come per il peccato. Il nostro Dio è capace e disposto a salvare fino in fondo.
Restituzione
Una parte centrale nel progetto della redenzione, per quanto riguarda l’uomo, è quella della restituzione. Non basta la convinzione del peccato. Il dolore per il peccato non basta. La confessione del peccato non basta. Sebbene tutti questi siano buoni e siano passi verso il regno, non sono sufficienti. Devono essere accompagnati da un pentimento così profondo e completo che l’anima non si fermerà finché non sarà compiuto ogni passo e ogni sforzo per correggere gli errori del passato. Questo nella maggior parte dei casi includerà la restituzione, il rimborso di ciò che abbiamo rubato e il compimento di ogni sforzo per correggere i torti che abbiamo procurato. Le trasgressioni includono transazioni commerciali discutibili, esposizione fraudolenta di valori, impressioni sbagliate per motivi egoistici e disonestà. Include accordi a svantaggio dei poveri e dei bisognosi a scopo di lucro. Comprende oneri esorbitanti di ogni genere, interessi eccessivi sui prestiti di denaro, lavoro disonesto per i salari ricevuti.
Include approfittare delle disgrazie degli altri e chiedere più di quanto non sia giusto per il servizio reso semplicemente perché l’altra persona si trova in una posizione di svantaggio.
Per queste e molte altre cose deve essere fatta, ove possibile, la restituzione. E dove non può essere fatta, può essere bene seguire l’antica istruzione, che dove è impossibile fare una riparazione all’interessato, dove non si possa trovare nemmeno un parente stretto, sia risarcita la colpa “all’Eterno per il sacerdote” {Numeri 5: 8}. L’applicazione odierna di questa istruzione richiederebbe che il denaro in questione fosse donato o utilizzato nell’opera del Signore.
Zaccheo
La storia di Zaccheo registrata in {Luca 19} è un chiaro esempio di restituzione. Cristo si invitò come ospite di Zaccheo, tanto che il pubblicano esclamò: “Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri e, se ho defraudato qualcuno di qualcosa, gli restituirò quattro volte tanto”. La risposta di Cristo a questa dichiarazione fu pronta e significativa: “Oggi la salvezza è entrata in questa casa, perché anche costui è figlio d’Abrahamo. Perché il Figlio dell’uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto” {Luca 19: 8-10}.
Questo presenta un caso di completo pentimento. La presenza di Gesù fece una tale impressione su Zaccheo che i suoi primi pensieri riguardarono la restituzione. Era un pubblicano e senza dubbio aveva una lunga lista di dubbi affari e transazioni commerciali disoneste. Aveva estorto denaro per “falsa accusa”, questo includeva tutte quelle transazioni discutibili. Ma ora si converte. Abbandona tutte le pratiche malvagie e decide di ripagare il quadruplo di ciò che ha disonestamente acquisito.
È necessario che il tema della restituzione sia richiamato all’attenzione di tutti coloro che nominano il nome di Cristo. I neoconvertiti hanno bisogno di istruzione in questa direzione, così come anche molti di coloro che da anni sono iscritti nella chiesa di Dio. Tutti hanno bisogno di un senso più vivo della propria responsabilità e alcuni hanno bisogno di una lezione di semplice onestà.
I sacerdoti che prestavano servizio al tempio erano divisi in ventiquattro
classi, ciascuno ministrava per il tempo di una settimana, due volte l’anno. I leviti erano divisi allo stesso modo in cui era diviso anche il popolo: e quella parte del popolo che dava gli agnelli per il tempo di una settimana, inviava i suoi rappresentanti a Gerusalemme proprio per quella settimana, affinché partecipassero ai servizi, mentre il resto delle persone rimaneva a casa, trascorrendo una settimana di devozioni e meditazione.
Durante le principali festività, come la Pasqua e il giorno dell’Espiazione, un gran numero di sacerdoti veniva chiamato nel santuario per quelle occasioni; come anche un numero corrispondente di leviti.
Il servizio quotidiano includeva portare l’agnello all’altare degli olocausti ogni mattina e ogni sera, insieme alle offerte di cibo e bevande, occuparsi di accendere il candelabro nel “luogo Santo”, portare l’incenso sull’altare con tutti i riti che l’accompagnavano, l’offerta dell’oblazione di cibo da parte di Aronne e dei suoi figli, l’offerta dei sacrifici individuali, come i sacrifici dell’espiazione, gli olocausti, le offerte di cibo e i sacrifici propiziatori.
Oltre a questi doveri quotidiani, ce n’erano molti altri, come i sacrifici
di purificazione, i sacrifici per i lebbrosi, per i nazirei e quelli per le impurità. C’era anche bisogno di uomini che si occupassero delle ceneri, di portare ed esaminare il legno usato sull’altare, dei portinai che aprissero e chiudessero le porte, svolgendo il compito di custodi. Il tempio era un luogo molto movimentato fino a quando i cancelli non venivano chiusi la sera. La mattina prima che facesse giorno le porte erano di nuovo aperte e le persone potevano entrarvi. Tra i sacerdoti si tirava a sorte per chi dovesse portare il sacrificio, aspergere il sangue, togliere le ceneri, occuparsi del candelabro e del vino per le libazioni.
I sacerdoti stavano all’interno del tempio anche durante la notte, ma solo i più anziani potevano sedersi per dormire. Gli altri dovevano restare svegli per essere pronti a seconda di qualsiasi necessità. La mattina prima dell’alba, facevano un bagno e quando giungeva il momento dell’estrazione a sorte, tutti erano già pronti.
Quando si trattava di decidere chi dovesse portare l’incenso, non ci si aspettava che lo facesse qualcuno trai i sacerdoti che avevano già svolto il lavoro precedentemente. Quando fu costruita la tenda del convegno, all’inizio erano Aaronne e i suoi figli che ministravano ogni giorno. In tempi successivi ci furono così tanti sacerdoti che fu necessario tirare a sorte chi avrebbe svolto questo servizio. Era quindi insolito che un sacerdote svolgesse più volte nella sua vita il servizio di bruciare incenso sull’altare. Questa parte del servizio quotidiano, che faceva avvicinare più di ogni altra il sacerdote alla Presenza divina, era considerata di grande onore e responsabilità, come un premio tanto desiderato.
Mentre il sacerdote entrava nel santuario per portare l’incenso, l’agnello
del sacrificio mattutino che era stato precedentemente scelto e portato davanti al Signore, si trovava legato ad uno degli anelli del pavimento nella parte settentrionale dell’altare. Una volta tagliata la gola dell’agnello con un coltello, il sangue veniva raccolto in un vaso d’oro e posto intorno all’altare. Ciò che rimaneva del sangue veniva versato ai piedi dell’altare. Dopo questo, l’animale veniva spellato e tagliato a pezzi. Le viscere venivano collocate su un tavolo di marmo adatto a questo scopo e poi lavate. Poi sei sacerdoti portavano i pezzi del sacrificio fino all’altare, dove erano posti in ordine e bruciati nel fuoco. Un altro sacerdote portava l’oblazione di cibo; un altro portava la focaccia cotta e un altro ancora portava la libazione. I sacrifici erano tutti conditi con sale prima di essere portati sull’altare.
Mentre ciò avveniva fuori [nel cortile], il sacerdote che doveva portare l’incenso entrava nel “luogo Santo”. Di solito era assistito da un altro sacerdote che portava i tizzoni accesi dall’altare dei sacrifici [nel cortile] in un vaso d’oro, e lo metteva sull’altare dell’incenso, dopodiché se ne andava. Il sacerdote che portava l’incenso, doveva sollevare il coperchio della cassetta che conteneva l’incenso e versarlo sui carboni sull’altare. Mentre l’incenso si alzava come una nuvola di fumo, si inginocchiava in completa adorazione.
Doveva essere qualcosa di grande solennità per il sacerdote essere lì tutto
solo nel “luogo Santo”, così vicino alla meravigliosa presenza di Jehovah, il Signore degli eserciti. Come nella maggior parte dei casi, questo avveniva una volta nella sua vita, questa esperienza non era qualcosa di ordinario. Nessun sacerdote avrebbe mai potuto dimenticare quei momenti in cui era così solo con Dio. Quando il Signore si rivelava nella nuvola sopra il trono della grazia, l’impressione della santità di Dio che si fissava nella mente del sacerdote era così profonda che non poteva mai più essere cancellata. Aveva visto la gloria del Signore ed era rimasto in vita.
L’incenso finiva all’incirca nello stesso momento in cui i sacerdoti
finivano il loro servizio all’altare degli olocausti. Quando l’ultimo atto – il versamento della libazione – era finito, i Leviti smettevano di cantare il salmo stabilito per quell’occasione e i sacerdoti iniziavano a suonare le trombe di argento. Al suono delle trombe, il popolo si prostrava a terra e pregava. Il sommo sacerdote usciva sui gradini del tempio e con le braccia tese pronunciava la benedizione sul popolo. Con questo terminava il servizio mattutino.
Il servizio serale, che si svolgeva verso le tre del pomeriggio, era uguale a quello del mattino. L’agnello veniva sgozzato, il sangue asperso, l’incenso arso e di nuovo veniva pronunciata la benedizione sacerdotale. Al calar della notte le porte venivano chiuse.
Il servizio si svolgeva nello stesso modo tutti i giorni, sia di Sabato che nei giorni di festa. Di Sabato venivano portati al mattino due agnelli e due agnelli la sera, invece di uno come negli altri giorni della settimana, in certe festività venivano portati fino a sette agnelli, ma la modalità del servizio rimaneva la stessa.
L’agnello offerto in sacrificio nel servizio quotidiano era un olocausto. Era un rappresentante dell’intera nazione, una sorta di sintesi per tutti i sacrifici. Conteneva tutte le caratteristiche importanti dei vari sacrifici: era un sacrificio di sangue, che significa espiazione; era un sacrificio sostitutivo: “Poserà quindi la sua mano sulla testa dell’olocausto, che sarà gradito al suo posto, per fare l’espiazione per lui” {Levitico 1: 4}; era un sacrificio di consacrazione, completamente dedicato a Dio e consumato sull’altare; era un’offerta profumata e piacevole: “Questo è un olocausto, un sacrificio fatto col fuoco di odore soave all’Eterno” {Levitico 1: 13}.
Sebbene il sacrificio del mattino e della sera fosse per tutta la nazione, esso portava chiaramente un grande beneficio anche agli individui. Quando un israelita peccava, doveva portare un sacrificio al tempio e lì confessare il suo peccato. Ma questo non era sempre possibile.
Il colpevole avrebbe potuto vivere a un giorno, o una settimana, di distanza da Gerusalemme. Era impossibile per lui venire lì ogni volta che peccava.
Per casi come questo, i sacrifici della mattina e della sera erano una sorta di espiazione, che li “copriva temporaneamente” fino al giorno in cui il peccatore poteva andare lui stesso al tempio e offrire il suo sacrificio.
Questa cosa è illustrata nella storia di Giobbe: “I suoi figli solevano andare a banchettare in casa di ciascuno, nel suo giorno, e mandavano a chiamare le loro tre sorelle perché venissero a mangiare e a bere con loro” {Giobbe 1: 4}. In queste feste indubbiamente accadevano cose che non piacevano a Dio. Giobbe stesso aveva un grande timore di dimenticare o di arrivare in ritardo per fare il sacrificio necessario. Per amor di loro: “Quando la serie dei giorni di banchetto era terminata. Giobbe li andava a chiamare per purificarli, si alzava al mattino presto e offriva olocausti secondo il numero di tutti loro, perché Giobbe pensava: «Può darsi che i miei figli abbiano peccato e abbiano bestemmiato DIO nel loro cuore». Così faceva Giobbe ogni volta” {Giobbe 1: 5}.
Giobbe portava un olocausto per ciascuno di loro perché pensava: “Può darsi che i miei figli abbiano peccato”. Credeva che questo sacrificio portasse loro un’espiazione di “copertura temporanea” fino al giorno in cui avrebbero riconosciuto il loro errore e sarebbero stati pronti ad andare da soli a Dio.
Allo stesso modo i sacrifici del mattino e della sera offrivano un’espiazione di “copertura temporanea” per Israele. Aveva anche un significato di consacrazione e di accettazione per l’individuo. Se il sacrificio individuale era in questo modo valido per lui, non potremmo quindi credere che il sacrificio della nazione fosse valido per tutta la nazione?
Cristo è morto per tutti. Ha dato la Sua vita per redimerci dal peccato. Molti non faranno un’applicazione personale per questo sacrificio, ma il fatto è che Cristo è morto per tutti. Il Suo sangue li copre. Vennero prese misure complete per la loro salvezza. Cristo è “il Salvatore di tutti gli uomini e principalmente dei credenti” {1 Timoteo 4: 10}. Ogni persona che vive oggi deve la sua vita a quanto è accaduto sul Golgota. Se non fosse stato per “l’Agnello, che è stato ucciso fin dalla fondazione del mondo” {Apocalisse 13: 8}, Adamo sarebbe stato senza speranza.
Le parole: “nel giorno che tu ne mangerai, per certo morrai” {Genesi 2: 17}, avrebbero segnato il suo destino per sempre. Ma Adamo è stato risparmiato. Lui non morì in quel momento. L’Agnello prese il suo posto. E così è anche ora. Dio non è cambiato. Il peccato e i peccatori non hanno diritto di esistere. Il peccato è altrettanto ripugnante per Dio quanto lo era nel giardino dell’Eden, ma ai peccatori è permesso di vivere, e gli viene ammessa una sospensione dell’esecuzione solo in virtù del sangue espiatorio di Cristo. Poiché l’Agnello è morto, essi vivono. Giorno dopo giorno Cristo dona loro la vita “affinché cercassero il Signore, se mai riuscissero a trovarlo come a tastoni” {Atti 17: 27}.
Poiché il sacrificio del mattino e della sera era per la nazione e
copriva temporaneamente tutti i peccati commessi durante la notte del giorno appena trascorso, è facile comprendere che i peccati in questo modo “coperti” non venivano confessati e forse non lo sarebbero mai stati. Tranne se si crede che ogni uomo in Israele avesse la possibilità, una volta resosi conto della sua trasgressione, di confessare il suo peccato, nonostante sarebbe ancora dovuto trascorrere del tempo prima di confessarlo [nel santuario]. Questa cosa era ancora più accentuata se passavano alcune settimane o diversi mesi fino al momento della confessione. Nel caso degli impenitenti o di coloro che apostatavano, il “giorno dell’Espiazione” era un giorno decisivo. “Poiché ogni persona che in questo giorno non si umilia, sarà sterminata di mezzo al suo popolo” {Levitico 23: 29}, cioè veniva rimosso da sotto lo scudo della Chiesa, veniva escluso.
A volte si pone la domanda se tutti i peccati erano portati al santuario. Il nostro studio ci ha portato a credere che questo veniva fatto in modo transitorio per i peccati, attraverso il sacrificio del mattino e della sera, quando l’agnello veniva portato in olocausto per la nazione. Il sangue del sacrificio veniva “sparso intorno all’altare”. Se veniva usato un uccello, il sangue veniva “fatto defluire alla base dell’altare” {Levitico 5: 12). Ecco perché crediamo che nel servizio quotidiano, attraverso il sangue asperso sull’altare, ci fosse un trasferimento dei peccati sull’altare degli olocausti e che i peccati trasferiti in questo modo includevano i peccati di tutto il popolo. Se si ammette che l’olocausto facesse, per così dire, l’espiazione per il peccato come dice in {Levitico 1: 4}; se si ammette che il sacrificio quotidiano facesse l’espiazione per l’intera nazione e che facesse per Israele la stessa opera che gli olocausti di Giobbe facevano per i suoi figli {Giobbe 1: 5}, arriviamo alla conclusione che nel momento in cui l’agnello veniva portato sull’altare venivano “coperti” in modo temporaneo tutti i peccati.
Forse non ci sarebbe bisogno di ripetere che queste misure transitorie erano utili alla salvezza solo se il colpevole confessava il suo peccato e offriva un sacrificio per il peccato, come anche ai nostri giorni il peccatore è salvato attraverso il sacrificio di Cristo sul Calvario, solo se riceve personalmente il Cristo. La morte dell’Agnello di Dio sul Golgota era per tutte le persone, ma solo coloro che accolgono il sacrificio e ne fanno una personale applicazione, saranno salvati.
La morte dell’agnello sull’altare ebraico era per l’intera nazione, ma
solo a coloro che si pentivano e dimostravano la loro fede offrendo un sacrificio personalmente, veniva riconciliato per “il giorno dell’Espiazione”. Gli altri invece venivano “eliminati” dal popolo.
Bisogna però rendersi conto che questi peccati confessati non venivano posti nel santuario vero e proprio, ma venivano posti solo sull’altare dei sacrifici. I sacerdoti non mangiavano la carne degli olocausti, perché veniva bruciata completamente sull’altare: perciò i sacerdoti non prendevano su di loro questi peccati {Levitico 1: 13}.
Il sangue non veniva messo sui corni dell’altare come per i sacrifici per il peccato, né veniva portato nel santuario, ma veniva asperso “tutt’intorno” sull’altare degli olocausti {Levitico 1: 5, 11; Levitico 4: 25, 30, 34}.
È quindi chiaro che i peccati venivano trasferiti sull’altare degli olocausti e non sul santuario. I sacrifici della mattina e della sera erano un simbolo, non solo dell’espiazione fatta dall’agnello, ma anche della consacrazione della nazione a Dio. Il sacrificio interamente consumato sull’altare rappresentava coloro che si consacrano a Dio ogni giorno, il cui sacrificio rimane sull’altare e che sono pronti a seguire l’Agnello ovunque Egli vada. Mattina e sera le loro preghiere salivano al Dio d’Israele, mescolate al profumo soave della giustizia e della perfezione di Cristo.
I pani della tavola di presentazione erano un’offerta continua al Signore e possono essere ben considerati come parte del servizio quotidiano. Erano dodici focacce disposte in due file sul tavolo che si trovava nella prima parte del santuario. Questo pane veniva rinnovato ogni Sabato, nel momento del cambio dei sacerdoti. Il pane che veniva messo di continuo davanti al Signore era chiamato “il pane della presenza” {Esodo 25: 30}. Così come il sacrificio della mattina e della sera prefigurava la consacrazione quotidiana di tutta la nazione davanti a Dio e la loro dipendenza dal sangue espiatorio; così come l’incenso bruciato sull’altare prefigurava i meriti e l’intercessione del Signore Cristo; così come la luce del candelabro rappresentava la luce di Dio che risplende nell’anima e illumina la parola, allo stesso modo “il pane della presentazione” rappresentava il riconoscimento da parte dell’uomo che il suo cibo fisico e spirituale dipende da Dio e che questo si riceve solo attraverso i meriti e l’intercessione di Cristo che è “il pane vivente che è disceso dal Cielo” {Giovanni 6: 48-51}.
In tal modo il servizio quotidiano portava l’espiazione mediante il sangue dell’agnello; l’intercessione attraverso la nuvola dell’incenso che saliva verso l’alto; la vita fisica e spirituale mediante il pane della presentazione e la luce attraverso le lampade del candelabro. Visto dalla parte dell’uomo il servizio quotidiano significava consacrazione, illustrata dall’agnello posto sull’altare; la preghiera, attraverso la nuvola dell’incenso; il riconoscimento della piena dipendenza a Dio per quanto riguarda il cibo quotidiano e il riconoscimento del fatto che solo attraverso la luce che Dio riversa sul nostro cammino, la nostra mente oscura e la nostra vita possono essere illuminate. Il servizio quotidiano rappresenta il bisogno dell’uomo di Dio e anche la completezza delle misure prese da Dio per soddisfare questi bisogni.
Le cerimonie fin qui descritte erano di carattere generale per la nazione.
Ma vi erano anche degli altri servizi che avevano un simile significato, vale a dire i sacrifici offerti personalmente. Questi erano di due tipi: i sacrifici di odore soave e i sacrifici che non avevano un odore gradevole. I sacrifici con un odore soave erano quelli che dimostravano una vera consacrazione, l’abbandono di sé stessi o la gratitudine. Questi erano: gli olocausti, le offerte di riconciliazioni e le oblazioni (delle offerte di cibo).
I sacrifici che non avevano un odore gradevole erano i sacrifici per il peccato e i sacrifici per la trasgressione. Ad eccezione delle oblazioni, erano tutti sacrifici di sangue e come tali avevano un potere espiatorio, anche se non erano specificamente offerti per il peccato. Il sacrificio dell’olocausto era un sacrificio di consacrazione e di resa, che aveva un potere espiatorio {Levitico 1: 4}. Allo stesso modo anche il sacrificio per la riconciliazione. Il sacrificante poneva le mani sulla testa della vittima e la sgozzava all’ingresso del tabernacolo; dopodiché il sacerdote aspergeva il sangue attorno all’altare. Questa procedura era simile a quella dell’olocausto e anche questa aveva un significato espiatorio {Levitico 3: 2}. I sacrifici per il peccato e la trasgressione erano i più importanti. Essi facevano l’espiazione dei peccati personali e riconducevano il colpevole
sotto la grazia di Dio. Poiché questi sacrifici sono già stati studiati in un altro capitolo, non è necessario entrare nei dettagli di questo rituale. Tuttavia, spendere poche parole a riguardo potrebbe essere appropriato. Non sempre il sangue del sacrificio veniva portato nel “luogo Santo” per essere asperso sul velo. Questo, come notato sopra, veniva fatto solo nel caso del sommo sacerdote e dell’intera nazione {Levitico 4: 5-6, 16-17}. Se un uomo del popolo o una guida peccava, il sangue veniva asperso sull’altare degli olocausti fuori del tabernacolo e la carne veniva mangiata dal sacerdote {Levitico 4: 25, 34; Levitico 6: 30}.
Quando il sommo sacerdote peccava, non c’era nessuno di rango più alto del suo che potesse portare i suoi peccati. In casi come questo, la carne non veniva mangiata, ma il sangue era portato nel “luogo Santo” e lì asperso sul velo. Lo stesso veniva fatto quando il peccato era commesso dalla nazione intera. La carne non veniva mangiata, ma il sangue veniva portato nel “luogo Santo” e lì veniva asperso davanti alla tenda.
Ma quando uno del popolo o uno delle guide peccava, la situazione era diversa. Era il sacerdozio che portava i loro peccati.
Ecco perché la carne veniva mangiata, e il sacerdote che la mangiava, attraverso questo atto prendeva su di sé il peccato del colpevole. Oltre al fatto che il sacerdote mangiava la carne, anche il sangue veniva posto sull’altare degli olocausti.
Da qui notiamo che i singoli peccati confessati venivano trasferiti al santuario in due modi:
All’inaugurazione del servizio nel santuario, Aaronne e i suoi figli andavano quotidianamente nel “luogo Santo”, la prima stanza del tabernacolo. Il sommo sacerdote portava l’oblazione, si occupava delle lampade, le accendeva e bruciava l’incenso sull’altare nel “luogo Santo” {Levitico 6: 19-23; Levitico 24: 2-4; Numeri 8: 2-3; Numeri 30: 7-8}. Tempo dopo divenne una consuetudine che i sacerdoti officiassero nel primo appartamento e il sommo sacerdote vi officiava solo occasionalmente, per esempio nei giorni di Sabato o quelli di festa e soprattutto nel giorno dell’espiazione e durante la settimana che lo precedeva. Vale la pena notare che sebbene nel servizio quotidiano il sommo sacerdote ministrava vestito con i suoi abiti ufficiali, quando entrava nel “luogo Santissimo” per la festa del “giorno dell’Espiazione” cambiava i suoi abiti e indossava una veste bianca {Levitico 16: 4, 23, 24}.
Riassumendo il servizio quotidiano che veniva svolto nel santuario, vorremmo evidenziare i seguenti punti:
avrebbe portato la sua personale offerta per il peccato o, in caso contrario, fino al “giorno dell’Espiazione”. Il corpo dell’agnello prefigura la consacrazione di Israele a Jehovah ed è anche il simbolo di Cristo che “ci ha amati e ha dato sé stesso per noi, in offerta e sacrificio a Dio come un profumo di odore soave” {Efesini 5: 2}. Peccati per i quali furono prese misure transitorie e provvisorie attraverso il sacrificio mattutino e quello della sera, in genere, sono peccati non confessati. Questi peccati e altri contaminavano il tabernacolo del Signore {Numeri 19: 13, 20}.
fuori dal tabernacolo. I peccati confessati venivano registrati nel “luogo Santo” o sui corni dell’altare degli olocausti. Tuttavia, potremmo dire che alla fine ogni peccato, in qualche modo, giungeva nel santuario. I peccati che venivano perdonati attraverso i sacrifici del sacerdote così come anche quelli del sacrificio quotidiano del sommo sacerdote {Ebrei 7: 27}, venivano trasferiti nel “luogo Santo”. Ecco perché possiamo affermare che tutti i peccati confessati – e solo i peccati confessati – giungono nel santuario. Quando arriva il “giorno dell’Espiazione”, solo i peccati confessati vengono passati in revisione davanti a Dio e solo ai peccatori che attraverso il pentimento e la confessione hanno già ricevuto il perdono, e i cui peccati sono già stati trasferiti nel santuario, ricevono l’espiazione e la cancellazione dei peccati dal santuario.
Così, giorno dopo giorno, durante tutto l’anno, i peccati erano depositati nel santuario, contaminandolo. Indubbiamente, questo non può continuare all’infinito. Deve venire il giorno della resa dei conti, un giorno di purificazione. Uno di questi giorni era il “giorno dell’Espiazione”. Era il giorno del giudizio, il giorno più importante di tutto l’anno. Proprio di questo vogliamo parlare ora.
Il “giorno dell’Espiazione” era il giorno più importante in Israele. Era particolarmente sacro e in esso non si doveva fare alcun lavoro. Gli ebrei lo chiamavano “Yoma”, che significa “il giorno”. Era la chiave di volta del sistema sacrificale. Chiunque in quel giorno non affliggeva la propria anima, veniva eliminato da Israele {Levitico 23: 29}. Il “giorno dell’Espiazione” avveniva il decimo giorno del settimo mese, Tishri, che corrisponde al nostro settembre-ottobre. La preparazione speciale per questo giorno iniziava il primo giorno di Tishri. L’Enciclopedia ebraica, riguardo al termine “Espiazione”, dice:
“I primi dieci giorni di Tishri erano dieci giorni di penitenza, destinati a favorire un perfetto mutamento del cuore e a rendere Israele come creature appena nate… il culmine veniva raggiunto nel ‘giorno dell’Espiazione’, quando veniva offerto all’uomo il dono più grande della religione, la misericordia condonatrice di Dio… Inoltre si dice che tra i Giudei avanzò l’idea che il primo di Tishri, il santo giorno dell’anno nuovo e l’anniversario della creazione, si giudicassero le azioni dell’uomo e si decidesse il suo destino; e che il decimo giorno di Tishri il decreto del cielo venisse sigillato” (Volume 2, pagina 281).
Nella stessa Enciclopedia viene presentata la concezione ebraica riguardo a ciò che accadeva in quel giorno, nel seguente modo:
“Dio, seduto sul Suo trono per giudicare il mondo, essendo nello stesso momento Giudice, Difensore, Esperto e Testimone, apre il Libro dei Registri; si trova in esso il nome di ogni uomo. Si suona la grande tromba; si sente una voce calma, gli angeli tremano e dicono: ‘questo è il giorno del giudizio, perché neanche i suoi stessi ministri sono puri davanti a Dio’. Come un pastore raduna il suo gregge facendolo passare sotto la sua verga, così Dio fa passare davanti a Lui ogni anima vivente per fissare il limite della vita di ogni creatura e preordinarne il destino. Nel giorno dell’anno nuovo si scrive il decreto; nel giorno dell’Espiazione viene suggellato chi vivrà e chi dovrà morire, ecc… Ma il ravvedimento, la preghiera e la carità possono allontanare il decreto malvagio” (Volume 2, Pagina 286).
Una settimana prima del decimo giorno del settimo mese, il sommo sacerdote si trasferiva dalla sua casa di Gerusalemme nella corte del tempio. Lì trascorreva la settimana in preghiera e meditazione, e anche nel ripassare la cerimonia per il “giorno dell’Espiazione”, in modo che non si facessero errori in nessuna delle cerimonie. Vi era con lui anche un altro sacerdote che poteva continuare il servizio nel caso si ammalasse o morisse, o gli accadesse un incidente. Vi era anche, generalmente, un sacerdote più anziano, che istruiva e aiutava il sommo sacerdote, e si assicurava che comprendesse ogni fase del rituale e che fosse perfettamente a conoscenza di tutto ciò che doveva essere fatto. La notte prima del “giorno dell’Espiazione”, al sommo sacerdote non veniva permesso di dormire, per timore che qualche contaminazione gli venisse addosso.
La cerimonia
Il “giorno dell’Espiazione” si alzavano tutti molto presto. Lo stesso sommo sacerdote officiava il sacrificio mattutino quotidiano, che si svolgeva in quel giorno come negli altri giorni {Numeri 29: 11}. Al termine di questo servizio iniziavano le cerimonie speciali. Il resoconto di ciò che veniva fatto si trova in {Levitico 16}. Dallo studio di questo capitolo si ottengono le seguenti informazioni: “Parla ad Aaronne, tuo fratello, e digli di non entrare in qualsiasi tempo nel santuario, di là dal velo, davanti al propiziatorio che è sull’arca, perché non abbia a morire, poiché io apparirò nella nuvola sul propiziatorio” {Levitico 16: 2}. Quando entrerà nel “luogo Santissimo”, nel “giorno dell’Espiazione”, “si metterà la tunica sacra di lino e porterà sul suo corpo i calzoni di lino; si cingerà della cintura di lino e avrà in capo il turbante di lino. Queste sono le vesti sacre; egli le indosserà dopo essersi lavato il corpo nell’acqua” {Levitico 16: 4}.
All’inizio della cerimonia, il sommo sacerdote riceveva dalla congregazione due capri come sacrificio per il peccato e un montone per l’olocausto che, insieme al proprio sacrificio per il peccato, un torello, venivano presentati davanti al Signore {Levitico 16: 3, 5}. Sacrificherà il torello, che è per sé stesso, e con esso farà “l’espiazione per se e per la propria casa” {Levitico 16: 11}.
Dopo che il torello è stato ucciso, ma prima che venga usato il sangue, il sommo sacerdote doveva prendere “un turibolo pieno di carboni accesi tolti dall’altare davanti all’Eterno e avrà le sue mani piene di incenso profumato in polvere, e porterà ogni cosa di là dal velo. Metterà l’incenso sul fuoco davanti all’Eterno perché la nuvola dell’incenso copra il propiziatorio che è sulla testimonianza; così egli non morirà” {Levitico 16: 12-13}. Il sommo sacerdote è ora pronto per usare il sangue del torello, spruzzando “col suo dito sul propiziatorio dal lato est; spruzzerà pure un po’ di sangue col suo dito davanti al propiziatorio sette volte” {Levitico 16: 14}.
Prima che il torello venisse ucciso, avveniva un’altra cerimonia. Si tiravano a sorte i due capri, “uno sarà destinato all’Eterno e l’altro per capro espiatorio” {Levitico 16: 8}. Il capro su cui cade la sorte per il Signore doveva essere offerto come sacrificio per il peccato. L’altro, il capro espiatorio, doveva essere presentato vivo davanti al Signore “per fare su di esso l’espiazione e per mandarlo poi nel deserto come capro espiatorio” {Levitico 16: 9-10}. Di entrambi questi capri è affermato che Aaronne “li presenterà davanti all’Eterno all’ingresso della tenda di convegno” {Levitico 16: 7}. Ciò significa che entrambi venivano portati vicino alla porta del tabernacolo e legati ad anelli posti nel terreno o nel selciato, e lasciati lì mentre l’altra parte del servizio, con il torello, andava avanti. Venivano così presentati “davanti al Signore”, in attesa che concludesse il servizio riguardante l’incenso e il torello.
Il sommo sacerdote una volta uscito dal “luogo Santissimo”, dopo aver compiuto il rito con il sangue del torello, uccideva il capro del sacrificio per il peccato che era per il popolo. Entrava quindi nel “luogo Santissimo” e aspergeva il sangue del capro, come aveva asperso il sangue del torello, sul propiziatorio e davanti al propiziatorio {Levitico 16: 15}. Con questo atto faceva l’espiazione per il “luogo Santissimo”, “a motivo delle impurità dei figli d’Israele, delle loro trasgressioni e di tutti i loro peccati” {Levitico 16: 16}. Fece poi la stessa cosa per il tabernacolo della congregazione, cioè il “luogo Santo”.
Vi era un precetto speciale secondo cui mentre il sommo sacerdote svolgeva questa cerimonia, non doveva esserci nessun altro: “Nella tenda di convegno, quando egli entrerà nel santuario per fare l’espiazione, non ci sarà alcuno, finché egli sia uscito ed abbia fatto l’espiazione per sé, per la propria casa e per tutta l’assemblea d’Israele” {Levitico 16: 17}. Non ci è detto il motivo di questo divieto, ma sembra ragionevole ritenere che, poiché il velo che separava il luogo Santo dal Santissimo veniva messo da parte durante le cerimonie speciali del “giorno dell’Espiazione”, rivelando così l’arca del patto e il propiziatorio con la Shekinah, e chiunque non fosse appositamente incaricato di entrare nel santuario avrebbe corso il serio pericolo di trovarsi impreparato alla presenza di Dio, il che, ovviamente, avrebbe comportato la morte istantanea.
Purificazione del tabernacolo e dell’altare
Fatta l’espiazione per il “luogo santo” e per il tabernacolo della congregazione, cioè per il “luogo Santissimo” e il “luogo Santo” {Levitico 16: 16}, Aaronne “uscirà verso l’altare che è davanti all’Eterno e farà l’espiazione per esso: prenderà del sangue del torello e del sangue del capro e lo metterà sui corni dell’altare tutt’intorno. Poi spruzzerà del sangue su di esso col suo dito sette volte; così lo purificherà e lo santificherà dalle impurità dei figli d’Israele” {Levitico 16: 18-19}.
Aaronne “avrà finito di fare l’espiazione per il santuario, per la tenda di convegno e per l’altare, farà avvicinare il capro vivo” {Levitico 16: 20}. È importante notare che in questo capitolo il secondo appartamento è chiamato “luogo santo”, come del resto anche altrove nella Bibbia. Ma questo non deve creare confusione, perché esso è in contrasto con il “tabernacolo della congregazione”, che è il nome comune per il primo appartamento. La lettura di questo versetto, come lo intendiamo noi è, quindi, che Aaronne aveva ora “finito di fare l’espiazione” per il “luogo Santissimo”, il “luogo Santo” e l’altare.
Quando Aaronne offriva il torello, faceva “l’espiazione per sé e per la propria casa” {Levitico 16: 6, 11}. Mentre il capro del sacrificio per il peccato era per il popolo {Levitico 16: 8, 15}. Tuttavia, nel ministare il sangue del capro, si dice che Aaronne non facesse l’espiazione per il popolo, ma “per il santuario” e “per la tenda di convegno” {Levitico 16: 16}.
Non neghiamo, ma affermiamo, che fu fatta un’espiazione per il popolo, perché questo è detto chiaramente altrove {Levitico 16: 30, 34}. Stiamo semplicemente richiamando l’attenzione sul fatto che il sangue del torello faceva l’espiazione per Aaronne e la sua casa, mentre il sangue del capro faceva l’espiazione e purificava i “luoghi Santi” del santuario {Levitico 16: 18}. È quasi per caso che viene menzionata l’espiazione per il popolo. Questo studio ci porta alla conclusione che c’erano due scopi distinti nella purificazione compiuta nel “giorno dell’Espiazione”: uno, la purificazione delle cose, come i due “luoghi Santi” e l’altare; l’altro, la purificazione dei sacerdoti e del popolo. L’impurità veniva rimossa sia dalle cose che dal popolo. Entrambi venivano purificati {Levitico 16: 16, 19, 30}; perché l’espiazione veniva fatta sia per le cose, che per il popolo {Levitico 16: 11, 16, 18, 30, 33-34}. Questi due scopi sono strettamente connessi; l’uno dipende dall’altro, tuttavia devono essere mantenuti separati nel nostro pensiero come lo sono nella documentazione.
I “luoghi Santi” venivano purificati, non a causa di alcun peccato o male insito nel santuario o nell’altare, ma “a motivo delle impurità dei figli d’Israele, delle loro trasgressioni e di tutti i loro peccati” {Levitico 16: 16}. Questo valeva anche per l’altare. Il sacerdote “spruzzerà del sangue su di esso col suo dito sette volte; così lo purificherà e lo santificherà dalle impurità dei figli d’Israele” {Levitico 16: 19}.
Queste affermazioni rendono chiaro il fatto che erano i peccati di Israele a contaminare il santuario e l’altare. Questa contaminazione avveniva durante tutto l’anno attraverso il ministero quotidiano. Ogni mattina e ogni sera un agnello veniva immolato e il suo sangue veniva spruzzato tutt’intorno sull’altare. Era questo che contaminava l’altare. I trasgressori portavano i loro sacrifici per il peccato, successivamente il sangue veniva asperso nel luogo santo e messo sulle corna dell’altare. Venivano portate anche altre offerte e il sangue era asperso tutt’intorno sull’altare. Era a causa di questo che il santuario e gli altari venivano profanati. Il servizio del “giorno dell’Espiazione” aveva l’obbiettivo di cancellare tutti questi peccati e purificare sia il santuario che il sacerdozio, nonché il popolo.
Una domanda
Potrebbe sorgere la seguente domanda: perché le persone avevano bisogno di essere purificate? Non avevano già portato di tanto in tanto i loro sacrifici durante tutto l’anno? Non avevano già confessato i loro peccati e non erano già stati perdonati? Perché dovevano essere perdonati due volte? Perché doveva essere registrato il “ricordo” di ogni peccato dell’anno? Non avrebbero dovuto “gli adoratori, una volta purificati”, non avere “più alcuna coscienza dei peccati”? {Ebrei 10: 3-2}. Queste domande richiedono una risposta.
Può essere pertinente osservare che la salvezza è sempre condizionata dal pentimento e dalla perseveranza. Dio perdona, ma il perdono non è incondizionato e non indipendente dal corso futuro del peccatore.
Nota come dice Ezechiele: “Ma se il giusto si allontana dalla sua giustizia e commette l’iniquità e imita tutte le abominazioni che l’empio fa vivrà forse costui? Tutta la giustizia che ha compiuto non sarà più ricordata; per la trasgressione che ha compiuto e per il peccato che ha commesso, egli morirà a causa di essi” {Ezechiele 18: 24}.
Questo testo afferma che quando un uomo si allontana da tutte le sue buone azioni “tutta la giustizia che ha compiuto non sarà più ricordata”. È vero anche il contrario. Se un uomo è stato malvagio, ma si allontana dalla sua via malvagia, “nessuna delle trasgressioni che ha commesso sarà più ricordata contro di lui” {Ezechiele 18: 22}.
Nota anche come è stato trattato l’uomo che doveva diecimila talenti nella parabola presentata da Gesù. Quando esso implorò pietà fu perdonato {Matteo 18: 27}. Tuttavia, quando lo stesso servitore si dimostrò spietato verso il suo compagno di servizio che gli doveva una piccola somma di cento denari, e lo fece gettare in prigione, il suo signore “gli disse: «servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito, perché mi hai supplicato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo conservo, come io ho avuto pietà di te?” E il suo padrone, adiratosi, lo consegnò agli aguzzini finché non avesse pagato tutto quanto gli doveva. Così il mio Padre celeste farà pure a voi, se ciascuno di voi non perdona di cuore al proprio fratello i suoi falli»” {Matteo 18: 32-35}.
Dio tiene conto di ogni uomo. Ogni volta che una preghiera di perdono sale a Dio da un cuore sincero, Dio perdona. Ma dopo che gli uomini sono stati perdonati, a volte cambiano idea. Si pentono del loro pentimento. Mostrano con la loro vita che il loro pentimento non è permanente. Perciò Dio, invece di perdonare in modo assoluto e definitivo, scrive la parola “perdono” accanto ai nomi degli uomini, in attesa della cancellazione definitiva dei peccati; affinché possano avere il tempo di riflettere su questa questione. Se alla fine della loro vita avranno questi pensieri ancora nella loro mente, odiando i loro peccati con sincero pentimento, Dio li considererà fedeli e nel giorno del giudizio il registro dei loro peccati sarà finalmente cancellato. Così era anche nell’antico Israele. Quando il “giorno dell’Espiazione” arrivava, ogni trasgressore aveva l’opportunità di dimostrare che era profondamente dispiaciuto per i peccati del passato. Se lo era, il peccato sarebbe stato definitivamente cancellato e purificato.
Un giorno di giudizio
Il “giorno dell’Espiazione” era il giorno del giudizio per Israele, come dimostrano le citazioni all’inizio di questo capitolo. Giorno dopo giorno, durante l’anno i trasgressori si presentavano al tempio e ricevevano il perdono. Nel “giorno dell’Espiazione” questi peccati vennero esaminati davanti a Dio, o come dice Ebrei: “si rinnova ogni anno il ricordo dei peccati” {Ebrei 10: 3}. In quel giorno ogni vero israelita rinnovava la sua consacrazione a Dio e confermava il suo pentimento. Di conseguenza, non solo veniva perdonato, ma purificato. “In quel giorno il sacerdote farà l’espiazione per voi, per purificarvi, affinché siate purificati da tutti i vostri peccati davanti all’Eterno” {Levitico 16: 30}. Nella sera in cui il popolo di Israele tornava a casa il loro cuore doveva essere pieno di felicità. “Purificati da tutti i vostri peccati”. Quale meravigliosa certezza! La stessa promessa ci è data nel Nuovo Testamento: “Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto, da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità” {1 Giovanni 1: 9}. Non solo perdonati, da “ogni iniquità”, ma purificati! Purificati da “tutti i vostri peccati”! Oh, quale gloriosa beatitudine, il peccato veniva perdonato, non solo in parte, ma tutto!
Del giudizio finale Giovanni il profeta dice: “E vidi i morti, grandi e piccoli, che stavano ritti davanti a Dio, e i libri furono aperti; e fu aperto un altro libro, che è il libro della vita; e i morti furono giudicati in base alle cose scritte nei libri secondo le loro opere” {Apocalisse 20: 12}. “I morti furono giudicati in base alle cose scritte nei libri”; il “giorno dell’Espiazione” era un tipo di quel giorno. Sebbene non vi fossero libri conservati nel santuario, vi era, tuttavia, una registrazione del peccato. Ogni goccia di sangue spruzzata sull’altare degli olocausti durante il servizio mattutino e serale costituiva una testimonianza dei peccati commessi. Sulle corna di quello stesso altare, e anche sull’altare dell’incenso, veniva fatta una registrazione dei peccati perdonati dal sangue che veniva asperso dal sacerdote, per il perdono dei peccatori che venivano con i loro sacrifici personali. Nel “giorno dell’Espiazione” i peccati di coloro che avevano già ottenuto il perdono venivano cancellati. I peccatori impenitenti invece venivano “eliminati”. Così il santuario sarebbe stato puro dalla registrazione del peccato accumulatasi nel corso dell’anno. I peccati non rimanevano più come una testimonianza contro il popolo. Era stata fatta l’espiazione e il popolo non era più condannato. Anche tale registrazione non esisteva più.
Cristo, l’uomo rappresentativo
In un altro capitolo si sottolinea il fatto che Aronne non solo rappresentava il popolo, ma si identificava in modo pratico con esso. Il sommo sacerdote rappresentava tutto il popolo. Tutti gli israeliti erano considerati come se fossero compresi in lui. Quando lui peccava, tutto il popolo peccava.
Adamo fu il primo uomo rappresentativo. Per mezzo di lui “il peccato è entrato nel mondo” {Romani 5: 12}. “Per la disubbidienza di un solo uomo i molti sono stati costituiti peccatori” {Romani 5: 19}. E così “per la trasgressione di quell’uno solo la morte ha regnato a causa di quell’uno”, e “per la trasgressione di uno solo quei molti sono morti” {Romani 5: 17, 15}.
Anche Cristo fu l’uomo rappresentativo. Fu il secondo uomo e l’ultimo Adamo. “Il primo uomo, tratto dalla terra, è terrestre; il secondo uomo, che è il Signore, è dal cielo” {1 Corinzi 15: 47}. Questo secondo uomo, “il Signore” che “è dal cielo”, ha annullato tutto ciò che il primo uomo aveva causato per mezzo della sua trasgressione. Per la disobbedienza del primo uomo “molti sono stati costituiti peccatori”. Per l’obbedienza del secondo uomo “molti saranno costituiti giusti” {Romani 5: 19}. Per l’offesa del primo uomo, “la condanna si è estesa a tutti gli uomini”. Per la giustizia del secondo uomo, “la grazia si è estesa a tutti gli uomini in giustificazione di vita” {Romani 5: 18}. E così “come tutti muoiono in Adamo, così tutti saranno vivificati in Cristo” {1 Corinzi 15: 22}.
Il sommo sacerdote era un tipo di Cristo e un rappresentante della nazione. Come rappresentante della nazione, si identificava con i loro peccati ed era degno di morte. Come tipo di Cristo, era anche il loro mediatore e salvatore. In entrambi i casi aveva a che fare con Dio in favore del popolo. In questo senso rappresentava il popolo. Se Dio lo accettava, accettava anche il popolo in lui. Per questo motivo il popolo era ansioso di sentire il suono delle campane sulla sua tunica nel “giorno dell’Espiazione”. Quando finalmente l’espiazione era compiuta e la riconciliazione completata, il suono delle campane, mentre il sommo sacerdote riprendeva le sue vesti sacerdotali, era il segno che Dio aveva accettato il sostituto. Quando usciva fuori il suono era chiaramente udito da tutti, provando una profonda gioia e gratitudine. Dio li aveva accettati ancora una volta nella persona del sommo sacerdote.
Quando il sommo sacerdote nel “giorno dell’Espiazione” andava nel “luogo Santissimo”, vi entrava come rappresentante del popolo. In lui Israele appariva davanti al Signore per rendere conto dei loro peccati durante tutto l’anno. I loro peccati erano registrati nel sangue sull’altare degli olocausti e nel “luogo Santo”. Il “giorno dell’Espiazione” era il giorno della resa dei conti, il giorno del giudizio in cui tutti i peccati dovevano essere esaminati davanti a Dio; il sommo sacerdote appariva alla presenza di Dio, protetto dalla nube dell’incenso. Per la prima volta in quell’anno, il peccato veniva presentato davanti a Dio nel “luogo Santissimo”. Il sommo sacerdote aspergeva il sangue del torello “sul propiziatorio dal lato est; spruzzerà pure un po’ di sangue col suo dito davanti al propiziatorio sette volte” e “farà l’espiazione per sé e per la propria casa” {Levitico 16: 14, 11}. Ora era puro. Qualunque peccato con il quale si fosse identificato, qualunque peccato del quale si era reso responsabile, era stato simbolicamente trasferito al santuario. Lui era puro, ma il santuario no. Ciò che accadeva fino questo momento è quanto segue: il sommo sacerdote nella sua qualità di rappresentante appariva davanti a Dio e alla legge. Aveva riconosciuto i suoi peccati e asperso il sangue.
La legge è come se gli chiedesse:
Il sommo sacerdote rispondeva:
La legge allora diceva:
Il sommo sacerdote rispondeva:
Il sangue veniva spruzzato sul propiziatorio; al posto del peccatore veniva accettato un sostituto. Su questo sostituto veniva posto il peccato; esso veniva reso colpevole del peccato, e come tale doveva morire, pagando in questo modo la pena della trasgressione. Morì al posto del peccatore, a causa del peccato. Pagando così il debito a causa del peccato.
Nella considerazione che abbiamo fatto riguardo ai sacrifici per il peccato, è stato posto l’accento sull’imposizione delle mani sul capo della vittima, trasferendo così il peccato sulla vittima. In ogni caso la vittima moriva con la colpa sul capo, morendo per il peccato. Così Cristo ha preso su di Sé i nostri peccati e Si è fatto peccato. Essendo fatto peccato, doveva morire, perché il salario del peccato è la morte.
Cristo è morto non solo come sostituto per il peccatore, ma anche come Colui che non ha peccato. Prendendo su di Sé i nostri peccati doveva morire – lo diciamo con grande rispetto – perché la legge lo richiedeva. Ma personalmente Cristo non aveva peccato. Era senza peccato; eppure è morto. E la morte di Colui che è senza peccato faceva parte del piano di Dio. La morte del peccatore soddisfa le richieste della legge. La morte di Colui che è senza peccato fornisce il riscatto e libera il peccatore dalla morte.
Dopo che il sommo sacerdote aveva offerto il torello e ne aveva asperso il sangue sul propiziatorio e davanti ad esso, gli venne detto: “Poi scannerà il capro del sacrificio per il peccato, che è per il popolo, e ne porterà il sangue di là dal velo; e farà con questo sangue ciò che ha fatto col sangue del torello; lo spruzzerà sul propiziatorio e davanti al propiziatorio. Così farà l’espiazione per il santuario, a motivo delle impurità dei figli d’Israele, delle loro trasgressioni e di tutti i loro peccati. Lo stesso farà per la tenda di convegno che rimane fra loro, in mezzo alle loro impurità” {Levitico 16: 15-16}.
Si è già notato, ma qui va sottolineato, che il sangue del torello e quello del capro avevano due ruoli diversi. Il primo faceva l’espiazione per Aronne e la sua casa. Il secondo faceva l’espiazione per il popolo e per il santuario {Levitico 16: 11, 15-16}. Non si dice nulla del sangue del torello come se facesse l’espiazione o la purificazione del santuario, ma ciò è detto chiaramente per quanto riguarda il sangue del capro {Levitico 16: 15-16}. Questo può essere spiegato dai motivi che seguiranno.
In tutti i casi che avevano a che fare con il servizio quotidiano in cui si otteneva il perdono, l’espiazione si compiva per mezzo del sangue e indicava il trasferimento dei peccati al santuario. Il peccatore trasferiva i suoi peccati sull’animale sacrificale e il sangue veniva versato sui corni dell’altare dell’olocausto oppure sui corni dell’altare dell’incenso. Questo sangue, carico del peccato confessato dal peccatore, contaminava tipicamente e cerimonialmente il luogo in cui veniva applicato. In questo modo il santuario è reso impuro.
Quando il sommo sacerdote usciva, dopo aver asperso il sangue del torello, lui veniva purificato. Tutti i peccati che portava, di cui era responsabile, erano stati confessati e trasferiti al santuario. Quando usciva dal “luogo Santissimo”, era puro e santo, un tipo di Cristo Gesù. Aveva confessato i suoi peccati, gli erano stati perdonati, e non aveva altre confessioni da fare per sé stesso.
Il capro per il Signore, di cui veniva asperso il sangue, rappresentava Colui che è senza peccato. In tutti i sacrifici fatti durante l’anno era raffigurata la morte di Cristo, Colui che porta il peccato. Egli, che non conosceva il peccato, fu fatto divenire peccato. Il capro nel “giorno dell’Espiazione” rappresentava l’eletto di Dio, innocente, incontaminato e senza peccato.
Prima di andare avanti vogliamo sottolineare quanto segue: nel capro offerto durante il “giorno dell’Espiazione” abbiamo un riferimento simbolico alla morte del Cristo senza peccato, il quale è “santo, innocente, immacolato, separato dai peccatori ed elevato al di sopra dei cieli” {Ebrei 7: 26}. Poiché il sangue del capro non era di per sé carico di peccato, aveva efficacia purificatrice e rendeva possibile la purificazione del santuario.
L’aspersione del sangue durante i sacrifici della mattina e della sera per la nazione “copriva temporaneamente” tutti i peccati commessi in Israele per quel giorno particolare. Il sacrificio quotidiano sull’altare rappresentava Cristo, morto per noi “mentre eravamo ancora peccatori” {Romani 5: 8}; che “ha dato sé stesso per noi, in offerta e sacrificio a Dio come un profumo di odore soave” {Efesini 5: 2}. Che “è l’espiazione per i nostri peccati; e non solo per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo” {1 Giovanni 2: 2}. Il sacrificio quotidiano è il simbolo di Colui che ha dato Sé stesso per il peccato del mondo, morendo per tutti gli uomini, provvedendo così alla salvezza di tutti coloro che sarebbero venuti a Lui. L’aspersione del sangue intorno all’altare indicava un’espiazione temporanea o provvisoria, che costituiva anche una registrazione dei peccati commessi ma non ancora espiati individualmente.
Le offerte individuali per il peccato e la trasgressione costituivano, in effetti, una registrazione dei peccati per i quali vi era bisogno dell’espiazione. I peccati erano già stati registrati attraverso il servizio quotidiano della mattina e della sera. Ora i trasgressori, individualmente, registravano il loro pentimento portando le offerte richieste, mentre il sangue veniva appositamente posto sui corni dell’altare dei sacrifici o sulle corna dell’altare dell’incenso e asperso davanti al velo. Il sangue così ministrato registrava i peccati confessati. È già stato sottolineato che tutti i peccati confessati, alla fine, trovavano la loro via nel santuario, poiché nei casi in cui il sangue non veniva portato direttamente nel santuario, la carne veniva mangiata dai sacerdoti che portavano in questo modo il peccato; e quando i sacerdoti offrivano sacrifici per sé stessi, questi peccati, con i loro, venivano portati nel “luogo Santo”.
Questo servizio del tabernacolo terreno era un tipo dell’opera svolta nel santuario celeste, dove si conserva un registro completo dei peccati commessi e dei peccati confessati. Quando arrivava il “giorno dell’Espiazione” in Israele, tutti avrebbero dovuto confessare i loro peccati e quella confessione veniva registrata nel santuario attraverso il sangue. Per completare l’opera era ora necessario rimuovere la registrazione, cancellando i peccati, purificando il santuario dalla sua contaminazione a causa del sangue. Prima che questa specifica purificazione fosse compiuta, il sommo sacerdote andava nel “luogo Santissimo” con il sangue del torello e faceva l’espiazione per sé stesso e per la sua casa. Fatto ciò, iniziava l’opera della purificazione. Il “luogo Santissimo” veniva purificato con il sangue del capro, e poi il “luogo Santo”. Così la registrazione del peccato veniva cancellata. Dopo di che anche l’altare veniva purificato.
“Poi spruzzerà del sangue su di esso col suo dito sette volte; così lo purificherà e lo santificherà dalle impurità dei figli d’Israele” {Levitico 16: 19}. Così veniva riconciliato il “luogo santo”, il tabernacolo di convegno e l’altare {Levitico 16: 20}. Tutto è ora purificato, riconciliato ed espiato.
Finora però non è stato detto nulla riguardo alla purificazione del popolo. Essi avevano già confessato i loro peccati. Furono perdonati. Ciò che rimaneva era solo la registrazione dei loro peccati, e proprio in questo giorno veniva cancellata. La cancellazione della registrazione era l’ultimo atto della purificazione per il popolo. In questo modo, iniziavano il nuovo anno completamente puri.
Vorremmo richiamare l’attenzione anche su un’altra cosa, e cioè sull’applicazione del sangue del toro sulle corna dell’altare {Levitico 16: 18}. Che il sangue del capro sia stato messo sull’altare non ha bisogno di ulteriori spiegazioni, ciò era per purificarlo. Ma perché proprio il sangue del torello? Il sommo sacerdote rappresentava tutto il popolo. Intercedeva per loro davanti a Dio. Come rappresentante di Cristo, in genere effettuava l’espiazione in modo che quando la sua opera fosse compiuta nel “giorno dell’Espiazione” tutti i peccati venivano eliminati e tutti i peccati confessati venivano cancellati. Quando dunque confessava questi peccati, lo faceva in nome del popolo di Israele, che riceveva l’espiazione. Per questo motivo si diceva che il sommo sacerdote facesse l’espiazione per loro, per purificarli, affinché potessero essere puri da tutti i loro peccati {Levitico 16: 30}.
C’erano senza dubbio alcuni tra quelli in Israele che ritardavano la loro confessione fino al momento in cui diventava troppo tardi per portare un’offerta per il peccato individuale prima del “giorno dell’Espiazione”. Si erano pentiti, ma avevano tardato nel venire al santuario. Altri erano malati e non potevano venire, o erano in viaggio in terre lontane. Nessuno di questi aveva portato le proprie offerte per il peccato o per la trasgressione. Dovevano essere esclusi? I loro peccati erano registrati attraverso il sacrificio quotidiano del mattino e della sera, ma nessuna confessione era stata registrata nel santuario, perché non avevano portato alcun sacrificio. Che cosa si doveva fare? Il sommo sacerdote nel giorno dell’espiazione metteva un po’ di sangue sui corni dell’altare, registrando così per loro la confessione e il perdono. Lui faceva ciò che loro avrebbero dovuto fare se ci fosse stato il tempo o se ne avessero avuto la possibilità; e a motivo del loro pentimento venivano inclusi nell’espiazione. Questi sono rappresentati dal ladrone sulla croce e da altri casi simili.
Così, l’opera del “giorno dell’Espiazione” era completa, per quanto riguardava tutti i peccati confessati. Tutti coloro che avevano confessato i loro peccati e se ne erano pentiti avevano la certezza che i loro peccati fossero stati cancellati. Avevano udito le campanelle mentre il sommo sacerdote si rivestiva delle sue vesti sacerdotali, dimostrando che la sua opera era completata. Il peccato non era solo perdonato, ma purificato. “Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto, da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità” {1 Giovanni 1: 9}. Il perdono si otteneva attraverso il servizio quotidiano, mentre la purificazione nel “giorno dell’Espiazione”. Anche la registrazione del peccato veniva cancellata. Israele era ora puro.
Nella nostra considerazione sul “giorno dell’Espiazione” abbiamo omesso una parte importante del servizio, che merita un approfondimento speciale, cioè quella relativa al capro espiatorio. Su questo argomento si è scritto molto ed esistono molti punti di vista diversi. Considereremo quello che riteniamo essere il vero punto di vista e che si armonizza meglio con lo scopo generale dell’espiazione.
Si ricorderemo che il sangue del capro per il Signore ha purificato il “luogo Santissimo”, il “luogo Santo” e l’altare dalle “impurità dei figli d’Israele” e dalle “loro trasgressioni e di tutti i loro peccati” {Levitico 16: 16, 19}. È stato sottolineato che questo non aveva solo a che fare con il perdono, ma anche con la purificazione. Il perdono si otteneva attraverso il servizio quotidiano quando venivano portate le offerte individuali per il peccato. Il sangue era stato poi ministrato e il peccato perdonato. Ripetutamente si afferma che “il sacerdote farà l’espiazione per lui a motivo del suo peccato, ed esso gli sarà perdonato” {Levitico 4: 26, 31, 35}. Tuttavia, la registrazione del peccato rimaneva fino al “giorno dell’Espiazione”, quando veniva finalmente cancellata.
Questo era un tipo di ciò che sarebbe accaduto nel grande giorno del giudizio, di cui il “giorno dell’Espiazione” era solo un’ombra. Allora i libri si sarebbero aperti e i peccati dei giusti sarebbero stati cancellati {Atti 3: 19; Apocalisse 20: 12; Daniele 7: 10}. Coloro che non avessero cancellato i loro peccati, avrebbero cancellato il loro nome {Esodo 32: 33; Apocalisse 3: 5; Salmo 69: 28}. Questo avrebbe significato la perdizione eterna.
Il capro espiatorio
Quando venivano tirati a sorte i due capri, presi dalla congregazione, uno era per il Signore mentre l’altro era un capro espiatorio {Levitico 16: 8}. Alcuni credono che entrambi i capri fossero un simbolo di Cristo, rappresentando due fasi della Sua opera espiatoria. Altri, invece, credono che rappresentino due forze opposte: uno è “destinato all’Eterno” mentre l’altro è per “Azazel”, stando ad indicare “Satana”. Alcuni studiosi, probabilmente la maggioranza, ritengono che Azazel sia uno essere personale, malvagio e sovrumano; altri sostengono che significhi “colui che rimuove”, specialmente “con una serie di atti”. Sembra molto ragionevole credere che: siccome vi era un capro per il Signore, un essere personale, così anche l’altro debba rappresentare un essere personale. Poiché i due capri sono evidentemente antitetici, l’opinione più coerente sarebbe che Azazel debba essere opposto al Signore. Allora non poteva essere altro che Satana.
Sebbene riteniamo che la maggior parte delle prove sia a favore del considerare Azazel un essere personale e malvagio, tuttavia, vi sono alcune difficoltà da appianare in questa interpretazione, che dovrebbero essere prese in considerazione. La principale tra queste è l’affermazione che il capro espiatorio “sarà presentato vivo davanti all’Eterno, per fare su di esso l’espiazione e per mandarlo poi nel deserto come capro espiatorio” {Levitico 16: 10}. Se Azazel significa “un essere malvagio”, com’è possibile che Satana faccia “su di esso l’espiazione”?
Se considereremo più da vicino il ruolo del capro espiatorio, ciò ci fornirà una soluzione a questo problema. Il capro espiatorio veniva messo in risalto nel “giorno dell’Espiazione” solo dopo il momento in cui l’opera di riconciliazione veniva completata. Dopo che Aaronne “avrà finito di fare l’espiazione per il santuario, per la tenda di convegno e per l’altare, farà avvicinare il capro vivo. Aaronne poserà entrambe le sue mani sulla testa del capro vivo e confesserà su di esso tutte le iniquità dei figli d’Israele tutte le loro trasgressioni, tutti i loro peccati, e li metterà sulla testa del capro; lo manderà poi nel deserto per mezzo di un uomo appositamente scelto. Il capro porterà su di sé tutte le loro iniquità in terra solitaria; e quell’uomo lo lascerà andare nel deserto” {Levitico 16: 20-22}.
Il sacerdote aveva già finito di fare la riconciliazione; il santuario e l’altare erano già stati purificati; era già stata fatta l’espiazione; era già finita la purificazione; allora, e solo allora, il capro espiatorio appariva nel suo ruolo speciale. Il capro espiatorio non aveva in sé alcuna parte nell’espiazione, poiché era già stata compiuta con il sangue del primo capro, che era per il Signore. Quell’opera già stata completata.
Ma alcuni obiettano dicendo che poiché l’iniquità dei figli d’Israele veniva posta sulla testa del capro espiatorio, allora la nostra argomentazione non può essere fondata. Il testo in questione dice che Aaronne “confesserà su di esso tutte le iniquità dei figli d’Israele tutte le loro trasgressioni, tutti i loro peccati, e li metterà sulla testa del capro; lo manderà poi nel deserto per mezzo di un uomo appositamente scelto” {Levitico 16: 21}. Andiamo a considerare proprio questo.
Responsabilità condivisa
La maggior parte dei peccati ammettono una responsabilità condivisa. Solitamente la persona che commette il peccato è quella che principalmente è colpevole, ma non sempre è così. Per alcuni i peccati degli altri nei loro confronti sono più gravi dei loro peccati verso gli altri. L’uomo che educa un bambino a rubare per lui non può sottrarsi alla colpa dicendo che lui stesso non ruba. Colui che attira una ragazza nel peccato, pur non partecipandovi, lui stesso è colpevole. I genitori che non riescono a instillare i giusti principi nei loro figli, un giorno dovranno renderne conto. Così è giusto che sia. Spesso la responsabilità del peccato non è riconducibile a una sola persona. Questo è vero per tutti i peccati, tranne per i peccati personali di Satana. “Quando dice il falso, parla del suo perché è bugiardo e padre della menzogna” {Giovanni 8: 44}.
Consideriamo ora i peccati che porta Satana, i peccati che portano gli uomini e i peccati che porta Cristo. Va tenuto presente, tuttavia, che solo Cristo porta i peccati per l’espiazione sostitutiva. Mentre gli uomini e Satana portano i peccati solo attraverso il deserto e la punizione.
Che Satana debba soffrire per i suoi peccati personali è chiaro. Egli è un assassino fin dall’inizio ed egli è l’origine del peccato. Se il peccato deve essere punito, Satana non può scappare. La sua responsabilità va oltre quella dei suoi peccati personali e arriva fino ai peccati che ha fatto commettere ad altri. Questo abbraccia tutti i peccati, da chiunque li abbia commessi. È responsabile dei peccati degli angeli caduti, ed è responsabile dei peccati degli uomini. Non c’è peccato commesso da nessuna parte, né in cielo né in terra, di cui non sia lui il primo responsabile. Sia che il peccato sia commesso da un santo o da un peccatore, Satana ne è l’istigatore. Questo non significa che gli angeli che hanno peccato non dovranno scontare la pena per quello che hanno fatto; né significa che gli uomini rimarranno senza colpe. È giusto e necessario che ogni peccatore porti la punizione dei suoi peccati nella misura in cui è colpevole. Satana non porterà il loro peccato in quanto tale. Essi stessi dovranno portare il proprio peccato. Il peccato di cui Satana sarà ritenuto responsabile è la sua opera malvagia nel tentare l’uomo a peccare, spingendoli, attirandoli alla rovina. Questo spesso è molto peggio del peccato in sé.
Il principio della responsabilità condivisa è illustrato nel peccato dei nostri progenitori. Satana li tentò ed essi caddero. A causa della tentazione di Satana nel portarli a peccare, il serpente fu maledetto; a causa del peccato di Adamo ed Eva, furono banditi dall’Eden. Dio non riteneva Adamo ed Eva gli unici responsabili, né li scusava. Satana era colpevole, così come lo era anche l’uomo. Non vi erano attenuanti. Tutti erano colpevoli e tutti furono puniti, ciascuno secondo le sue colpe. Questo principio di responsabilità condivisa, illustrato attraverso il modo in cui Dio trattò il primo peccato, resta valido tutt’oggi.
Poiché Satana è il principale responsabile dei peccati di tutti gli uomini, questi peccati dovranno essere attribuiti anche a lui e dovrà portare la punizione che gli è dovuta. Questa punizione non è espiatoria – né sostitutiva – se non nel senso che un criminale espia i suoi peccati portando la punizione delle colpe che merita. Semplicemente soffrirà per i propri peccati e per la sua influenza nel far peccare gli altri.
Questo principio è ben affermato da E.G.White quando dice:
“La punizione del peccatore sarà misurata dalla misura in cui ha influenzato gli altri nell’impenitenza” (The Youth’s Instructor, 9 maggio 1901).
“Di tutti i peccati che Dio punirà, nessuno è più grave ai suoi occhi di quelli che incoraggiano gli altri a fare il male” (Patriarchi e Profeti, p.323).
In armonia con queste parole è anche l’affermazione secondo la quale Satana dovrà portare “la colpa di tutti i peccati che ha fatto commettere al popolo di Dio” (La Grande Controversia, p.485). Mettendo insieme queste affermazioni, capiamo che Satana sarà punito per la sua parte nei peccati degli impenitenti, e anche per la parte da lui commessa nei peccati dei giusti. Questo è giusto, perché è colui che li ha istigati a peccare.
Quando i santi peccano
La colpa di Satana è particolarmente grave nei confronti dei cristiani. Nessun cristiano desidera peccare. Detesta farlo. Ma Satana lo tenta. Mille volte l’uomo resiste e mille volte Satana ritorna. E alla fine è possibile che l’uomo cada, peccando. Ma presto si pente; chiede perdono. Il peccato è stato registrato in cielo. Ma anche il perdono è stato registrato riguardo a quel peccato. L’uomo ora è felice. È perdonato. Ha posto il suo peccato sul grande Portatore di peccati, Gesù, che lo prende volontariamente su di Sé, che ha già pagato la pena e subito la punizione che spettava al peccatore.
Poi arriva il giudizio finale. Il peccato è cancellato. La registrazione del peccato di quell’uomo è completamente puro. Ma che dire della colpa di Satana nel farlo cadere? Anche quello è stato espiato? No, non è così! Satana dovrà scontarlo con la sua stessa vita.
Per spiegare meglio questo fatto vi racconterò di un incidente accaduto anni fa. In un certo collegio, uno studente bidello stava tentando di chiudere le finestre durante una riunione nella cappella. Stava camminando tranquillamente lungo la navata esterna sollevando un lungo bastone e gli occhi concentrati alle finestre. Un suo compagno di studi vide un’eccellente opportunità che, secondo lui, non doveva essere sprecata. Mentre il giovane con il bastone passava, intento nel svolgere il suo lavoro, l’altro studente allungò il piede e con un sonoro schianto sia il bidello che il palo caddero a terra. Il bidello fu subito rimproverato per la sua goffaggine, ma una volta comprese bene le circostanze il rimprovero fu prontamente annullato. Era l’altro studente ad essere il responsabile.
Quindi, idealmente, questo è ciò che potrebbe accadere con il cristiano. Se cade, ciò dovrebbe accadere solo perché è Satana che lo fa inciampare e non per un suo desiderio volontario. Però abbiamo detto “idealmente”. In troppi casi, infatti, il cristiano cade a causa di qualche debolezza per la quale non ci sono scuse. Perché, sebbene un cristiano possa cadere, non ammettiamo la necessità della sua caduta. Dio è in grado di preservarlo, e se Satana riesce a farlo inciampare, la sua vita e le sue intenzioni dovrebbero essere tali da poter dire con Paolo: “Se faccio ciò che non voglio, non sono più io che lo faccio, ma è il peccato che abita in me” {Romani 7: 17-20}.
Abbiamo presentato questa illustrazione non per indurre nessuno a pensare che sia lecito cadere ed evitare la responsabilità della propria caduta, ma piuttosto per mostrare che ci sono casi in cui Satana è quasi interamente lui il responsabile e la colpa può essergli giustamente imputata.
Il lettore che ha seguito l’argomento finora noterà che in ogni peccato riteniamo Satana colpevole su due punti:
In primo luogo, è responsabile come istigatore di tutti i peccati. Sia che svolga personalmente il suo lavoro malvagio, come nel giardino dell’Eden, sia che utilizzi uno dei suoi agenti come di solito accade, la sua colpa è evidente. Anche nel caso in cui l’uomo sia completamente disposto a peccare, Satana deve assumersi la responsabilità primaria. Come il commerciante di liquori diventa in parte responsabile dei crimini commessi da un uomo che è sotto l’influenza del liquore che ha venduto, così Satana deve essere ritenuto responsabile della sua parte in ogni peccato.
In secondo luogo, Satana è anche responsabile della parte che ha nel peccato stesso. Per usare l’illustrazione del proprietario di un bar: lui si limita a vendere alcolici e lascia la responsabilità all’uomo di (ab)usarne o meno. Ma non è così Satana. Egli segue l’uomo e lo aiuta a realizzare i suoi desideri malvagi. Satana diventa così un partecipante diretto del peccato. Poiché è proprio Satana che ha creato le circostanze per commettere quel peccato. Per quanto l’uomo e la donna possano in seguito pentirsi dei loro peccati, tuttavia la colpa rimane di Satana. Nel giorno del giudizio sarà accusato anche di quei peccati che non ha commesso personalmente, ma di cui è stato, tuttavia, partecipe. Questi peccati saranno posti su di lui, e dovrà assumerne la responsabilità.
Cristo come portatore del peccato
Alcuni hanno erroneamente concluso che se i peccati di Israele vengono alla fine posti su Satana, esso deve avere anche una parte nell’espiazione. Questo è un grande errore. Satana non ha alcun ruolo nell’espiazione sostitutiva; i santi non gli sono in alcun modo debitori; il suo portare il peccato non è in alcun modo correlato alla salvezza; la sua opera è unicamente malvagia.
Come “Agnello di Dio”, Cristo portò il peccato del mondo {Giovanni 3: 16}. Tutti i peccati commessi dagli uomini furono posti su di Lui. Egli “è il Salvatore di tutti gli uomini e principalmente dei credenti” {1 Timoteo 4: 10}.
Il sacrificio di Cristo non poteva essere e non era limitato solo a coloro che alla fine lo avrebbero accettato, ma comprendeva tutti gli uomini. Portò i peccati di tutti gli uomini, di Caifa, di Giuda, di coloro che lo inchiodarono sulla croce. Ma portò efficacemente solo i peccati di coloro che alla fine lo avrebbero accettato. “A tutti coloro che lo hanno ricevuto, egli ha dato l’autorità di diventare figli di Dio, a quelli cioè che credono nel suo nome” {Giovanni 1: 12}.
Ma anche coloro che rifiutano l’offerta della salvezza sono stati resi idonei a beneficiare dell’espiazione di Cristo. Nessun peccatore ha alcun diritto intrinseco alla vita, ma il fatto che gli venga permesso di vivere e di avere l’opportunità di accettare la salvezza è solo grazie al sacrificio del Calvario. Gli viene concesso un periodo di prova in cui egli può prendere una decisione. Quando alla fine decide definitivamente e irrevocabilmente che non accetterà la vita, alle condizioni nelle quali gli viene offerta, il dado è tratto e ne deve sopportare le conseguenze. Dio non può fare di più per lui. La salvezza gli è stata offerta più e più volte, e lui l’ha respinta. Lo Spirito Santo lo lascia. Il suo caso è stato deciso.
Nel servizio del santuario venivano chiaramente insegnati i semplici principi della salvezza. Un peccatore pentito portava il suo agnello, gli metteva la mano sul capo, confessava il suo peccato e poi uccideva l’agnello. Il sacerdote allora ministrava il sangue e mangiava la carne, mentre l’uomo se ne andava perdonato. Mangiando la carne il sacerdote prendeva su di sé il peccato, diventando così un tipo di Colui che si è fatto peccato per noi. Nel giorno dell’espiazione il sommo sacerdote, portando i peccati accumulati durante l’anno, faceva l’espiazione per tutti i peccati confessati attraverso il sangue del capro, cancellandoli così senza che ci fosse più alcuna testimonianza. In quel giorno l’Israele pentito non solo aveva perdonato i suoi peccati, ma li aveva definitivamente cancellati, non esistevano più. Invece coloro che non avevano confessato i loro peccati e non avevano ricevuto il perdono venivano eliminati, scomunicati; questo rappresentava la perdita del favore speciale da parte di Dio sulla terra dei viventi. Questa è la semplice lezione di salvezza insegnata nel santuario. Nell’olocausto quotidiano Israele vedeva Cristo come il Salvatore di tutti gli uomini, un sacrificio continuo applicabile a tutti, che provvedeva temporaneamente e provvisoriamente a tutti i peccati, confessati o non confessati. Attraverso l’offerta per il peccato gli uomini accettavano per fede la salvezza offerta e ricevere il perdono. Nel “Giorno dell’espiazione” il sommo sacerdote faceva l’espiazione e provvedeva alla completa purificazione di coloro che erano già stati perdonati dai loro peccati ed erano ancora penitenti di essi e che si umiliavano davanti a Dio. Mediante questo ultimo atto l’espiazione era completa e nulla doveva essere o poteva essere aggiunto. In quel giorno i peccati venivano cancellati e persino la loro registrazione – il loro ricordo – non esisteva più.
La natura del peccato
Il peccato non è un’entità esistente separata e indipendente dalla personalità dell’uomo; è un atteggiamento mentale, una disposizione, un attributo, una qualità della personalità, un modo di vivere, una perversione del bene. La bontà, l’amore e la misericordia o il peccato, l’odio e il male possono essere personificati, ma non possiedono un’esistenza a sé stante. Il peccato può spiarti alla porta {Genesi 4: 7}; pace e giustizia possono baciarsi {Salmo 85: 10}; il male e la giustizia possono combattere fino alla morte; ma queste sono tutte personificazioni ed esistono solo in connessione con la personalità dell’uomo.
Queste verità sono così evidenti che sembrerebbe superfluo affermarle. Eppure, è necessario sottolineare questo punto in considerazione del fatto che ci sono coloro che accettano la vivida descrizione e personificazione del peccato nella Bibbia come prova della sua effettiva esistenza come entità. Questo fa loro credere che il peccato esista ancora, anche dopo essere stato espiato, cancellato, eliminato, annullato, gettato nelle profondità del mare, cancellato dalla memoria di Dio; e che Satana sia l’unica persona che possa annientare il peccato. Credono che tutto ciò che Cristo abbia fatto quando mise fine al peccato, quando morì sulla croce, e ciò che farà quando alla fine cancellerà i peccati dai registri dei libri, tutto questo giova a nulla finché esso non sarà distrutto e sradicato dall’universo. Secondo questa teoria, Satana è l’unico che può estirpare il peccato; e così svolge un ruolo vitale nel piano di salvezza [ma cosi non è].
La confusione che è sorta in merito a questa questione si basa su un’errata interpretazione dell’affermazione che i peccati sono posti sulla testa del capro espiatorio. Questa dichiarazione dice: “Quando avrà finito di fare l’espiazione per il santuario, per la tenda di convegno e per l’altare, farà avvicinare il capro vivo. Aaronne poserà entrambe le sue mani sulla testa del capro vivo e confesserà su di esso tutte le iniquità dei figli d’Israele tutte le loro trasgressioni, tutti i loro peccati, e li metterà sulla testa del capro; lo manderà poi nel deserto per mezzo di un uomo appositamente scelto. Il capro porterà su di sé tutte le loro iniquità in terra solitaria; e quell’uomo lo lascerà andare nel deserto” {Levitico 16: 20-22}.
Quattro interpretazioni
Quattro diverse interpretazioni sono date a questa affermazione. Satana sopporta ed è punito per (1) i peccati confessati solo dai giusti, (2) i peccati dei soli empi, (3) i peccati confessati e non confessati di tutti gli uomini, (4) i propri peccati e quelli che hanno fatto commettere ad altri.
Se i peccati posti su Satana sono solo i peccati dei giusti, allora questi peccati sono peccati perdonati, peccati cancellati, peccati annullati, peccati che sono diventati bianchi come la neve e come lana, peccati da cui il pungiglione è stato rimosso, peccati che Dio ha dimenticato, gettati in fondo al mare e lasciandoseli alle spalle, ovvero, peccati che non esistono più. Per Satana portare tali peccati – peccati perdonati, peccati annullati, peccati cancellati, peccati inesistenti – sarebbe una farsa.
Se chiediamo, Satana è punito solo per i peccati dei giusti? La risposta sarebbe negativa. Non sarebbe giusto punire Satana solo per i peccati dei giusti e non anche per i peccati dei malvagi. Se deve essere punito per i peccati di qualcuno, deve essere punito per i peccati di chiunque li abbia commessi, in quanto istigatore di ogni peccato.
Ma i peccati che i giusti commettono e di cui si pentono sono portati da Cristo. Egli è Colui che “portava le nostre malattie e si era caricato dei nostri dolori” {Isaia 53: 4}. Egli è Colui che “è stato trafitto per le nostre trasgressioni” e “schiacciato per le nostre iniquità”; sul quale fu posto il nostro castigo e dalle cui lividure siamo stati guariti {Isaia 53: 5}. “L’Eterno ha fatto ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti”; “colpito per le trasgressioni del mio popolo”; “annoverato fra i malfattori; egli ha portato il peccato di molti e ha interceduto per i trasgressori” {Isaia 53: 6, 8, 12}.
Se Satana soffre solo per i peccati dei giusti, allora Cristo e Satana portano e soffrono entrambi per gli stessi peccati. In considerazione del fatto costantemente ribadito nella Bibbia che Cristo sopportò i nostri peccati e soffrì per loro, siamo sicuri nel credere che Satana non li porta; e che per lui essere punito solo per i peccati dei giusti sarebbe del tutto inadeguato.
Rifiutiamo quindi la prima proposizione secondo cui Satana soffre solo per i peccati confessati dai giusti. Questi peccati sono perdonati, cancellati, disciolti nel prezioso sangue dell’Agnello. Una volta erano come scarlatti, erano rossi come cremisi, ma Cristo li ha resi bianchi come la neve. Per Satana sopportare quel tipo di peccato non sarebbe un peso, ma un onore. Ritenere che tutto ciò che Cristo ha fatto sulla croce, tutto ciò che ha fatto da allora nel Suo ministero nel santuario celeste per i santi, non giovi alla distruzione e all’annientamento del loro peccato, ma che esiste ancora ed è infine distrutto solo in Satana, tale ragionamento rende Satana una parte necessaria dell’espiazione per i giusti, ciò è una posizione insostenibile. Solo Cristo può portare a termine l’opera di espiazione e non deve essere permesso a Satana di aiutarlo in alcun modo. Coloro che sostengono il contrario, che richiedono a Satana di portare a termine l’opera per i santi che Cristo ha iniziato, rendono Satana necessario.
In considerazione del fatto che Satana è il principale responsabile di tutti i peccati, porterà dunque tutti i peccati? Sarà punito per tutti i peccati? Questa, a prima vista, sembra una conclusione ragionevole; tuttavia, ha bisogno di essere analizzata con attenzione, per evitare che venga fraintesa. Alcuni hanno involontariamente sbagliato in questo e hanno posto tutti i peccati su Satana, lasciando poco spazio all’espiazione di Cristo. Qualsiasi vera teoria della redenzione deve dare a Cristo non solo il primo posto nell’espiazione, ma l’unico posto, e qualsiasi parte che Satana può svolgere deve essere completamente separata dall’opera di Cristo per i Suoi santi.
Poiché la proposizione 3 è strettamente legata alla proposizione 4, potrebbe essere meglio considerarle insieme per avere un quadro generale di quali peccati sono posti sul capro espiatorio e perché sono stati posti su di lui.
Abbiamo già osservato che il portare i peccati non ha lo stesso significato nel caso di Satana come in quello di Cristo. Se osserviamo il tipo, scopriamo che quando il peccato veniva trasferito su qualsiasi sacrificio, significava la morte dell’animale. L’animale portava il peccato con la prospettiva della cancellazione di quel peccato, e in ogni caso ne seguiva la morte. Quando Cristo ha portato i nostri peccati, quando le nostre iniquità sono state poste su di Lui, le ha portate sulla croce, ed è morto affinché potessimo vivere. Ma questo non accade quando è Satana a portare il peccato. Infatti, sebbene il capro espiatorio alla fine debba morire, la Scrittura non menziona che abbia a che fare con l’espiazione, per timore che qualcuno possa trarre conclusioni sbagliate. Quando i peccati venivano posti sul capro espiatorio, non venne fatto alcun sacrificio, né si aspergeva il sangue, né si bruciava il grasso sull’altare, né si mangiava la carne, né alcun tipo di ministero sacerdotale. Non era neanche un sacerdote a portare via il capro espiatorio, e l’uomo che lo faceva non poteva più rientrare nell’accampamento finché non si fosse lavato le vesti e il corpo nell’acqua {Levitico 16: 26}. Tutto questo è scritto per sottolineare il fatto che il capro espiatorio serviva a uno scopo completamente diverso da quello del capro del Signore. Dovremmo tenerlo a mente quando consideriamo il ruolo del capro espiatorio nel contesto della disposizione finale del peccato.
Un’illustrazione
Un’illustrazione potrebbe servire a chiarire come viene impartita la colpa. In ogni peccato sono coinvolti almeno tre individui: il peccatore, Satana e Cristo. Poiché i peccati sono di solito istigati da Satana per mezzo di qualche suo agente, gli individui coinvolti solitamente sono quattro.
Consideriamo il caso di una donna che commette adulterio con un uomo. Lei e l’uomo sono i trasgressori e meritano una punizione. L’adulterio nell’Antico Testamento era punibile con la morte.
In questo caso Satana condivide la loro colpa, perché ha tentato l’uomo, ha tentato anche la donna ed è colpevole per entrambi. Tutti e tre sono degni di morte. Gli uomini potrebbero non essere a conoscenza della trasgressione, ma Dio lo sa. Dopo un po’ la donna si pente, cerca Dio con fervore e riceve il perdono. Nel giorno del giudizio, o come nel tipo del “Giorno dell’espiazione”, il suo peccato è cancellato, e la sua registrazione non ci sarà più. Così starà davanti a Dio come se non avesse mai peccato; lei sarà vestita di una veste candida e pura, ella è una nuova creatura in Cristo Gesù. I suoi peccati, che erano molti, sono purificati nel sangue dell’Agnello; l’antica natura peccaminosa è sepolta nelle acque battesimali; è una nuova creatura, con un nuovo nome; tutte le cose vecchie, sono state dimenticate e tutte le cose sono diventate nuove.
Cos’è successo? La pena di morte che incombeva su di lei è stata rimossa. Cristo è morto per lei, è morto al suo posto. Ha preso su di Sé il castigo che le era dovuto. Egli ha sofferto per lei, e per le Sue lividure ella è stata guarita. La vecchia vita è una cosa del passato. È una nuova creatura. Cristo ha portato con Sé nella tomba i suoi peccati; là pagò la pena; là Egli pose “fine al peccato” {Daniele 9: 24}; e là, mediante la morte, distrusse “colui che ha l’impero della morte, cioè il diavolo” {Ebrei 2: 14}.
Sembra quasi incongruente chiedersi che fine abbia fatto il suo peccato, il suo adulterio. Eppure, è proprio a questa domanda che devono rispondere coloro che credono nell’esistenza del peccato come se fosse indipendentemente dalla personalità dell’individuo. Che fine ha fatto il suo peccato? Ha semplicemente cessato di esistere. Quando ella, per grazia di Dio, rinunciò al suo peccato, quando ricevette il perdono e la purificazione, quando ascoltò l’ammonimento: “Va e non peccare più” {Giovanni 8: 11}, il peccato ebbe fine; non c’era più peccato, non più impurità, non più trasgressione. Era tutto svanito. Cristo aveva compiuto un’opera completa. Alla conclusione del giudizio anche la sua registrazione viene cancellata, e il peccato non può più ritornare alla mente.
Ciò che accadde in questo presunto caso accade nel caso di ogni persona veramente convertita. Cristo si carica completamente; prende il peccato e la sua punizione, perdona e purifica, crea un cuore e una mente nuovi e il peccatore diventa una creatura completamente nuova. In tutto questo Satana non ha alcuna parte.
Ma cosa succede a Satana? Sfugge alla punizione perché la donna si pente? Non avrebbe senso. La sua colpa non diminuisce nonostante la donna abbia cambiato cuore. Egli deve soffrire per la sua parte nel tentarla e nel condurla al peccato. È responsabile di mettere i desideri malvagi nel cuore dell’uomo e di incitarlo a tentare la donna. Per questo deve soffrire, ma non soffre per la parte che spetta all’uomo nel peccato. L’uomo stesso ne soffrirà; e non soffre neanche per la parte che spetta alla donna nel peccato. Ciò per cui Satana soffre è per la parte da lui commessa nel peccato.
La principale colpa spetta a Lui; Egli ha istigato il peccato; ha fatto peccare altri, e per questo dovrà soffrire, mentre gli altri soffriranno per il proprio peccato.
Possiamo quindi riassumere così: Satana soffrirà per i propri peccati, per quelli che ha commesso personalmente e per quelli che ha fatto commettere ad altri. Il peccatore soffrirà per i propri peccati, per quelli che ha commesso personalmente e per quelli che ha fatto commettere ad altri.
Il peccatore che si pente si affida alla misericordia di Dio. Cristo ha preso i suoi peccati, se li è caricati, ha sofferto ed è morto per lui, perciò il peccatore è liberato. Cristo ha pagato la pena dovuta ai peccati e la redenzione è compiuta. Il peccatore è pienamente e completamente restaurato all’amore e al favore di Dio, stando davanti a Dio come se non avesse mai peccato. È solo dopo la realizzazione di quest’opera di espiazione che sull’altro capro espiatorio vengono posti i peccati.
Questa è la colpa per i peccati che ha fatto commettere ad altri, i peccati di cui ha una co-responsabilità. Il peccatore stesso deve portare i propri peccati e soffrirne, a meno che non li getti sul Signore, ma Satana in nessun caso potrà sottrarsi dalla sua primaria responsabilità. È colpevole di ogni peccato e il pentimento dell’uomo non diminuisce la colpa di Satana. Perciò: “Aaronne poserà entrambe le sue mani sulla testa del capro vivo e confesserà su di esso tutte le iniquità dei figli d’Israele tutte le loro trasgressioni, tutti i loro peccati, e li metterà sulla testa del capro; lo manderà poi nel deserto per mezzo di un uomo appositamente scelto. Il capro porterà su di sé tutte le loro iniquità in terra solitaria; e quell’uomo lo lascerà andare nel deserto” {Levitico 16: 21-22}.
I peccati confessati sono già stati eliminati. Aaronne ha già “finito di fare l’espiazione per il santuario, per la tenda di convegno e per l’altare” {Levitico 16: 20}. “Egli entrerà nel santuario per fare l’espiazione, non ci sarà alcuno, finché egli sia uscito ed abbia fatto l’espiazione per sé, per la propria casa e per tutta l’assemblea d’Israele” {Levitico 16: 17}. Allora e solo allora l’altro capro viene portato. I peccati che vengono posti sulla testa del capro espiatorio non sono i peccati espiati, quei peccati cancellati, ormai diventati inesistenti: ma rappresentano quella parte della colpa di Satana nei peccati che sono stati commessi, quella parte per la quale non è stata fatta l’espiazione e che non sono stati posti sul capro per il Signore. Satana porta i propri peccati personali, e anche una parte in tutti i peccati di cui è il diretto responsabile. Questi includono “tutte le iniquità dei figli d’Israele tutte le loro trasgressioni, tutti i loro peccati, e li metterà sulla testa del capro” {Levitico 16: 21}.
In questo modo ogni peccato è retribuito. Cristo porta e annulla nel proprio corpo, tutti i peccati confessati del Suo popolo; il peccatore impenitente che non accetta Cristo come suo sostituto, porta il proprio peccato. Satana porta i propri peccati e inoltre il terribile peso della colpa di tutti i peccati che ha fatto commettere ad altri. Se a questo aggiungiamo i peccati degli angeli caduti, abbiamo una completa e giusta retribuzione per tutti i peccati in questo mondo e nell’universo.
I due capri
I due capri appena presentati prefigurano simbolicamente la distruzione completa del peccato. Il primo capro rappresenta Cristo, che non è solo il Salvatore del mondo, il divino Figlio di Dio, ma anche l’uomo rappresentativo, il secondo Adamo. È un tipo di tutti coloro che saranno salvati. Il secondo capro rappresenta Satana, che non è solo il primo peccatore e l’istigatore di tutti i peccati, ma anche il peccatore rappresentativo. È un tipo di tutti quelli che si perderanno.
Le persone potevano scegliere uno dei due come loro rappresentante.
Se sceglievano il capro per il Signore si identificavano con Cristo e per mezzo di Lui ricevevano il perdono e la purificazione; “Poiché in quel giorno il sacerdote farà l’espiazione per voi, per purificarvi, affinché siate purificati da tutti i vostri peccati davanti all’Eterno” {Levitico 16: 30}. Quando l’opera fu compiuta, il santuario fu mondato, il sacerdozio fu mondato, il popolo fu mondato, da tutti i suoi peccati.
Se, invece, si alleavano con il capro espiatorio non avevano alcuna parte nell’espiazione. Durante l’intero servizio il capro espiatorio rimaneva legato davanti alla porta del tabernacolo, in attesa della sua fine. Terminata l’espiazione, il capro espiatorio veniva condotto al sommo sacerdote, che gli imponeva tutti quei peccati che non erano stati retribuiti nella morte sacrificale del capro del Signore. Confessava quindi questi peccati e li poneva sulla testa del capro, che poi veniva mandato nel deserto. Quando vedevano il capro essere condotto via, non in una marcia trionfante guidata dal sommo sacerdote, ma in un triste corteo guidato da un uomo al quale era stato dato questo incarico, vedevano in questo simbolo la triste sorte, non solo di Satana, ma di tutti i perduti che sono allontanati da Dio. Il capro carico di peccati veniva condotto via per essere distrutto, sempre più lontano dalla casa di Dio e dalla comunità di Israele, per morire solo nel deserto, lontano dall’accampamento di Dio.
Come un criminale è condotto al patibolo per essere impiccato, così il capro, con una corda al collo, veniva portato via per la sua distruzione. Come un criminale espia la sua trasgressione con la sua morte, così anche il capro espierà, non un’espiazione per la salvezza, ma un’espiazione punitiva per la morte.
Eradicazione finale del peccato
Il giorno del giudizio finale include non solo la cancellazione dei peccati dei giusti, ma anche l’eradicazione del peccato dall’universo. Ponendo sul capo di Satana tutti i peccati di cui è responsabile, compresi quelli di coloro che hanno peccato e sono stati “eliminati” dal popolo di Dio. Così anche nel servizio del santuario i peccati venivano posti sulla testa del capro espiatorio dopo che la purificazione del santuario era stata completata. Allora quelli che non si sono pentiti saranno “eliminati” {Levitico 16: 20-22; Levitico 23: 29}.
“Quando il ministero nel luogo Santissimo era stato completato e i peccati di Israele erano stati rimossi dal santuario in virtù del sangue dell’offerta per il peccato, allora il capro espiatorio era presentato vivo dinanzi al Signore; e alla presenza della congregazione il sommo sacerdote confessava su di lui “tutte le iniquità dei figli d’Israele e tutte le loro trasgressioni e tutti i loro peccati, mettendoli sulla testa del capro” {Levitico 16: 21}. Allo stesso modo, quando l’opera di espiazione nel santuario celeste sarà completata, allora alla presenza di Dio, degli angeli celesti e delle schiere dei redenti, i peccati del popolo di Dio saranno posti su Satana, che sarà dichiarato colpevole di tutto il male che ha fatto loro commettere. Come il capro espiatorio fu mandato via in una terra non abitata, così Satana sarà bandito sulla terra desolata, simile a un cupo deserto” (La Grande Controversia, p. 658).
“Come il sacerdote, nel rimuovere i peccati dal santuario, li confessava sulla testa del capro espiatorio, così Cristo metterà tutti questi peccati su Satana, il creatore e l’istigatore del peccato. Il capro espiatorio, che porta i peccati di Israele, fu mandato via “in una terra non abitata” {Levitico 16: 22}; quindi Satana, portando la colpa di tutti i peccati che ha fatto commettere al popolo di Dio, resterà per mille anni confinato sulla terra desolata, senza abitanti e alla fine subirà la piena punizione per il peccato nel fuoco che distruggerà tutti i malvagi. Così il grande piano di redenzione raggiungerà il suo compimento nella definitiva estirpazione del peccato e nella liberazione di tutti coloro che hanno volontariamente rinunciato al male” (La Grande Controversia, p. 485-486).
Il “Giorno dell’espiazione” era il giorno più importante per Israele. In quel giorno il popolo si divideva in due gruppi. Un gruppo di persone umiliavano le loro anime. Avevano già confessato i loro peccati e portato la loro offerta. Ora aspettavano l’esito. Quando udivano le campanelle del sommo sacerdote mentre terminava l’opera di espiazione, si rendevano conto che tutto era andato bene. Dio li aveva accettati. I loro peccati erano stati cancellati.
L’altro gruppo invece non prendeva parte all’espiazione. Non avevano afflitto le loro anime. Non avevano confessato i loro peccati né portato alcun sacrificio. Ora i loro peccati ricadevano sulle loro stesse teste. Venivano “eliminati” dal popolo di Dio.
Così il “Giorno dell’espiazione” rappresentava il grande giorno della divisione. Ogni persona aveva preso la propria decisione e questa decisione stabiliva il suo destino. Quando quel giorno finiva, l’accampamento era completamente puro. O il peccato era stato rimosso dal peccatore, oppure era il peccatore ad essere rimosso. In entrambi i casi l’accampamento era stato completamente purificato.
Così sarà alla fine del mondo. “Ed avverrà che chi sarà rimasto in Sion e chi sarà superstite in Gerusalemme, sarà chiamato santo, cioè chiunque in Gerusalemme sarà iscritto tra i vivi” {Isaia 4: 3}. Dio purificherà di nuovo il Suo popolo. Coloro che rimarranno in Sion saranno santi, “chi sarà rimasto in Sion e chi sarà superstite in Gerusalemme, sarà chiamato santo”. Il resto sarà “eliminato”.
L’allontanamento del capro espiatorio era un momento solenne per tutto Israele. In esso ogni uomo aveva una vivida illustrazione di ciò che gli sarebbe potuto accadere se avesse mancato il suo dovere verso Dio. Cacciato fuori dall’accampamento, nel deserto, solo e abbandonato, preda della fame e della sete, del caldo di giorno e del freddo di notte, circondato da animali selvatici e da altri pericoli durante notte, era carico di peccato e della maledizione di Dio che era stata posta su di lui. Questo era il destino del capro espiatorio, e questo sarebbe stato anche il destino di coloro che si erano allontanati da Dio. Questa lezione era chiara e potente, non si sarebbe potuta dimenticare facilmente.
In {Levitico 23} sono riportate le feste e le sante convocazioni che il Signore comandò al Suo popolo di osservare. Ce ne sono sette in tutto. Tre di esse erano le grandi feste dell’anno: la Pasqua, la Pentecoste e la festa dei Tabernacoli. Di queste sta scritto: “Tre volte all’anno ogni tuo maschio si presenterà davanti all’Eterno, il tuo DIO, nel luogo che egli ha scelto: nella festa dei pani azzimi, nella festa delle Settimane e nella festa delle Capanne; nessuno di essi si presenterà davanti all’Eterno a mani vuote” {Deuteronomio 16: 16; Esodo 23: 17; Esodo 34: 23}.
Le parole usate per indicare “feste” e “sante convocazioni” differiscono notevolmente nel loro significato. “Hag”, che appartiene in particolare alle tre feste nominate, significa “occasione gioiosa” o “festa”. “Mer” si riferisce piuttosto a tempi stabiliti, osservanze dichiarate, sante convocazioni o adunanze solenni. Un esempio di “Mer” sarebbe il giorno dell’espiazione, che non era una “festa” nel senso stretto del suo significato, ma una santa convocazione {Levitico 23: 26-32}.
Oltre alla Pasqua, alla Pentecoste, alla festa dei Tabernacoli e al “Giorno dell’espiazione”, ve ne erano altri tre: la Festa delle Trombe, che cadeva il primo giorno del settimo mese, la Festa degli Azzimi e la Festa delle Primizie {Levitico 23: 24, 6, 9-14; Esodo 12: 17; Numeri 28: 17}. Le due ultime feste erano celebrate in occasione dell’osservanza della Pasqua, ma se ne parla come se fossero chiaramente distinte da essa {Esodo 12: 12, 15, 17; Numeri 28: 16-17; Levitico 23: 9-14}. Poiché sono menzionate separate e poiché hanno un significato speciale, le collochiamo tra le sette feste del Signore.
La Pasqua si celebrava il quattordicesimo giorno del primo mese, la festa degli Azzimi iniziava il quindicesimo giorno dello stesso mese e il sedicesimo giorno si agitavano le primizie {Levitico 23: 5-6, 11}. Le prime tre feste avvenivano nel primo mese dell’anno. Le ultime tre feste avvenivano nel settimo mese: la festa delle trombe il primo giorno, il giorno dell’espiazione il decimo giorno e la festa dei tabernacoli il quindicesimo giorno {Levitico 23: 24, 27, 39}. La festa della Pentecoste avveniva tra questi due raggruppamenti di feste, cinquanta giorni dal giorno “dopo il sabato”, il sedicesimo giorno di Abib, nel primo mese. Questo significa che la Pentecoste avveniva a metà del terzo mese dell’anno ebraico, che corrisponde al nostro maggio-giugno {Levitico 23: 15-16}.
La Pasqua
La Pasqua è stata istituita come memoriale della liberazione di Israele dalla schiavitù egiziana. Il decimo giorno del primo mese si sceglieva un agnello per ogni famiglia “tenendo conto del numero delle persone”, oppure se la famiglia era piccola, due o più famiglie potevano unirsi per un solo sacrificio. L’agnello rimaneva con loro fino al quattordicesimo giorno, quando veniva ucciso la sera, e il sangue spruzzato sugli stipiti delle porte {Esodo 12: 1-7}. In quella notte la carne veniva mangiata, non bollita come al solito, ma arrostita. Si poteva accompagnare solo con pane azzimo e “con erbe amare” {Esodo 12: 8}. Negli anni successivi ci furono alcune modifiche di questo rituale, ma i punti essenziali rimasero gli stessi.
Il sacrificio pasquale si distingueva dagli altri essendo chiamato “il mio sacrificio” {Esodo 23: 18; Esodo 34: 25}. La Pasqua aveva il ruolo di commemorare la partenza di Israele dall’Egitto. Il Nuovo Testamento la definisce essere un’ombra dell’opera di Gesù; “la nostra pasqua infatti, cioè Cristo, è stata immolata per noi” {1 Corinzi 5: 7}. Tenendo presente questa rappresentazione simbolica, alcune analogie sono facilmente percepibili:
Strettamente connessa alla Pasqua, ma distinta da essa, vi era la festa degli Azzimi. Le due feste erano in realtà parte della stessa osservanza, tanto che i nomi sono usati in modo intercambiabile; eppure, nello scopo erano alquanto diversi. Il comando di Dio era esplicito riguardo a cosa doveva essere fatto.
“Per sette giorni mangerete pani azzimi. Nel primo giorno provvederete a rimuovere ogni lievito dalle vostre case, poiché chiunque mangerà pane lievitato, dal primo al settimo giorno, sarà reciso da Israele” {Esodo 12: 15}. Il commento di Dio a proposito è: “Celebriamo perciò la festa non con vecchio lievito, né con lievito di malvagità e di malizia, ma con azzimi di sincerità e di verità.” {1 Corinzi 5: 8}.
La Pasqua e la festa degli Azzimi sono ricche di insegnamenti riguardo alle verità del Vangelo. Attraverso l’agnello immolato si provvedeva a salvare il primogenito. Ma la morte dell’agnello non bastava per assicurare la salvezza. Il sangue deve essere versato sullo stipite della porta. Ci doveva essere un’applicazione individuale del sacrificio. L’aspersione del sangue era importante quanto la morte dell’agnello. Eppure, questo non bastava. La carne doveva essere mangiata in condizioni adeguate.
“Lo mangerete in questa maniera: coi vostri lombi cinti, coi vostri sandali ai piedi e col vostro bastone in mano; lo mangerete in fretta: è la Pasqua dell’Eterno” {Esodo 12: 11}. Ma anche questo non bastava. Tutto il lievito doveva essere eliminato. “chiunque mangerà qualcosa di lievitato, quel tale sarà reciso dall’assemblea d’Israele, sia egli forestiero o nativo del paese” {Esodo 12: 19}.
La Pasqua è il simbolo della morte di Cristo. Lui è la nostra Pasqua {1 Corinzi 5: 7}. Sulla croce morì per noi. Lì si è provveduta la salvezza per tutti coloro che rispettano le condizioni della vita. Ma la croce in sé e per sé non salva nessuno. Fornisce solo i mezzi per la salvezza. Ma ci deve essere un’applicazione individuale del sangue che è stato fornito. Il comando per Israele era: “Poi prenderete un mazzetto d’issopo, lo intingerete nel sangue che è nel catino, e con il sangue che è nel catino spruzzerete l’architrave e i due stipiti delle porte” {Esodo 12: 22}. La promessa era che, se l’avessero fatto, allora quando il Signore “passerà per colpire gli Egiziani; quando però vedrà il sangue sull’architrave e sui due stipiti, l’Eterno passerà oltre la porta e non permetterà al distruttore di entrare nelle vostre case per colpirvi” {Esodo 12: 23}.
Le disposizioni qui menzionate erano state date per salvare i primogeniti dall’angelo distruttore. La morte dell’agnello fornì i mezzi per la salvezza, ma solo l’applicazione del sangue rendeva efficaci i mezzi previsti. Entrambi erano necessari.
Cristo dice: “Io sono il pane vivente che è disceso dal Cielo; se uno mangia di questo pane vivrà in eterno; or il pane che darò è la mia carne, che darò per la vita del mondo” {Giovanni 6: 51}. A Israele fu detto di arrostire l’agnello intero. “Non ne mangerete niente di crudo o di lessato nell’acqua, ma sia arrostito al fuoco con la testa, le gambe e le interiora” {Esodo 12: 9}. Ogni famiglia doveva radunare un numero sufficiente di persone affinché tutta la carne fosse mangiata {Esodo 12: 4}. Niente doveva essere portato fuori di casa, e niente doveva rimanere fino al mattino. Ciò che restava di quelle parti che non potevano essere mangiate dovevano essere bruciate {Esodo 12: 10, 46}. Questo non poteva prefigurare altro che una piena identificazione di coloro per i quali era stato sparso quel sangue con Colui che rappresentava l’agnello. Questo indica una piena identificazione del credente con Cristo. Significa una completa accettazione della pienezza di Dio.
Il lievito doveva essere eliminato del tutto. Non abbiamo dubbi sul significato spirituale del lievito. Sta a indicare malizia e malvagità {1 Corinti 5: 8}. Rappresenta la falsa dottrina esemplificata negli insegnamenti dei farisei, dei sadducei e degli erodiani {Matteo 16: 6; Marco 8: 15}. Il lievito dei farisei è l’avidità e l’ingiustizia {Matteo 23: 14}, uno spirito da cane nella mangiatoia {Matteo 23: 13}, falso zelo {Matteo 23: 15}, stime sbagliate dei valori spirituali {Matteo 23: 16-22}, omissione di giudizio, misericordia e fede {Matteo 23: 23}, vana puntigliosità {Matteo 23: 24}, ipocrisia {Matteo 23: 25-28}, intolleranza {Matteo 23: 29-33}, crudeltà {Matteo 23: 34-36}. Il lievito dei sadducei è lo scetticismo {Matteo 23: 22-23}, la mancanza di conoscenza delle Scritture e della potenza di Dio {Matteo 23: 29}. Il lievito degli erodiani è l’adulazione, la mondanità e l’ipocrisia {Matteo 23: 16-21} e complottare il male contro il servo di Dio {Marco 3: 6}.
Il corrispettivo neo-testamentario della Pasqua si trova nella santa cena del Signore, o il servizio della comunione. Dopo la venuta di Cristo, non poteva esserci più alcuna virtù nel sacrificare l’agnello pasquale, poiché esso prefigurava la Sua venuta. Ma vi sarebbe stata una grande virtù nel commemorare il sacrificio del Calvario e la Sua potenza che sostiene tutto. Per questo il Signore ha istituito la santa cena della comunione, essa richiamava alla memoria i simboli della nostra salvezza e i mezzi provveduti alla croce. Come il Suo proto-tipo pasquale, la cena del Signore punta sia al passato che al futuro. Dobbiamo ricordare il Calvario “finché egli venga” {1 Corinzi 11: 26}.
“Questi simboli sono stati soddisfatti, non solo per quanto riguardava l’evento, ma anche per quanto concerneva il tempo. Il quattordicesimo giorno del primo mese ebraico, lo stesso giorno e mese in cui per quindici lunghi secoli l’agnello pasquale era stato ucciso, Cristo, dopo aver mangiato la Pasqua con i Suoi discepoli, istituì quella festa che doveva commemorare la Sua morte come “l’Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo”. Quella stessa notte fu preso da mani malvagie per essere crocifisso e ucciso. Come l’anti-tipo della primizia di grano, il nostro Signore è risuscitato dai morti il terzo giorno, “primizia di quelli che dormono”, esempio di tutti i risuscitati, il cui “corpo ignobile” sarà cambiato e “trasformato” secondo il Suo corpo glorioso {1 Corinzi 15: 20; Filippesi 3: 21}. Allo stesso modo, i simboli che si riferiscono al secondo avvento, devono essere soddisfatti al momento indicato nel servizio cerimoniale” (La Grande Controversia, pag. 399).
La presentazione delle primizie faceva parte della celebrazione che aveva a che fare con i giorni degli azzimi. La presentazione delle primizie avveniva “il giorno dopo il sabato”, il sedicesimo giorno di Abib {Levitico 23: 11}. Questo giorno non era un giorno di santa convocazione, non era neanche uno dei sabati; ma quel giorno veniva comunque ritenuto un giorno importante. Il quattordicesimo giorno di Abib veniva delimitata una certa porzione di un campo d’orzo da mietere in preparazione per la presentazione del sedicesimo giorno. Tre uomini scelti tagliavano l’orzo in presenza di testimoni, legando il raccolto tagliato in un covone. Dopo essere stati tagliati, i covoni venivano tutti legati insieme in un unico covone e presentato al Signore come un “covone delle primizie”. “Egli agiterà il covone davanti all’Eterno per voi, perché sia gradito; il sacerdote lo agiterà il giorno dopo il sabato” {Levitico 23: 11}. Oltre a questo, “offrirete un agnello di un anno, senza difetto, come olocausto all’Eterno”, e “l’oblazione di cibo che l’accompagna sarà di due decimi di efa di fior di farina mescolata con olio, come sacrificio fatto col fuoco, in odore soave all’Eterno” {Levitico 23: 12-13}. Quando veniva fatto ciò, solo allora Israele poteva cominciare a usare i frutti del campo.
Questa offerta era un’offerta di accettazione davanti a Dio. Era una presentazione delle primizie; senza dubbio si riferisce a “Cristo la primizia, poi coloro che sono di Cristo alla sua venuta” {1 Corinzi 15: 23}.
Se riassumiamo gli insegnamenti dell’osservanza della Pasqua abbiamo le seguenti riflessioni: La Pasqua è il simbolo della morte di Cristo. Come è morto l’agnello pasquale, così è morto Cristo. Il sangue dell’agnello protesse l’Israele dell’antichità dall’angelo distruttore. Il sangue di Cristo ora riconcilia. La Pasqua è anche il simbolo della resurrezione, come rappresentato dal fascio agitato davanti all’Eterno.
Il tipo e l’anti-tipo sono perfetti anche per quanto riguarda il tempo del suo adempimento. L’agnello morì la sera del quattordicesimo giorno di Abib. Mentre il sedicesimo giorno, il “giorno dopo il sabato”, le primizie, che prima erano state raccolte, venivano presentate davanti al Signore. Cristo è morto venerdì sera. Riposò nella tomba durante il sabato. E il “giorno dopo il sabato”, “Cristo primizia” fu risuscitato dalla tomba e si presentò davanti al Signore affinché ricevesse la conferma che il Suo sacrificio fosse accettato.
Il “giorno dopo il sabato” non era “una santa convocazione” o un “sabato”, ma veniva ugualmente svolta un’opera importante. Quando Cristo risorse il primo giorno della settimana, era necessario che ascendesse al Padre, affinché ricevesse l’accettazione del Suo sacrificio da parte di Dio. Sulla croce la Sua anima era avvolta dalle tenebre. Il Padre gli nascose il volto. Nella disperazione e nell’agonia gridò: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?” {Matteo 27: 46}.
Ma ora avvenne la resurrezione. La prima cosa che Cristo avrebbe dovuto fare era apparire alla presenza del Padre e udire da Lui le benedette parole che la Sua morte non fosse vana, ma che il sacrificio fosse accettato come ampiamente sufficiente. Quindi doveva ascendere al cielo e ascoltare dal Padre stesso queste parole di rassicurazione; poi sarebbe dovuto tornare di nuovo sulla terra da coloro che erano ancora addolorati per la Sua morte, non sapendo che era stato risuscitato. E questo fece.
La Pasqua è anche un tipo della “santa cena”. Il consumo dell’agnello pasquale riuniva famiglie e i vicini. Era un pasto comune che caratterizzava la liberazione. Era stato effettuato uno scambio; il loro primogenito fu risparmiato in cambio dell’agnello sacrificale. Tale liberazione richiedeva una personale consacrazione. Tutti i peccati dovevano essere messi da parte. Non doveva esserci lievito da alcuna parte. Ogni angolo doveva essere esaminato. “Santità al Signore” era il motto. Niente di meno sarebbe stato accettato.
Tutto questo e anche altro significava la Pasqua per l’Israele del tempo. Poiché “la cena del Signore” del Nuovo Testamento è il sostituto della “Pasqua del Signore”, per noi dovrebbe avere un significato non minore di quanto lo fosse per loro. Esiste il terribile pericolo che dimentichiamo o non apprezziamo le meravigliose benedizioni che Dio ha in serbo per coloro che “degnamente” prendono parte alle ordinanze della casa del Signore. Faremmo bene a studiare la Pasqua data a Israele, per apprezzare ancora di più che il Cristo è il nostro vero Agnello pasquale, la cui morte è commemorata attraverso il servizio della “santa cena”.
Pentecoste
La Pentecoste avveniva cinquanta giorni dopo l’offerta agitata del covone delle primizie il sedicesimo giorno di Abib. Da quel giorno “conterete cinquanta giorni fino al giorno dopo il settimo sabato, quindi offrirete all’Eterno una nuova oblazione di cibo. Porterete dalle vostre abitazioni due pani per un’offerta agitata di due decimi di efa di fior di farina; essi saranno cotti con del lievito, quali primizie offerte all’Eterno” {Levitico 23: 16-17}.
Poiché il covone agitato veniva presentato all’inizio del raccolto, prima che il nuovo raccolto potesse essere usato, così la Pentecoste giungeva alla fine della mietitura di tutti i cereali, non solo dell’orzo come nel caso del covone agitato, essa rappresentava il gioioso riconoscimento della dipendenza di Israele da Dio come donatore di tutti i Suoi buoni doni. In quel tempo non si presentava alcun covone, ma due pani agitati di fior di farina, cotti con lievito. “Assieme a quei pani offrirete sette agnelli dell’anno senza difetto, un torello e due montoni; essi saranno un olocausto all’Eterno assieme alla loro oblazione di cibo e alle loro libazioni; sarà un sacrificio di odore soave fatto col fuoco all’Eterno. Poi offrirete un capro come sacrificio per il peccato e due agnelli dell’anno, come sacrificio di ringraziamento” {Levitico 23: 18-19}.
Nella celebrazione della Pasqua era particolarmente richiesto che non si mangiasse né si trovasse lievito. Invece alla Pentecoste dovevano essere presentati due pani, “cotti con del lievito” {Levitico 23: 17}. Il covone agitato è “Cristo la nostra primizia”. Egli era senza peccato. Il pane non è una creazione diretta di Dio. È in parte opera dell’uomo. È imperfetto e deve essere mescolato con il lievito. Ma veniva accettato. È veniva agitato “come offerta agitata davanti all’Eterno; essi saranno consacrati all’Eterno apparterranno al sacerdote” {Levitico 23: 20}.
La Pentecoste è anche il simbolo dell’effusione dello Spirito Santo. Come i pani agitati venivano offerti cinquanta giorni dopo la presentazione del covone agitato, così ci furono esattamente cinquanta giorni tra la risurrezione di Cristo e l’effusione dello Spirito a Pentecoste {Atti 2: 11}. Quaranta di questi giorni Cristo li trascorse sulla terra istruendo e aiutando i Suoi discepoli {Atti 1: 3}. Poi ascese, e per dieci giorni i discepoli continuarono a pregare e supplicare, finché “il giorno di Pentecoste fu pienamente giunto”. Con la Pentecoste venne la pienezza dello Spirito.
Questi dieci giorni furono importanti per la chiesa terrena, ma lo furono anche per la chiesa del cielo. Quando Cristo, “essendo salito in alto, egli ha condotto prigioniera la prigionia e ha dato dei doni agli uomini” {Efesini 4: 8}. Coloro che erano stati risuscitati alla morte di Cristo ed erano usciti dai sepolcri, ascesero anche loro al cielo insieme a Lui e furono poi presentati al Padre come una sorta di primizia della risurrezione {Matteo 27: 52-53}.
Festa delle trombe
La festa delle trombe avveniva il primo giorno del settimo mese, ed era una preparazione per il giorno dell’espiazione, nel decimo giorno del mese. Era un appello solenne per tutto Israele affinché si preparasse all’incontro con il loro Dio. Annunciava loro che il giorno del giudizio stava arrivando e che dovevano prepararsi. Era un misericordioso richiamo alla confessione e alla consacrazione. Poiché abbiamo già parlato dell’espiazione, pensiamo che non sia necessario approfondire nuovamente né la “festa delle trombe” né il “giorno dell’espiazione”.
Festa dei tabernacoli
Questa era l’ultima festa dell’anno e avveniva verso l’inizio o la metà del nostro mese di Ottobre, dopo che la raccolta era finita e il frutto raccolto. Era un’occasione gioiosa per tutti. Il “Giorno dell’espiazione” era passato; tutte le incomprensioni erano state risolte, tutti i peccati confessati e messi da parte. Israele era felice e la loro felicità trovava la sua espressione massima nella “festa dei tabernacoli”.
La festa iniziava con un giorno di santa convocazione {Levitico 23: 35}. Il popolo doveva prendere “rami di palma, rami dal folto fogliame e salici di torrente, e vi rallegrerete davanti all’Eterno, il vostro DIO, per sette giorni” {Levitico 23: 40}. Con questi rami dovevano fare delle capanne, e in queste dovevano vivere durante la festa. Nel giorno dell’espiazione avrebbero afflitto le loro anime. Durante la festa dei tabernacoli [o delle capanne] dovevano rallegrarsi davanti al Signore loro Dio per sette giorni. Questa era l’occasione più felice di tutto l’anno, quando amici e vicini rinnovarono la loro comunione e convivevano nell’amore e nell’armonia. Questo evento rappresenta profeticamente quel tempo in cui avrà luogo il grande raduno del popolo di Dio, il quale verrà “da levante e da ponente e sederanno a tavola con Abrahamo, con Isacco e con Giacobbe, nel regno dei cieli” {Matteo 8: 11}.
La Festa dei Tabernacoli era una commemorazione del tempo in cui Israele visse nelle tende nel deserto durante i suoi quarant’anni di peregrinazione. “Ti ricorderai che fosti schiavo in Egitto e avrai cura di mettere in pratica questi statuti. Celebrerai la festa delle Capanne per sette giorni, dopo aver raccolto il prodotto della tua aia e del tuo strettoio; e gioirai nella tua festa, tu, tuo figlio e tua figlia, il tuo servo e la tua serva, e il Levita, lo straniero, l’orfano e la vedova che sono entro le tue porte. Celebrerai una festa per sette giorni in onore dell’Eterno, il tuo DIO, nel luogo che l’Eterno ha scelto, perché l’Eterno, il tuo DIO, ti benedirà in tutto il tuo raccolto e in tutto il lavoro delle tue mani e tu sarai grandemente contento” {Deuteronomio 16: 12-15}.
È bene ricordare come Dio ci ha guidato in passato. È bene ricordarci della Sua provvidenza. A volte siamo inclini a lamentarci. Non sarebbe buona cosa pensare alle molte benedizioni che Dio ci ha concesso e al modo meraviglioso in cui ci ha guidato? Questo ci renderebbe più riconoscenti e grati. E questa è una parte vitale della religione.
Quando Dio comandò a Mosè di costruirgli un santuario, gli fu detto “di fare ogni cosa secondo il modello che ti è stato mostrato sul monte” {Ebrei 8: 5}. E così fece Mosè. Quando l’opera di costruzione fu terminata, “Mosè esaminò quindi tutto il lavoro; ed ecco, essi l’avevano eseguito come l’Eterno aveva ordinato; essi l’avevano fatto così. Così Mosè li benedisse” {Esodo 39: 43}.
Dio non solo diede indicazioni per la costruzione del santuario, ma scelse anche i sacerdoti che avrebbero servito al suo interno e diresse la loro preparazione per il santo ruolo che avrebbero ricoperto. Diede indicazioni su come doveva essere unto il santuario, sulla purificazione del tabernacolo, con i suoi arredi e vasi, attraverso il sangue e mise Mosè come sovrintendente di ogni dettaglio del servizio in questione. Ma di tutto questo abbiamo già parlato.
L’unzione del tabernacolo e la sua aspersione con il sangue avevano il compito di purificare il santuario, i suoi arredi e i suoi vasi {Ebrei 9: 22; Esodo 30: 26-29; Levitico 8: 15}. Tali cerimonie erano molto simili a quelle del “Giorno dell’espiazione” attraverso la quale si otteneva la purificazione {Levitico 16: 19}. Prima che il santuario venisse inaugurato, naturalmente, non vi era stato alcun servizio attraverso il quale il tabernacolo o alcuno degli utensili si fosse potuto contaminare. Nessuno aveva portato alcuna offerta per il peccato o qualsiasi altro tipo di offerta. Nessun uomo tranne Mosè era entrato nei luoghi santi del santuario. Eppure, il tabernacolo veniva comunque asperso attraverso il sangue e anche unto con olio con l’intento di purificarlo. Questo faceva parte della cerimonia di inaugurazione, e tramite esse “il tabernacolo e tutte le cose che vi si trovavano, e così le consacrò” {Levitico 8: 10}. Dell’altare si ricorda espressamente che Mosè “purificò l’altare; poi sparse il sangue alla base dell’altare e lo consacrò per fare su di esso l’espiazione” {Levitico 8: 15}.
Ora ci vogliamo domandare se vi fosse una simile inaugurazione anche del santuario celeste corrispondente ai servizi cerimoniali terreni. Quando Aaronne fu introdotto nel suo santo ruolo [di sommo sacerdote] affinché potesse ricevere poteri di mediazione per il ministero della riconciliazione, ci fu bisogno di un’inaugurazione pubblica che precedesse l’assunzione dei suoi doveri sacerdotali; perciò, ci chiediamo se vi è stata una simile inaugurazione al potere del nostro grande Sommo Sacerdote in cielo? Vi è qualche accenno di dedicazione del santuario celeste, oppure vi è qualche accenno di purificazione delle cose celesti propedeutiche al loro uso nell’opera della vera espiazione?
All’inizio la mente può ribellarsi al pensiero che ci sia qualcosa in cielo che potrebbe aver bisogno di essere purificato. Si noti, tuttavia, l’affermazione dell’apostolo: “Era dunque necessario che i modelli delle cose celesti fossero purificati con queste cose; ma le cose celesti stesse lo dovevano essere con sacrifici più eccellenti di questi” {Ebrei 9: 23}. In questo momento non discuteremo più le ragioni della purificazione celeste, ma affermeremo semplicemente che, secondo la citazione biblica soprariportata, tale purificazione era “necessaria”.
Al momento della consacrazione del santuario terreno tutto il tabernacolo, compresa l’arca, il tavolo dei pani, il candeliere, l’altare dell’incenso, l’altare dell’olocausto, la conca e tutti i vasi, venivano purificati e santificati, consacrati e dedicati a Dio; ora erano pronti per l’uso. Ma dopo l’inizio del servizio nel tabernacolo – il ministero che aveva a che fare con il peccato e il sangue – era ancor più necessario purificare il santuario ogni anno “a motivo delle impurità dei figli d’Israele, delle loro trasgressioni e di tutti i loro peccati” {Levitico 16: 16}. Questo avveniva nel “Giorno dell’espiazione”. Queste due cerimonie di purificazione erano registrate come eventi distinti. Una che santificava, purificava e dedicava il santuario come condizione necessaria per il ministero della riconciliazione; l’altra che provvedeva a una purificazione periodica (annuale) del santuario dopo che era stato contaminato dal peccato del popolo. Entrambe erano necessarie e crediamo che entrambe trovino la loro controparte nel santuario celeste. Sebbene separati nel tempo oltre che nello spazio, entrambi hanno a che fare con la purificazione.
L’incarnazione
Come era “necessario” che le cose in cielo fossero purificate e dedicate, così era anche “necessario” che Colui che doveva servire come Sommo Sacerdote fosse consacrato e dedicato al Suo ministero. Di questa consacrazione e dedicazione la Bibbia parla in termini precisi.
Cristo esisteva nella forma di Dio; Era uguale a Dio {Filippesi 2: 6}. “Essendo in forma di Dio, non considerò qualcosa a cui aggrapparsi tenacemente l’essere uguale a Dio, ma svuotò sé stesso, prendendo la forma di servo, divenendo simile agli uomini; e, trovato nell’esteriore simile ad un uomo, abbassò se stesso, divenendo ubbidiente fino alla morte e alla morte di croce. Perciò anche Dio lo ha sovranamente innalzato e gli ha dato un nome che è al di sopra di ogni nome” {Filippesi 2: 6-9}.
“Egli doveva perciò essere in ogni cosa reso simile ai fratelli, perché potesse essere un misericordioso e fedele sommo sacerdote nelle cose che riguardano Dio, per fare l’espiazione dei peccati del popolo” {Ebrei 2: 17}.
Cristo è venuto in questo mondo volontariamente. Non era obbligato a venire. Poteva rimanersene in cielo. Ma il Suo amore per l’uomo Lo ha portato a decidere di pagarne il costo, di sopportare tutto ciò che era necessario per salvare l’uomo. Non poteva diventare il Salvatore degli uomini né essere un sommo sacerdote misericordioso e fedele, né tantomeno fare riconciliazione per il popolo, se non si fosse voluto abbassare, prendendo il posto dell’uomo in tutto, essendo tentato, soffrendo ed infine morendo. Queste erano le condizioni da cui dipendeva la Sua idoneità all’opera che si proponeva di fare.
Come Aaronne fu lavato, così Cristo doveva essere battezzato nell’acqua da Giovanni {Matteo 3: 13-17}. Come Mosè fece indossare delle vesti gloriose ad Aaronne, così Dio “mi ha rivestito con le vesti della salvezza, mi ha coperto col manto della giustizia” {Isaia 61: 10}. Come venne unto Aaronne, così “l’Eterno mi ha unto per recare una buona novella agli umili; mi ha inviato a fasciare quelli dal cuore rotto, a proclamare la libertà a quelli in cattività, l’apertura del carcere ai prigionieri” {Isaia 61: 1}. Come Aaronne fu incoronato con il diadema che portava l’incisione “SANTITÀ AL SIGNORE”, allo stesso modo Gesù fu “coronato di gloria e d’onore” {Ebrei 2: 9}. Passo dopo passo Cristo si è preparato alla Sua opera sacerdotale, e alla fine, quando tutto era pronto e aveva terminato la Sua opera sulla terra, si è offerto come un sacrificio gradito a Dio.
Poiché Cristo è stato tentato in tutti i punti come noi, e tuttavia non ha peccato, Egli è in grado di soccorrere coloro che sono tentati {Ebrei 4: 15; Ebrei 2: 18}. Poiché ha imparato “l’ubbidienza dalle cose che soffrí” {Ebrei 5: 8}, può avere “compassione verso gli ignoranti e gli erranti” {Ebrei 5: 2}. Egli conosce per esperienza personale le tentazioni a cui sono soggetti gli uomini e la tremenda lotta che hanno con il peccato, e per questo può averne compassione. Poiché queste esperienze lo rendevano idoneo alla Sua opera, Dio Lo esaltò altamente e Lo chiamò “sommo sacerdote, secondo l’ordine di Melchisedek” {Ebrei 5: 10}. Gesù si è guadagnato il diritto di essere nostro intercessore. Ha soddisfatto le condizioni. E Dio approvò l’opera che aveva compiuto e Lo nominò sommo sacerdote.
Il nostro Sommo Sacerdote in Cielo
“E ancora, quando introduce il Primogenito nel mondo, dice: «E lo adorino tutti gli angeli di Dio»” {Ebrei 1: 6}. In cielo Cristo era adorato. Gli angeli si inchinavano già in adorazione davanti a Lui. Perché, allora, viene dato il comando agli angeli di adorarlo? Perché era così necessario ribadirlo? Cristo si era fatto uomo, aveva assunto l’umanità. Era appropriato adorarlo anche dopo una tale umiliazione? Anche da bambino nella mangiatoia era ancora Dio? Dio fornì una chiara risposta: “Lo adorino tutti gli angeli di Dio”.
Questa stessa domanda è sorta anche al tempo della risurrezione e dell’ascensione di Cristo. Cristo era morto. Quando è risorto dai morti, era Dio o uomo? Avrebbero potuto gli angeli adorarlo da quel momento in poi? L’uomo avrebbe potuto adorarlo? Quando Maria tentò di farlo, le fu prontamente detto: “Non toccarmi, perché non sono ancora salito al Padre mio” {Giovanni 20: 17}.
Il sacrificio di Cristo accettato
Perché Cristo rifiutò l’adorazione di Maria? E che significato aveva la Sua risposta: “non sono ancora salito al Padre mio”, sulla questione dell’adorazione? Siamo autorizzati a credere che Egli non desiderasse essere adorato finché non si fosse incontrato con Suo Padre? C’era ancora qualche questione da risolvere prima che Cristo si sentisse libero di ricevere adorazione? In ogni caso, Cristo rifiutò l’adorazione, e adduceva come ragione di non essere ancora asceso al Padre.
Dato il Suo rifiuto di ricevere l’adorazione la mattina del giorno della risurrezione, come si spiega il fatto che la sera dello stesso giorno “accostatesi, gli strinsero i piedi e lo adorarono”? {Matteo 28: 9}. Se Cristo non permise a Maria di adorarlo, adducendo come ragione che non era ancora asceso al Padre, perché la sera stessa ha permesso ad altri di adorarlo? L’unica conclusione possibile è che tra i due eventi Cristo ascese al Padre e ricevette da Dio qualche parola o assicurazione che giustificava la Sua adorazione.
Non è difficile trovare una ragione per giustificare il desiderio di Cristo di ascendere al Padre. Nel giardino del Getsemani e sulla croce, Cristo aveva sperimentato una terribile afflizione. Aveva preso il posto dell’uomo e aveva pagato la pena per la trasgressione dell’uomo. Doveva passare attraverso l’agonia dell’anima di chi è abbandonato da Dio e abbandonato dall’uomo. Cristo ha assaporato pienamente questa esperienza. Mentre le tenebre coprivano la terra, la disperazione riempiva il cuore del Figlio di Dio. In agonia gridò: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?” e “avendo di nuovo gridato con gran voce, rese lo spirito” {Matteo 27: 46, 50}.
Fu in circostanze come queste che Cristo morì. C’è da stupirsi che dopo la Sua risurrezione abbia voluto prima di tutto consultare il Padre? Era sopportando l’ira di Dio direttamente contro di Lui a causa dei peccati degli uomini di cui si era caricato. Il Suo sacrificio era stato accettato? Gesù voleva avere una certezza a proposito. Doveva ascoltare le parole del Padre stesso. Doveva assicurarsi non solo di essere ricevuto da Dio, ma anche che il Suo sacrificio fosse stato accettato. Fino a quando ciò non fosse stato accertato, Cristo non avrebbe accettato alcuna adorazione.
Gesù dunque ascese al Padre Suo, e ritornò nello stesso giorno. Egli udì dalla stessa bocca del Padre che il sacrificio era stato accettato, che aveva fatto ogni cosa bene. Quindi ricevette il potere, tornò sulla terra e accettò l’adorazione dei discepoli. Tutto questo è in completo accordo con il resoconto biblico.
Questo primo incontro del Padre con il Figlio dopo la risurrezione ha avuto la natura di un colloquio privato e solo quaranta giorni dopo ebbe luogo la cerimonia ufficiale. Quindi Cristo salì al cielo sotto gli occhi dei discepoli, portando con Sé una moltitudine di prigionieri che erano stati risuscitati al tempo in cui “i sepolcri si aprirono” alla morte di Cristo. In quel tempo “molti corpi dei santi, che dormivano, risuscitarono; e, usciti dai sepolcri dopo la risurrezione di Gesù, entrarono nella santa città e apparvero a molti” {Matteo 27: 52-53}. Questi sono gli stessi menzionati dall’apostolo, il quale dice che “essendo salito in alto, egli ha condotto prigioniera la prigionia e ha dato dei doni agli uomini” {Efesini 4: 8}. Questa occasione in cui Gesù apparve alla presenza di Dio con le primizie della terra doveva essere stata un’occasione gloriosa. Cristo tornò trionfante, portando con Sé i Suoi covoni.
“Tutto il cielo attende il Salvatore per dargli il benvenuto in cielo. Egli sale per primo, seguito dalla folla dei prigionieri liberati con la Sua risurrezione. L’esercito del cielo attende quel lieto corteo con grida, esclamazioni di gioia e canti. Mentre si avvicina alla città di Dio, la scorta degli angeli rivolge questo invito: “O porte, alzate i vostri capi; e voi, porte eterne, alzatevi; e il Re di gloria entrerà”. Liete le sentinelle rispondono: “Chi è questo Re di gloria?”. Non lo ignorano, ma vogliono ascoltare la risposta traboccante di lode: “È l’Eterno, forte e potente, l’Eterno potente in battaglia. O porte, alzate i vostri capi; alzatevi, o porte eterne, e il Re di gloria entrerà”. Gli angeli chiedono ancora una volta: “Chi è questo Re di gloria?”, perché non si stancano mai di udire la lode del Suo nome. Gli angeli di scorta ripetono: “È l’Eterno degli eserciti; Egli è il Re di gloria” {Salmo 24: 7-10}. Allora la porta della città di Dio si apre e le schiere angeliche entrano in mezzo a un’esplosione di armonie trionfanti. C’è il trono circondato dall’arco della promessa. Ci sono i cherubini e i serafini. Sono tutti riuniti: i capi delle schiere angeliche, i figli di Dio, i rappresentanti dei mondi non caduti. Il consiglio del cielo, di fronte al quale Satana aveva accusato Dio e Suo Figlio, i rappresentanti di quei regni incontaminati sui quali Satana aveva sperato di stabilire il Suo dominio, tutti acclamano il Redentore. Sono ansiosi di celebrare il suo trionfo e glorificare il loro Re. Gesù fa cenno di aspettare; non può ancora ricevere la corona della gloria e l’abito regale. Si avvicina al Padre, mostra il capo ferito, il fianco trafitto, i piedi forati, le mani che portano i segni dei chiodi. Presenta anche le prove del Suo trionfo, il covone delle primizie, coloro che sono risuscitati con Lui e che rappresentano la grande folla che uscirà dalla tomba al Suo ritorno. Si accosta al Padre, che si rallegra ed esulta ogni volta che un peccatore si ravvede. Prima della fondazione del mondo, il Padre e il Figlio avevano concepito un piano di salvezza per redimere l’uomo qualora fosse diventato vittima di Satana. Il Cristo sarebbe stato il Salvatore dell’umanità: Gesù aveva adempiuto il Suo impegno. Sulla croce, rivolgendosi al Padre aveva esclamato: “È compiuto!”. Il piano della salvezza era stato pienamente realizzato. Gesù ora può dichiarare: “Padre, tutto è compiuto! Io ho fatto la tua volontà, ho completato l’opera della redenzione”. Se la Tua giustizia ha ottenuto soddisfazione, “io voglio che dove son io, siano meco anche quelli che tu m’hai dati” {Giovanni 17: 24}. Allora la voce di Dio proclama che la giustizia ha ottenuto soddisfazione. Satana è stato vinto. Coloro che sulla terra si affaticano e lottano sono accettati “nell’amato suo” {Efesini 1: 6}. Essi vengono dichiarati giusti di fronte agli angeli e ai rappresentanti dei mondi non caduti. Dov’è il Cristo, là sarà anche la Sua chiesa. “La benignità e la verità si sono incontrate, la giustizia e la pace si sono baciate” {Salmo 85: 10}. Il Padre accoglie il Figlio, e viene dato l’ordine: “Tutti gli angeli di Dio l’adorino!” {Ebrei 1: 6}” (La Speranza dell’Uomo, p.833-834).
Questo fu il benvenuto ufficiale. Prima di ricevere la corona di gloria e la veste regale, Cristo doveva avere l’assicurazione dal Padre che non solo Lui, ma che l’umanità intera in Lui era stata accolta. Ed Egli ricevette questa certezza quando il Padre disse: “Lo adorino tutti gli angeli di Dio”.
Lo adorino tutti gli angeli di Dio
“Una volta arrivato nelle sedi celesti, Gesù fu posto sul trono e qui ricevette l’adorazione degli angeli. E quando questa cerimonia terminò, lo Spirito discese abbondantemente, e Cristo fu glorificato e ricevette gli stessi onori che aveva condiviso con il Padre sin dall’eternità. La discesa dello Spirito Santo nel giorno della Pentecoste era un segno dell’approvazione divina che aveva caratterizzato la consacrazione del Cristo come Redentore dell’umanità. Secondo la Sua promessa, Egli aveva mandato lo Spirito Santo sui Suoi discepoli. Egli aveva ricevuto tutta l’autorità che competeva al Suo ruolo di Re e di Sacerdote. Un’autorità che riguardava il cielo e la terra. Egli era il Messia che avrebbe diretto il Suo popolo” (Gli uomini che vinsero un impero, p.38-39).
In questo momento fu compiuta la consacrazione del Redentore, che fu ufficialmente insediato come Sacerdote e Re. Questo è il parallelo celeste con la consacrazione e dedicazione del sommo sacerdote sulla terra. Come sul capo di Aaronne fu posto il santo diadema d’oro puro, così Cristo fu incoronato re {Esodo 39: 30; Levitico 8: 9}. Come Aaronne fu inaugurato e posto nel santo ufficio, così Cristo fu “chiamato da Dio sommo sacerdote secondo l’ordine di Melchisedec” {Ebrei 5: 10}. Come Aaronne fu chiamato capo del sacerdozio regale, così Cristo fu incoronato Re e Sacerdote; come fu data autorità ad Aaronne, così fu data autorità a Cristo.
Cristo si siede
Fu in questa occasione che Cristo ufficialmente si sedette alla destra di Dio. Cristo, “si è posto a sedere alla destra del trono della Maestà nei cieli” {Ebrei 8: 1}. La parola greca usata qui per “sedere” non significa l’atto di sedersi, ma piuttosto l’atto di “prendere il Suo posto”. Cristo ha ripreso il Suo trono e la gloria che aveva avuto presso il Padre dall’eternità. M. R. Vincent, discutendo riguardo alla parola greca “sedere” nei suoi “Word Studies in the New Testament”, dice: “Il verbo denota un atto solenne e formale; l’assunzione di dignità e autorità. Fa riferimento all’ascensione di Cristo. Nel Suo elevato stato, Egli cercherà di risolvere completamente il problema peccato, essendo Lui il grande Sommo Sacerdote nel Santuario Celeste” (Volume 4, pag. 384-385). Lange, commentando questo testo, dice: “Questo sedersi di Cristo alla destra della Maestà, che deve continuare senza interruzione fino alla Sua seconda venuta, deve essere concepita, quindi, non come uno stato di riposo, o di mera sicurezza, come di qualcuno che è già salvo dai suoi nemici, ma di un’intensa attività messianica per il pieno compimento della redenzione”.
I posti a sedere dei delegati a un congresso illustrano bene il significato di questa parola. Un delegato può essere ufficialmente seduto, ma ciò non significa che rimanga immobile in tale postazione da seduto. Può camminare per il corridoio, può essere in piedi o sdraiato, può anche essere assente per un po’; eppure è “seduto” secondo il significato della parola. Lo stesso vale anche per Cristo.
Coloro che pensano a Cristo come semplicemente “seduto”, che continua a stare seduto, non riescono a comprendere completamente il significato della parola. La parola greca “ekathisen” indica un insediamento ufficiale in un determinato ruolo, un’investitura con autorità. Significa che Dio accoglie Cristo nella Sua nuova posizione ufficiale di Re e Sacerdote, e si rivolge a Lui come Sommo Sacerdote secondo l’ordine di Melchisedec {Ebrei 5: 10}. Questo è l’inizio del Suo ministero ufficiale, non la fine.
Ricordiamoci anche della consacrazione di Aaronne come sommo sacerdote: “Mosè prese quindi dell’olio dell’unzione e del sangue che era sopra l’altare e lo spruzzò su Aaronne, sulle sue vesti, sui suoi figli e sulle vesti dei suoi figli con lui; così consacrò Aaronne, le sue vesti, i suoi figli e le vesti dei figli con lui” {Levitico 8: 30}. A questo proposito armonizzate la seguente affermazione: “Sempre portando l’umanità, salì al cielo, trionfante e vittorioso. Portando il sangue dell’espiazione nel luogo Santissimo, lo asperse sul propiziatorio e sulle Sue stesse vesti, benedicendo il popolo. Presto apparirà la seconda volta per dichiarare che non c’è più sacrificio per il peccato” (Ellen G. White, Segni dei tempi, 19 aprile 1905).
Come le vesti di Aaronne furono asperse al momento della sua consacrazione nel santuario, così Cristo asperse le Sue stesse vesti e il propiziatorio. Dedicò Sé stesso e il Santuario all’opera della redenzione. Era stato ufficialmente insediato in questa carica. Si era seduto alla destra di Dio ed era stato investito di ogni potere. Il Suo sangue era stato versato ma non ancora disponibile. Il Suo primo atto ufficiale come Sommo Sacerdote fu quello di aspergere il sangue sulle proprie vesti e sul trono della misericordia, consacrando Sé stesso e il Santuario Celeste. Come Aronne, dopo essere stato asperso dal sangue, iniziò la sua opera nel primo appartamento del santuario {Levitico 9: 23}, così fece anche Gesù Cristo.
Da questo studio risulta chiaro che con l’ascensione di Cristo al cielo ebbe luogo un’inaugurazione. Il Padre pose il Suo sigillo di approvazione sull’opera di Cristo lo insediò come sommo sacerdote, facendolo sedere alla Sua destra. È evidente che “se egli fosse sulla terra, non sarebbe neppure sacerdote”, poiché non era della tribù di Levi, “ma ora Cristo ha ottenuto un ministero tanto più eccellente” ed è divenuto “sacerdote in eterno, secondo l’ordine di Melchisedek” {Ebrei 8: 4, 6; Ebrei 7: 21}. I sacerdoti furono ordinati da Dio “per offrire doni e sacrifici; per cui è necessario che anche costui abbia qualche cosa da offrire” {Ebrei 8: 3}. Ma, poiché non è possibile “che il sangue di tori e di capri tolga i peccati” {Ebrei 10: 4}, e poiché il proposito di Cristo è di “annullare il peccato mediante il sacrificio di sé stesso”, Egli “entrò una volta per sempre nel santuario, non con sangue di capri e di vitelli, ma col proprio sangue, avendo acquistato una redenzione eterna… nel cielo stesso per comparire ora davanti alla presenza di Dio per noi” {Ebrei 9: 26, 12, 24}. L’apostolo riassume così la questione: “Noi abbiamo un sommo sacerdote così grande, che si è posto a sedere alla destra del trono della Maestà nei cieli, ministro del santuario e del vero tabernacolo, che ha eretto il Signore e non un uomo” {Ebrei 8: 1-2}.
Ministero di Cristo
Il santuario celeste non è, come alcuni vorrebbero farci credere, oscuro, irreale o semplicemente un’immaginazione. Il santuario celeste non è “un’ombra”. È il tabernacolo costruito da Mosè ad essere “l’ombra delle cose celesti”. Nessuno potrà mai sostenere che né il primo santuario mosaico né il successivo tempio di Salomone fossero la struttura reale. Ma esse erano solo delle ombre, la cui realtà si trova in cielo. Il santuario celeste è il vero tempio, così reale che a Mosè gli fu dato come modello e gli fu detto: “«Guarda… di fare ogni cosa secondo il modello che ti è stato mostrato sul monte»” {Ebrei 8: 5}.
Non solo il santuario terreno era un’ombra del celeste, ma anche i suoi servizi ne erano un’ombra. Questo è vero anche per la purificazione del santuario, che era un’ombra della purificazione del santuario celeste. Abbiamo già notato che era “necessario” che il santuario terreno fosse “purificato” o “purificato con il sangue di animali”, ma che “le cose celesti stesse” dovevano essere purificate “con sacrifici più eccellenti di questi” {Ebrei 9: 22-23}. Questo ci fa capire chiaramente la necessità secondo la quale “le cose celesti” dovessero essere purificate con sacrifici migliori del sangue di vitelli e capri. L’unico sangue che può fare questo è il sangue di Gesù Cristo, nostro Signore. Per questo Cristo, in virtù del Suo stesso sangue, è entrato nei luoghi celesti, “per comparire ora davanti alla presenza di Dio per noi” {Ebrei 9: 24}:
Abbiamo anche notato che prima dell’inizio del servizio nel tabernacolo terreno, Mosè unse “la tenda di convegno e l’arca della testimonianza” {Esodo 30: 26}, così come gli altri componenti del santuario, e anche “prese quindi dell’olio dell’unzione e del sangue che era sopra l’altare e lo spruzzò su Aaronne, sulle sue vesti, sui suoi figli e sulle vesti dei suoi figli con lui” {Levitico 8: 30}. Allo stesso modo si dice di Cristo che “«Dio, il tuo Dio, ti ha unto con olio di letizia al di sopra dei tuoi compagni»” {Ebrei 1: 9}. Non solo Cristo è stato unto, ma Egli ha portato il sangue dell’espiazione nel “luogo santissimo” e lo ha asperso sul propiziatorio e sulle Sue stesse vesti. Come Cristo “offerse sé stesso”, così Cristo fu anche consacrato {Ebrei 9: 14}. Questa consacrazione di Sé stesso nel servizio del Santuario faceva parte dell’inaugurazione che gli permetteva di precedere all’adempimento del Suo ministero.
Veniamo ora alla considerazione dell’affermazione, secondo la quale “era dunque necessario che i modelli delle cose celesti fossero purificati con queste cose; ma le cose celesti stesse lo dovevano essere con sacrifici più eccellenti di questi” {Ebrei 9: 23}.
Questo si riferisce solo alle cerimonie di inaugurazione prima che Cristo iniziasse il Suo ministero ufficiale, come sostengono alcuni, o si riferisce anche alla purificazione annuale del santuario nel “Giorno dell’Espiazione”, o ad entrambe?
Abbiamo già notato che avvenne una purificazione in connessione alla consacrazione sia del santuario terrestre che di quello celeste. La domanda, quindi, riguarda proprio questo: vi era la necessità di una purificazione del santuario celeste corrispondente alla purificazione del santuario terreno nel “Giorno dell’Espiazione”, come riportato in {Levitico 16}?
Rispondiamo incondizionatamente in modo affermativo.
Notiamo anzitutto le affermazioni che si riferiscono a questo nel libro di Ebrei: “Era dunque necessario che i modelli delle cose celesti fossero purificati con queste cose; ma le cose celesti stesse lo dovevano essere con sacrifici più eccellenti di questi. Cristo infatti non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura delle cose vere, ma nel cielo stesso per comparire ora davanti alla presenza di Dio per noi, e non per offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra ogni anno nel santuario con sangue, non suo. Altrimenti egli avrebbe dovuto soffrire più volte dalla fondazione del mondo; ma ora, una sola volta, alla fine delle età, Cristo è stato manifestato per annullare il peccato mediante il sacrificio di sé stesso” {Ebrei 9: 23-26}.
L’argomento qui trattato è la purificazione delle “cose celesti stesse”. Com’era “necessaria” la purificazione delle cose terrene, così è necessaria anche la purificazione delle cose celesti. La purificazione terrena si svolgeva in questo modo: “il sommo sacerdote che entra ogni anno nel santuario con sangue, non suo” {Ebrei 9: 25}. Al contrario, Cristo non va “per offrire se stesso più volte… ma ora, una sola volta, alla fine delle età, Cristo è stato manifestato per annullare il peccato mediante il sacrificio di sé stesso” {Ebrei 9: 25-26}.
Il contrasto qui è tra il sommo sacerdote, che entra “ogni anno”, e Cristo, che entra “una sola volta”. L’unico servizio che veniva svolto “ogni anno” per la purificazione era il servizio nel “Giorno dell’Espiazione”. Questo, dunque, è ciò di cui parla l’epistola agli Ebrei. “I sacerdoti entravano continuamente nel primo tabernacolo, per compiere il servizio divino; ma nel secondo entrava soltanto il sommo sacerdote una volta all’anno, non senza sangue, che egli offriva per sé stesso, e per i peccati d’ignoranza del popolo” {Ebrei 9: 6-7}.
Sebbene fosse “necessario” che le cose celesti fossero purificate, tuttavia non era necessario che ciò si facesse ogni anno, come sulla terra. Cristo doveva farlo una sola volta, al termine della Sua opera nel primo compartimento del Santuario Celeste. Dopo il Suo ministero nel “luogo santo”, in armonia con il tipo sulla terra, sarebbe entrato nel “luogo santissimo” e lì avrebbe compiuto un’opera corrispondente a quella che faceva il sommo sacerdote sulla terra. A questo si riferisce l’angelo quando dice a Daniele: “Fino a duemilatrecento giorni; poi il santuario sarà purificato” {Daniele 8: 14}.
Le considerazioni rendono evidente, non solo che esiste un Santuario in cielo, ma che vi è anche un’opera in corso, di cui i servizi terreni erano un’ombra. Sebbene questi servizi fossero simili per molti aspetti, per altri non erano uguali. Il santuario terreno veniva purificato ogni anno, mentre quello celeste una sola volta. Nel santuario terreno si usava il sangue di tori, capre e vitelli; nei cieli bastava solo il sangue di Gesù. Il sacerdote sulla terra era un uomo peccatore che aveva bisogno di un’espiazione per sé stesso. In cielo, il nostro Sommo Sacerdote non ha bisogno di offrire l’espiazione prima per Sé e poi per il popolo. In terra, il sommo sacerdote entrava con il sangue di un animale morto. In cielo, Cristo è entrato in virtù del Suo stesso sangue, per una via nuova e vivente che ha consacrato per noi, “per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso” {Ebrei 9: 26; Ebrei 10: 19-20}.
Ogni sacrificio offerto era in realtà una preghiera a Dio per chiedere aiuto. Potrebbe essere, come nel caso delle offerte per il peccato e per la trasgressione, una preghiera di perdono. Oppure potrebbe essere una preghiera di ringraziamento e di lode, come per offerta di riconciliazione. Potrebbe anche essere una preghiera di consacrazione e dedizione, come per l’olocausto; o di comunione, come per l’oblazione. Potrebbe essere una preghiera di ringraziamento per una speciale liberazione o per una cosa tanto desiderata, come per il voto o l’offerta volontaria; oppure per il fatto che Dio avesse guarito da una malattia, o che una donna fosse stata preservata durante il parto. Tutte queste occasioni richiedevano uno speciale ringraziamento e lode, attraverso un’offerta adatta alla circostanza.
L’essenza massima della preghiera è la comunione.
Questo deve essere sottolineato, perché per molti cristiani la preghiera è semplicemente un mezzo attraverso il quale ottenere qualcosa da Dio. Sentono di avere alcune mancanze sotto certi aspetti… quale modo più semplice c’è che chiedere a Dio ciò di cui hanno bisogno? Non ha Dio promesso di sopperire alle nostre mancanze? Come conseguenza di questo modo di pensare, molte preghiere consistono principalmente nel chiedere cose, alcune buone, altre meno buone, alcune positivamente dannose, mentre altre impossibili da realizzarsi. Per tali persone Dio è la fonte di approvvigionamento, il grande donatore, la fonte inesauribile di cose buone. Tutto quello che devono fare è chiedere, e Dio farà il resto. Misurano il loro cristianesimo dalle risposte favorevoli che ricevono e non sono soddisfatti quando la loro richiesta viene respinta. Stanno continuamente chiedendo qualcosa e credono che Dio debba sempre esaudire le loro richieste. Alcuni pensano addirittura che sia mancanza di fede aggiungere alla loro preghiera: “Sia fatta la tua volontà” {Matteo 26: 42}; e come il figliol prodigo, pregano dicendo: “Padre, dammi…” {Luca 15: 12}.
Sia fatta la tua volontà
Non si può negare che le preghiere in cui si richiede qualcosa siano una forma legittima di preghiera. Dovremo sempre chiedere a Dio le cose che desideriamo. Ma è da sottolineare che questo tipo di preghiere non devono essere la forma prevalente di preghiera. Le preghiere di lode, ringraziamento e adorazione devono sempre avere la preminenza. La sottomissione alla volontà di Dio, la completa dedizione a Lui e la completa consacrazione indicano la forma che dovrebbero assumere le nostre preghiere. Quando le nostre preghiere sono mosse da uno sforzo per convincere Dio a fare ciò che vogliamo, in un intenso desiderio di scoprire ciò che Dio vuole, le nostre preghiere non assumeranno la forma di chiedere semplicemente delle cose, ma quella di esigere che Dio risponda immediatamente alle nostre preghiere e nel modo specifico che desideriamo.
Sarebbe davvero meglio per la maggior parte di noi smettere di chiedere cose per un po’ e concentrare tutti i nostri sforzi su ciò che Dio vuole che abbiamo o che siamo. Quando lo scopriremo, saremo su un terreno sicuro. Allora potremo chiedere a Dio, fiduciosi che la Sua volontà sarà fatta. Il grande problema che dobbiamo affrontare è scoprire la volontà di Dio, e quindi esaminare i nostri cuori per assicurarci che vogliamo fare per davvero la volontà di Dio.
Qualcuno dice che le preghiere sono una forzatura da parte del richiedente affinché Dio cambi idea. Molti non fanno alcuno sforzo per capire cosa Dio voglia veramente, anche se sono molto chiari su ciò che vogliono loro. Stanno lottando con Dio. Stanno agonizzando nella preghiera. Chiedono a Dio ciò che credono debba essere fatto. Non gli viene in mente che la prima cosa da scoprire sia: “Dio vuole davvero che io abbia la cosa che desidero tanto? È per il mio bene? È la volontà di Dio? È giunto il momento in cui debba essere fatto? C’è qualcos’altro che devo fare prima? Sono davvero disposto a sottomettere tutto a Dio, affinché se non mi dà ciò che desidero, sarò comunque soddisfatto e lo ringrazierò per ciò che mi dà; o sono più intento ad ottenere ciò che voglio io, trascurando di capire quale sia la volontà di Dio?”.
In questa direzione potrebbe aiutarci l’enumerazione di alcune cose che non sono “preghiera”. La preghiera non è un sostituto delle azioni. Un cristiano di fronte a un problema difficile ha il diritto di chiedere l’aiuto di Dio e di aspettarsi che Egli risponda. Ma questo non lo esonera dall’adempiere delle azioni per quanto dure e faticose possano essere. Dio rafforzerà l’intelletto, rinvigorirà la mente, ma Egli non accetterà la preghiera come un sostituto dello sforzo mentale né lo darà a coloro che sono semplicemente pigri. Coloro che sono in grado di imparare la tabellina e hanno l’opportunità di farlo, non devono evitare lo sforzo necessario per diventare esperti nei numeri, confidando che Dio, attraverso la preghiera, farà per loro ciò che renderà superfluo qualsiasi sforzo mentale. Nella maggior parte dei casi l’azione e la preghiera vanno di pari passo. Nessuno dei due è sufficiente di per sé.
Va sottolineato che lo scopo della preghiera non è quello di convincere Dio a fare ciò che vogliamo noi. Alcuni applicano metodi mondani e hanno una filosofia mondana nel loro approccio alla preghiera. Hanno imparato che per quanto riguarda il mondo, per impossessarsi di qualsiasi cosa devono “tenersela stretta”, e quindi danno per scontato che ottenere qualcosa da Dio, devono impossessarsene. Si comportano come se Dio non fosse disposto a esaudire le loro petizioni senza molte lusinghe, e sembrano credere che con la perseveranza e le lusinghe possano ottenere da Dio ciò che altrimenti non darebbe loro. Prendono come esempio la vedova insistente, sembrando però non rendersi conto che questa parabola è data per mostrare ciò che Dio non è. Nessuno può ottenere da Dio ciò che desidera semplicemente infastidindolo continuamente. Dio non è come il giudice ingiusto della parabola. È un Padre, più disposto a fare buoni doni ai Suoi figli di quanto essi non lo siano a riceverli. La lusinga insistente, l’irritazione e la mera perseveranza non giovano affatto a Dio.
Preghiera trionfante
Tuttavia, non deve prevalere l’impressione che non esista una lotta nella preghiera, o che basti menzionare a Dio una volta sola ciò che vogliamo e sarà ottenuto immediatamente. La preghiera non è così semplice. C’è bisogno di una preghiera perseverante e agonizzante; una preghiera che vada alle fondamenta delle cose, che non può essere soddisfatta finché la vita e le sue circostanze non sono cambiate. Gesù pregò tutta la notte; Giacobbe lottò tutta la notte con l’angelo; Daniele cercò il favore del Signore con preghiera e digiuno; Paolo implorò incessantemente il Signore. C’è bisogno di più preghiere, non di meno. E dobbiamo imparare a farlo con fede. Questo è un punto essenziale.
La preghiera non è un monologo. Può essere udibile, o può essere un desiderio inespresso dell’anima. In entrambi i casi la preghiera ideale è la comunione. Alcune persone sembrano considerare la preghiera semplicemente come un mezzo per informare Dio di certe cose che necessitano una correzione e di cui Dio sembra apparentemente non essere a conoscenza. Credono che Dio sia in pericolo di dimenticare certe cose e le loro preghiere diventano un mezzo per far ricordare a Dio cosa dovrebbe fare. Avendo richiamato l’attenzione di Dio sul loro bisogno, sentono di aver fatto il loro dovere. Hanno “detto le loro preghiere” e con un “Amen” la loro “conversazione” si interrompe. È stata tutto un monologo. Sperano che Dio usi giudiziosamente le informazioni che gli hanno trasmesso e che faccia qualcosa per risolvere le questioni per le quali hanno pregato.
Queste persone considerano la preghiera come una comunicazione a senso unico, l’uomo che parla a Dio. Eppure, questa non è definita essere una preghiera. Nella vera preghiera Dio parla all’anima così come l’anima a Dio. La vera amicizia non durerà a lungo quando è soltanto uno a parlare. Nelle nostre preghiere spesso lo facciamo e ci aspettiamo che Dio ascolti. Eppure, non è possibile che Dio voglia comunicare con noi così come noi con Lui? Egli ci parla spesso riportando alla nostra memoria alcune scritture. Pensate sia troppo credere che dopo aver offerto una fervida preghiera con fede, che Dio in cielo ascolti, e desideri darci una risposta? È possibile che dopo aver detto “Amen”, Dio sia pronto a comunicare con noi, ma noi ci alziamo dalle ginocchia e non diamo a Dio la possibilità di parlare? Chiudendogli il telefono in faccia, per così dire… ci separiamo da Lui. È possibile che il vero cristiano parli sempre a Dio e Dio non abbia alcun messaggio per lui? Deve essere molto doloroso per Dio quando Gli togliamo la possibilità di parlare proprio nel momento in cui Egli è pronto a comunicare con noi. E dopo che ciò è ormai accaduto molte volte, sembrerebbe che Dio giunga all’unica conclusione plausibile, secondo la quale noi non siamo veramente ansiosi di avere una comunione con Lui. Ci limitiamo a “dire” le nostre preghiere e, quando abbiamo finito, ce ne andiamo. Tali preghiere sicuramente non possono essere ciò che Dio intende per una vera “comunione”.
Ripetiamo, la preghiera è comunione. È più di una conversazione; è un’intima comunione. È uno scambio di opinioni e idee. Presuppone comprensione e fiducia. Non è necessario che la preghiera sia sempre accompagnata da parole. Il silenzio può essere più eloquente di molte parole. È piuttosto una sorta di amicizia fondata su una tranquilla confidenza e sicurezza, non accompagnata da dimostrazioni o manifestazioni spettacolari.
Meditazione
La meditazione è un ingrediente vitale della preghiera. Si può dire che sia la sua parte migliore. Eppure, è per lo più trascurata. Ci presentiamo davanti a Dio, presentiamo la nostra petizione e ce ne andiamo. La volta dopo facciamo la stessa cosa. Informiamo Dio riguardo al nostro stato, gli parliamo di quelle cose di cui Lui dovrebbe essere attento e, avendo così svuotato le nostre anime, terminiamo la comunicazione. Questo lo ripetiamo giorno dopo giorno. Non esiste nulla di migliore? Deve esserci!
I salmi, specialmente quelli di Davide, risuonano nel profondo del sentimento cristiano. Davide ha attraversato alcune esperienze strazianti. Una volta fuggì da Saul nel deserto. Lì scrisse il {Salmo 63}: il grido di un’anima che desidera ardentemente Dio e una conoscenza più profonda di Lui. Evidentemente Davide non era soddisfatto della sua vita di preghiera. Dio sembrava lontano, come se non rispondesse. A Davide sembrava di parlare al vento; eppure, desiderava Dio. La sua anima aveva sete del Dio vivente. In che modo poteva avere parte di una vera comunione con Lui?
Ecco che Davide trovò il modo; trovò soddisfazione. Imparò il vero significato e il metodo della preghiera. Di questo parla nel {Salmo 63: 5-6}: “L’anima mia sarà saziata come di midollo e di grasso, e la mia bocca ti loderà con labbra giubilanti. Mi ricordo di te sul mio letto, penso a te nelle veglie della notte”. Nota la frase: “L’anima mia sarà saziata… Mi ricordo di te sul mio letto, penso a te [o medito] nelle veglie della notte”. Davide aveva già pregato. Ora alla preghiera aggiunse la meditazione, e diceva che quando faceva questo la sua anima era soddisfatta. Per lui era come “midollo e grasso”, e lodava Dio “con labbra giubilanti”.
Questa registrazione è di grande valore. Molte persone, come Davide, invocano il Dio vivente, ma non sono soddisfatti. Credono che debba esserci qualcosa di migliore rispetto a ciò che stanno vivendo. Pregano, pregano e pregano, eppure Dio sembra lontano. Sembra non rivelarsi. Di tanto in tanto sembrano avere una Sua apparizione, ma poi sparisce. Esiste qualcosa di migliore in serbo o è tutto ciò che il cristianesimo e la preghiera possono offrirgli? Ci deve essere qualcosa di migliore e Davide l’ha sperimentato.
“L’anima mia sarà saziata”. Che meraviglia avere la fame dell’anima saziata! E questo può diventare una realtà! Davide ci mostra come possiamo sperimentarla quando dice che può essere ottenuta solo quando ci ricordiamo di Dio e pensiamo a Lui. La maggior parte dei cristiani ricorda Dio e prega. Infatti, si può dire che nessuno può essere un figlio di Dio senza preghiera. Ma molti di loro non sono pratici nell’arte della meditazione. Pregano ma non meditano. Eppure, l’uno è importante quanto l’altro. Solo quando Davide aggiunse la meditazione alla preghiera, poté finalmente dire che la sua anima era soddisfatta.
Pochi cristiani pensano a Dio. Sono troppo occupati. Sono dominati dalle loro attività quotidiane. Si precipitano da un lavoro all’altro e hanno così poco tempo per consigliarsi con la propria anima o con Dio. C’è così tanto da fare. Sono certi che, a meno che non affaticheranno ogni nervo e non saranno occupati in ogni momento, le loro anime saranno perse. Non hanno tempo di sedersi ai piedi del Maestro mentre il mondo sta perendo. Devono stare in piedi e lavorare. “Attività” è la loro parola d’ordine.
Il silenzio dell’anima
Eppure, quanto hanno da perdere sia loro stessi che il mondo a causa della mancanza di meditazione! Nessuno può precipitarsi con fretta alla presenza di Dio e sempre con fretta andarsene, e allo stesso tempo rallegrarsi della comunione con Lui. La pace che supera ogni comprensione non dimora in un cuore che non si prende del tempo per riposarsi. “Prenditi del tempo per essere santo” è più di un semplice sentimento. Ci vuole tempo per entrare in comunione con Dio, tempo per essere santi. “Tremate e non peccate; sui vostri letti ragionate in cuor vostro e tacete” {Salmo 4: 4, Nuova Diodati}. L’ultima affermazione ha bisogno di un’enfasi speciale. Siamo troppo irrequieti. Abbiamo bisogno di imparare ad essere calmi alla presenza Dio. Abbiamo bisogno di tacere.
“Anima mia, acquetati in Dio solo; Perciocchè la mia speranza pende da lui” {Salmo 62: 5, Diodati}. Questo è rivolto a ogni cristiano. Aspetta in silenzio Dio. Questo è sia un comando che una promessa. Aspetta in silenzio. Aspetta in silenzio Dio solo. E chi attende in silenzio Dio, quando Egli risponderà, non resterà deluso. Sarà saziato.
Quale meraviglioso invito vi è in questa affermazione. Hai pregato, hai aperto la tua anima solo a Colui che può comprenderti. Non dire “Amen” per poi andartene via. Dai a Dio un’opportunità. Aspettalo. Aspetta in silenzio. Aspetta solo Lui. E nel silenzio dell’anima Dio ti parlerà. Ti invita ad aspettare. Permetti alla tua anima di essere completamente concentrata su di Lui e aspettalo. Può darsi che Dio, attraverso una voce debole e sommessa, si faccia conoscere {1 Re 19: 11-13}. Attendi Dio in silenzio.
Per alcuni cristiani questa non è una nuova dottrina. Sanno cosa significa entrare in comunione con Dio. Hanno trascorso momenti preziosi da soli con Lui. Hanno imparato ad aspettare in silenzio. E preziose sono state le rivelazioni che hanno ricevuto.
Per altri, tuttavia, questa potrebbe essere una nuova esperienza. Hanno imparato a pregare, ma non hanno imparato ad aspettare in silenzio Dio. La meditazione, come parte della preghiera, non è stata considerata con importanza da loro. Hanno concepito la preghiera solo come una forma di parole rivolte al Padre che è nei cieli e con il loro “Amen” la comunione finiva. Ma per Dio questa non è comunione. “Amen” può essere la parola conclusiva del discorso dell’uomo, ma non dovrebbe essere la fine della conversazione. Dio ci invita ad aspettare in silenzio. Perché Egli potrebbe volerci parlare, oppure no. Ma in ogni caso dobbiamo aspettare.
Molti sono inclini a parlare troppo. Tutti abbiamo avuto delle esperienze con persone che vengono apparentemente per chiedere consiglio, ma che in realtà vengono solo per presentare le proprie opinioni. Sembrano ansiose di iniziare un dialogo, tuttavia, non danno alcuna opportunità affinché gli si possa rivolgere un consiglio, poiché loro occupano tutto il tempo e sembrano soddisfatte dopo aver presentato la loro storia. E quando viene espressa una certa misura di accordo con il loro punto di vista, sono contente. È evidente che esse non siano venute per un consiglio ma solamente per impartire delle informazioni.
Così, troppo spesso, è anche con la preghiera. La parte più importante non è il nostro parlare a Dio, ma è la risposta da parte di Dio. È vero, Dio ama che noi preghiamo. Le nostre preghiere sono come una musica che non stanca mai Dio. Eppure, non sarebbe bene dare a Dio l’opportunità di comunicare con noi? Non sarebbe bene per noi fare esattamente ciò che ci è stato consigliato di fare: aspettare Dio in silenzio? Sicuramente, Dio non ci farà aspettare invano. Sarebbe bene per noi esplorare la potenza del regno del silenzio. Dio si trova lì.
Estremismi
C’è sempre il pericolo di andare agli estremi. Vi sono quelli che rifiutano o prendono con leggerezza le istruzioni date nella Bibbia e dipendono quasi interamente dalle emozioni. Queste persone sono in grave pericolo. Dio guiderà solo coloro che sono disposti a farsi guidare; e crediamo anche che tale guida sarà sempre in armonia con la volontà di Dio rivelata nelle Scritture e non contraddirà in alcun modo la Parola scritta. Per quanto meraviglioso sia il privilegio della comunione con Dio, e per quanto meraviglioso sia il privilegio della meditazione, vi è il pericolo che siano usati impropriamente. Soprattutto i cristiani più giovani dovrebbero stare in guardia. Solo una lunga esperienza nelle cose di Dio, sostenuta da una vita di obbedienza alla volontà di Dio, permette di riconoscere la voce di Dio nella mente. Ma anche Satana è sempre pronto a suggerirci i suoi pensieri, per questo è necessario discernimento spirituale per conoscere la voce di chi parla. Questo, tuttavia, non dovrebbe indurre nemmeno i giovani cristiani a trascurare la meditazione. Dio è sempre vicino per aiutarci e guidarci, e possiamo credere che quell’ora tranquilla trascorsa con Dio produrrà grandi risultati per il regno. Stiamo solo lanciando un avvertimento a coloro che preferiscono essere guidati da una voce qualsiasi che parla all’anima, trascurando quella voce che parla attraverso la Parola scritta.
Nel santuario si combinavano sacrificio e preghiera. Il sacrificio rappresentava il pentimento, la confessione e la consacrazione. Quando l’agnello veniva posto sull’altare, il peccatore pentito deponeva simbolicamente sé stesso sull’altare. Riconosceva la giustizia della legge che richiedeva una vita per il suo peccato; e ora si consacrava a Dio. Senza questa attitudine il sacrificio di un agnello era inutile. Quindi anche le nostre preghiere potrebbero diventare inutili, a meno che, con cuore sincero, non ci asteniamo dal peccato e ci dedichiamo interamente a Dio. La preghiera deve avere come fondamento la sincerità di cuore. Deve essere fondata sul pentimento e su un santo dolore per il peccato, che deve essere attestato dalla confessione. Una preghiera di questo genere non rimarrà mai senza risposta. Dio mantiene sempre la Sua Parola.
Tutti i servizi del santuario venivano svolti in riferimento alla legge di Dio, custodita nell’arca del patto, nel “luogo Santissimo” del tabernacolo. Quando veniva trasgredita questa legge, dovevano essere portati sacrifici.
“Se uno commette peccato per ignoranza contro qualsiasi comandamento, facendo qualcosa che non dovrebbe fare, se pecca il sacerdote che è stato unto, rendendo così il popolo colpevole, offra all’Eterno per il peccato commesso un torello senza difetto, come sacrificio per il peccato” {Levitico 4: 2-3}.
Era la trasgressione “dei comandamenti del Signore” che metteva in moto l’intero rituale del tempio. Il sacrificio della mattina e della sera, i servizi nel “giorno dell’Espiazione”, l’offerta dell’incenso e dei sacrifici era svolto a causa dei peccati personali commessi. Perché “il peccato è violazione della legge” {1 Giovanni 3: 4}.
Giovanni, il discepolo amato, ebbe una visione del santuario celeste di Dio. In esso vide la legge di Dio, “nell’arca del suo patto” {Apocalisse 11: 19}. Poiché la legge era centrale nel santuario terreno, essa è centrale anche in quello celeste. Per questo motivo il santuario che sta in cielo è chiamato “il tempio del tabernacolo, della testimonianza”; e non il tempio “dell’incenso”, o “del sangue”, e neppure “del propiziatorio”, ma “del tabernacolo, della testimonianza”, depositario della legge di Dio {Apocalisse 15: 5}.
La città più sacra ai tempi dell’Antico Testamento era la città in cui Dio aveva scelto di stabilirsi. Il luogo più sacro di quella città era il tempio.
Il luogo più sacro del tempio era il “luogo Santissimo”. L’oggetto più sacro nel “luogo Santissimo” era l’arca, all’interno della quale erano conservate le tavole di pietra su cui Dio aveva scritto i dieci comandamenti, la legge della vita, gli oracoli di Dio. Questa legge era il centro attorno alla quale ruotava l’intero servizio, la base e la ragione di ogni rituale. Senza la legge i servizi del tempio erano privi di significato.
La legge è un’espressione del carattere, una rivelazione della mente. Per questo la legge di Dio è importante. È, per così dire, una parte di Dio che Lo rende conosciuto. È una trascrizione del Suo carattere, un’espressione finita dell’infinito. In essa ci viene dato un barlume della mente di Dio; un quadro di ciò che costituisce il fondamento del Suo governo. Come Dio è perfetto, così anche la Sua legge è perfetta. Come Dio è eterno, così anche i principi dei dieci comandamenti sono eterni. Come Dio è immutabile, così anche la Sua legge è immutabile. Le cose devono essere necessariamente così. La legge, essendo una trascrizione del carattere di Dio, non può essere cambiata a meno che non avvenga in Dio un corrispondente cambiamento. Ma Dio non cambia. “Io sono l’Eterno, non muto” {Malachia 3: 6}. In Dio “non vi è mutamento né ombra di rivolgimento” {Giacomo 1: 17}. Egli “è lo stesso ieri, oggi e in eterno” {Ebrei 13: 8}.
I dieci comandamenti
La legge di Dio contenuta nei dieci comandamenti è sempre stata un fruttuoso campo di studio per i figli di Dio. Numerosi sono i riferimenti nella Bibbia alla gioia che i santi di Dio hanno trovato nell’esaminare la perfetta legge della libertà. Lungi dal ritenerla opprimente, hanno considerato un piacere contemplare le cose profonde di Dio. Ascolta il salmista: “Io amo i tuoi comandamenti più dell’oro… I tuoi precetti sono meravigliosi, perciò l’anima mia li osserva… I tuoi comandamenti mi rendono più saggio dei miei nemici, perché sono sempre con me. Ho maggior intendimento di tutti i miei maestri, perché i tuoi comandamenti sono la mia meditazione… Ho visto il limite di ogni cosa perfetta, ma il tuo comandamento non ha alcun limite” {Salmo 119: 127, 129, 98-99, 96}.
I dieci comandamenti furono prima proclamati da Dio, a parole, sul monte Sinai, dopodiché furono scritti su due tavole di pietra {Esodo 20; Esodo 24: 12; Esodo 31: 18}. Queste tavole furono poste nell’arca, che si trovava nel “luogo Santissimo” del santuario, direttamente sotto il propiziatorio e coperte da esso {Esodo 25: 16, 21}. Le parole in esse contenute, come riportato nella Versione del Re Giacomo (KJV) della Bibbia inglese, sono le seguenti:
“Io sono l’Eterno, il tuo DIO, che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla casa di schiavitù”.
[1] “Non avrai altri dei davanti a me”.
[2] “Non ti farai scultura alcuna né immagine alcuna delle cose che sono lassù nei cieli o quaggiù sulla terra o nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non le servirai, perché io, l’Eterno, il tuo DIO, sono un Dio geloso che punisce l’iniquità dei padri sui figli fino alla terza e alla quarta generazione di quelli che mi odiano e uso benignità a migliaia, a quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti”.
[3] “Non userai il nome dell’Eterno, il tuo DIO, invano, perché l’Eterno non lascerà impunito chi usa il suo nome invano”.
[4] “Ricordati del giorno di sabato per santificarlo. Lavorerai sei giorni e in essi farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è sabato, sacro all’Eterno, il tuo DIO; non farai in esso alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo servo, né la tua serva, né il tuo bestiame, né il forestiero che è dentro alle tue porte; poiché in sei giorni l’Eterno fece i cieli e la terra, il mare e tutto ciò che è in essi, e il settimo giorno si riposò; perciò l’Eterno ha benedetto il giorno di sabato e l’ha santificato”.
[5] “Onorerai tuo padre e tua madre, affinché i tuoi giorni siano lunghi sulla terra che l’Eterno, il tuo DIO ti dà”.
[6] “Non ucciderai”.
[7] “Non commetterai adulterio”.
[8] “Non ruberai”.
[9] “Non farai falsa testimonianza contro il tuo prossimo”.
[10] “Non desidererai la casa del tuo prossimo; non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo servo, né la sua serva, né il suo bue, né il suo asino, né cosa alcuna che sia del tuo prossimo” {Esodo 20: 2-17}.
Questi dieci comandamenti non sono decreti arbitrari imposti da un Dio tiranno a sudditi riluttanti. Sono la legge della vita, senza la quale l’esistenza nazionale, la sicurezza personale, la libertà umana e persino la civiltà sono impossibili. Questo concetto diventerà sempre più chiaro man mano che andremo avanti nel nostro studio.
I comandamenti sono divisi in due sezioni: la prima sezione, i primi quattro comandamenti, che definiscono il dovere dell’uomo verso Dio, e l’altra sezione, gli ultimi sei comandamenti, che definiscono il dovere dell’uomo verso i suoi simili.
Cristo ha riconosciuto questa duplice divisione quando ha affermato che i due grandi principi della legge sono l’amore per Dio e l’amore per l’uomo. “«Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima tua e con tutta la tua mente». Questo è il primo e il gran comandamento. E il secondo, simile a questo, è: «ama il tuo prossimo come te stesso». Da questi due comandamenti dipendono tutta la legge e i profeti” {Matteo 22: 37-40}.
Quando Dio ha proclamato la Sua legge sul monte Sinai è stato il momento in cui ha stipulato un’alleanza con Israele. Dio aveva scelto Israele come Suo popolo. Li aveva fatti uscire dall’Egitto e stava per portarli nella terra promessa. Aveva promesso di benedirli e di farne una nazione santa, un sacerdozio regale. Queste promesse, tuttavia, erano condizionate dalla loro accettazione e cooperazione. Dio aveva promesso di fare molto per loro. Ma dalla loro parte avrebbero amato e obbedito a Dio? Avrebbero osservato fedelmente le disposizioni del patto? Prima di questo momento conoscevano già, in modo generale, la legge di Dio. Ma ora Dio la annunciava loro dal cielo, quindi non ci potevano più essere dubbi riguardo a ciò che Dio si aspettava da loro. La santità non doveva essere lasciata a interpretazioni personale. Dio diede loro uno standard di giustizia, uno standard perfetto. “La legge è certamente santa, e il comandamento santo, giusto e buono” {Romani 7: 12}.
È un’espressione della volontà di Dio per l’uomo. È la regola perfetta di Dio, che racchiude tutto il dovere dell’uomo in ogni situazione possibile. “Ascoltiamo dunque la conclusione di tutto il discorso: «Temi DIO e osserva i suoi comandamenti, perché questo è il tutto dell’uomo»” {Ecclesiaste 12: 13}.
Una legge fondamentale
È sconcertante scoprire che alcuni cristiani si oppongono alla legge di Dio. Quale possibile obiezione possono avere nei confronti di una legge che instilla amore per Dio e per uomo, che disapprova il male e incoraggia il bene? Quale possibile obiezione possono avere contro una legge il cui autore è Jehovah, il cui fine è la santità? Ci si potrebbe aspettare che i peccatori si oppongano; poiché espone e condanna il peccato. Ma i cristiani dovrebbero essere ad un livello superiore. Dovrebbero ripetere insieme al salmista: “Oh, quanto amo la tua legge! Essa è la mia meditazione per tutto il giorno” {Salmo 119: 97}.
Come la legge di uno stato è il fondamento del governo, così la legge di Dio è il fondamento del governo divino. Dieci affermazioni, brevi e chiare, proclamano l’intero dovere dell’uomo. In quanto legge fondamentale di Dio, che definisce il dovere dell’uomo verso Dio e verso il prossimo, essa è completa, concisa, perfetta. Nulla può essere aggiunto o tolto da essa.
Essa è un emblema di sicurezza, stabilità, fedeltà, uniformità, uguaglianza. Senza la legge ci si trova in un caos, con tutti i mali che ne conseguono. Il mondo è costruito sulla legge; l’universo gli obbedisce. Distruggere la legge universale significherebbe annientare la creazione di Dio. Ogni parte della creazione è in relazione l’una con l’altra, e ciò che accade in un luogo risuona fino all’altra estremità dell’universo. Ciò rende necessaria una legge universale. Una legge in grado di controllare e guidare la creazione, sempre e ovunque. Due leggi contrastanti porterebbero al disastro.
La legge di Dio è la legge morale fondamentale dell’universo, incarnata dall’eternità nei due grandi principi dell’amore: l’uno per Dio e l’altro per l’uomo. Questi principi furono amplificati e adeguati alla condizione dell’uomo, quando essi furono proclamati da Dio stesso sul monte Sinai nei Dieci Comandamenti. Essi costituiscono la legge fondamentale della vita e dell’esistenza. Come detto precedentemente, non sono delle richieste arbitrarie, imposte solo per motivi di autorità, ma rappresentano ciò che Dio è. Il mondo ha dimostrato che l’obbedienza alla legge di Dio è necessaria all’esistenza, alla sicurezza, alla vita. Le recenti guerre mondiali ne sono una dimostrazione. Gli uomini stanno imparando che non c’è profitto nell’uccidersi e distruggersi a vicenda. Si stanno convincendo che non solo la sicurezza nazionale ma la prosperità mondiale dipendono dalla nostra adesione alla regola d’oro. La legge di Dio non solo è un ingrediente vitale nella religione, ma è necessaria all’esistenza stessa.
Questa lezione si sta imprimendo sempre di più nella coscienza degli uomini mentre tentano di far fronte alle condizioni sociali di oggi. Il crimine è dilagante, aggressivo, provocatorio. Sebbene il peccato e la malvagità siano esistiti dalla caduta, non sono mai stati così praticati come lo sono ora. La criminalità e l’illegalità sono così ben sviluppate che spesso i criminali sono meglio armati e organizzati delle forze dell’ordine. I governi stanno facendo ogni sforzo possibile per sradicare il male, ma non lo trovano affatto un compito facile. Il tentativo dei governi di limitare il male, di sradicare il vizio, di fermare il racket, di sostenere la sacralità delle relazioni familiari, di imporre l’onestà nelle pubbliche relazioni e di proteggere la proprietà privata è un’ammissione da parte loro che Dio ha ragione, che gli uomini non dovrebbero mentire, rubare o commettere adulterio. La trasgressione di questi comandamenti porta a disastri e disgrazie; ecco perché il governo è giustificato nell’applicare misure severe per migliorare le condizioni e salvare la società.
Il movimento per eliminare il crimine costituisce una potente testimonianza dell’integrità e del valore duraturo dei comandamenti di Dio. Uomini e governi stanno imparando che il crimine non paga, che è costoso e che rovina e distrugge tutto ciò che tocca. Questa è la lezione che Dio vuole che gli uomini imparino. Stanno scoprendo a loro spese il valore dell’obbedienza alla legge di Dio. Mai prima d’ora il mondo ha avuto una lezione così oggettiva sul terribile costo del crimine e della trasgressione. Una cosa interessante è che proprio chi commette tali cose, è chiamato anche a pagarne il costo.
La legge della natura
La legge è un’espressione della volontà, della natura e del carattere del potere che governa. Qualsiasi legge che non rispecchi tale espressione cessa presto di funzionare e diventa obsoleta. Le leggi umane sono generalmente il risultato dell’esperienza, ma può anche essere motivato dal desiderio di imporre ai sudditi la volontà di un superiore. In entrambi i casi, la legge ha come fattore fondamentale la volontà del governo, ed è espressione della volontà, della natura e del carattere del legislatore. La legge, quindi, deriva dalla personalità del legislatore, definendola e rivelandola.
L’espressione “legge della natura”, come normalmente impiegata, è fuorviante e dovrebbe essere usata solo in un senso accomodato. In senso proprio, non esiste una legge della natura in quanto tale; perché la natura non ha volontà o pensiero propri. Ciò che generalmente si intende per legge della natura è il processo ordinato e osservabile in natura, generalmente prevedibile. Il cristiano crede che le cosiddette leggi della natura siano leggi stabilite da Dio, espressione della Sua personale volontà, e non attribuiscono alla natura questi attributi, ma a Dio.
La legge di Dio è una trascrizione della natura divina, e come tale non è “fatta” come sono fatte le leggi umane, poiché Dio non è una creazione. Non si può dire che la legge abbia avuto un inizio, poiché Dio non ha avuto un inizio. La legge, essendo una rivelazione di ciò che Egli è, coesiste insieme a Dio. Non può essere cambiata, così come neanche Dio cambia. Essa non è temporanea, come Dio non è temporaneo. Non è un’espressione di volontà arbitraria, ma una rivelazione dell’Essere divino. Non è valida solo per determinate circostanze locali o specifiche, poiché Dio non è locale, [ma universale]. Essa è immutabile, santa e buona, perché Dio è immutabile, santo e buono. Essa è spirituale, giusta e universale. La legge deve essere tutto questo e lo è, essendo una perfetta trascrizione della natura essenziale di Dio.
Una legge non scritta
Alla loro creazione Adamo ed Eva avevano una conoscenza intuitiva di Dio e della Sua volontà. Come durante la conversione nell’uomo nuovo dopo essere “creato secondo Dio nella giustizia e santità della verità” {Efesini 4: 24}, così Dio nel principio creò le Sue creature nella giustizia e nella vera santità. Essendo creati ad immagine di Dio, possedevano caratteristiche che influenzavano molto la loro condotta e conducevano la loro vita secondo l’ideale di Dio. Questo è il significato evidente di Paolo nel testo citato, e lo conferma ulteriormente affermando che l’uomo nuovo “che si va rinnovando nella conoscenza ad immagine di colui che l’ha creato” {Colossesi 3: 10}. Mettendo insieme le due affermazioni, siamo autorizzati a concludere che l’uomo all’origine aveva una conoscenza intuitiva di Dio e possedeva una giustizia e una vera santità, e queste caratteristiche erano racchiuse nel concetto di “a immagine di Dio”.
Non siamo informati sull’esatta portata della conoscenza di Adamo al momento della creazione, ma il fatto che, durante il primo giorno della sua vita, fu in grado dare un nome corretto agli animali che gli passavano davanti è semplice intuire che avesse una conoscenza molto più profonda di quella che possiede l’uomo oggi. Va notato che, Adamo essendo creato a immagine di Dio”, “secondo Dio nella giustizia e santità della verità”, gli furono affidati doni che avevano bisogno di essere accettati consapevolmente da parte sua prima che diventassero assolutamente suoi, per questo motivo al tempo debito egli sarebbe dovuto essere testato.
Siccome Dio è amore, e poiché Adamo fu creato a immagine di Dio, il principio guida impresso nelle Sue creature sarebbe stato l’amore. Quando Adamo ed Eva si incontrarono per la prima volta, non c’era bisogno di dire ad Adamo che non doveva fare del male a Eva; né che Eva non avrebbe dovuto avere paura di Adamo. L’amore che Dio aveva impiantato nei loro cuori risolveva già tali problemi. L’amore non fa male al prossimo e l’amore perfetto scaccia via la paura. Non era uno sforzo per Adamo ed Eva amarsi. Era il risultato naturale della loro creazione a immagine di Dio.
L’amore che fu impresso in questo modo nei loro cuori li avrebbe portati ad amare Dio e il prossimo. Non essendoci paura nell’amore, si avvicinavano con fiducia a Dio, e man mano che la loro conoscenza di Lui aumentava, cresceva anche il loro amore. L’uomo non aveva bisogno di imparare cosa fosse questo amore. Era già suo in virtù dell’essere stato creato ad immagine di Dio, e costituiva un fondamento sicuro su cui Dio poteva edificare la felicità dell’uomo e su cui poteva edificare tutta la legge e i profeti.
L’avvento del peccato offuscò la concezione dell’uomo riguardo a Dio e alterò la sua relazione nei confronti dei suoi simili. Nonostante questo la conoscenza di Dio e della responsabilità dell’uomo rispetto ai suoi simili non è mai stata del tutto cancellata dalla sua coscienza. Ciò è evidentemente confermato dalle nazioni civili, dove le leggi per la protezione della vita e della proprietà hanno un’indubbia somiglianza alla legge di Dio nei confronti del prossimo. L’universalità di questo concetto conferma la tesi secondo cui nel profondo della coscienza dell’uomo è impressa una conoscenza del bene e del male, e sebbene questa conoscenza sia in molti casi notevolmente limitata e imperfetta, tuttavia rimane un residuo sufficiente per stabilire una responsabilità morale, di cui gli uomini possono essere ritenuti responsabili.
Proprio questo Paolo argomenta nei primi capitoli di Romani, dove dice che “i gentili, che non hanno la legge [in forma scritta], fanno per natura le cose della legge” {Romani 2: 14}. L’argomentazione di Paolo si basa sul fatto che c’è qualcosa nell’uomo, per quanto degradato, che corrisponde e approva la legge di Dio, e che sebbene questa conoscenza sia incompleta, tuttavia ne è rimasta abbastanza affinché “i loro pensieri si scusano o anche si accusano a vicenda”. Questo dimostra “che l’opera della legge è scritta nei loro cuori per la testimonianza che rende la loro coscienza” {Romani 2: 15}. Paolo, infatti, non dice che i pagani hanno la legge scritta nei cuori, ma che ciò che vi è scritto è “l’opera della legge”. Anche questo non dovrebbe essere inteso nel senso che tutti hanno scritto nel cuore tutta la legge, ma che c’è abbastanza nel cuore di ogni uomo per renderlo moralmente responsabile; e a ciò si deve aggiungere l’ulteriore fatto della sua coscienza che anch’essa gli testimonia.
In questa argomentazione Paolo ripudia completamente l’assunto della teoria dell’evoluzione secondo cui l’uomo discende da animale primordiale. Al contrario, sostiene che tutti gli uomini hanno “per natura” una conoscenza delle “opere della legge scritte nei loro cuori”. È evidente quindi che qualche forma di moralità nell’anima li scusa o li accusa a vicenda, recandogli una testimonianza attraverso la coscienza, e per questo motivo, pur “non avendo legge, sono legge a sé stessi” {Romani 2: 14}. Tale testimonianza che viene da dentro, come quella qui presentata da Paolo, può avere origine solo in Dio. Quando Paolo afferma che gli uomini “fanno per natura le cose della legge” {Romani 2: 14}, sta ignorando tutte le abitudini acquisite in questa vita e vuole tornare a quella natura dell’uomo originariamente creata da Dio.
La conoscenza intuitiva che tutti gli uomini hanno del bene e del male, anche se in gradi molto diversi, costituisce la loro responsabilità morale, ed è la misura usata nel giudizio. Quindi, “tutti quelli che hanno peccato senza la legge, periranno pure senza la legge; e tutti quelli che hanno peccato sotto la legge, saranno giudicati secondo la legge” {Roman 2: 12}.
Ciò afferma che è possibile per gli uomini peccare senza legge, cioè senza una conoscenza della legge scritta di Dio. In che cosa consiste dunque il loro peccato? “Essi, non avendo legge, sono legge a sé stessi” {Romani 2: 14}. La conoscenza che hanno, per quanto imperfetta sia, è il criterio che determina la loro colpa “nel giorno in cui Dio giudicherà i segreti degli uomini per mezzo di Gesù Cristo, secondo il mio evangelo” {Romani 2: 16}. Se si sostiene che la Scrittura non dica che queste persone debbano essere giudicati senza legge, rispondiamo che la ragione per cui muoiono è che hanno peccato; ed eseguire il loro giudizio, senza prima giudicarli, sarebbe qualcosa di estraneo al carattere di Dio. Il fatto che si scopra che essi hanno peccato presuppone un’indagine e un giudizio. Essi “sono legge a sé stessi” e per questo motivo sono giudicati.
Se si ammette che gli uomini sono costituiti in modo tale che “per natura” hanno un senso di obbligo morale indipendente da qualsiasi rivelazione esterna, ci si può chiedere se questo senso di obbligo riguardi solo la seconda tavola della legge. Ammettere che esiste un rapporto tra l’uomo e i suoi simili non si estenderà anche alla prima tavola, al rapporto tra l’uomo e Dio? Perciò sorge la domanda: gli uomini potrebbero raggiungere una conoscenza di Dio senza alcuna rivelazione scritta?
È proprio questa domanda che tratta Paolo nel primo capitolo di Romani. Egli afferma senza esitazione che Dio si è rivelato nella natura; “infatti le sue qualità invisibili, la sua eterna potenza e divinità, essendo evidenti per mezzo delle sue opere fin dalla creazione del mondo, si vedono chiaramente, affinché siano inescusabili” {Romani 1: 20}. Anche il salmista afferma: “I cieli raccontano la gloria di Dio e il firmamento dichiara l’Opera delle sue mani” {Salmo 19: 1}. Ma Paolo completa questo pensiero dicendo che “Dio lo ha loro manifestato” e “ciò che si può conoscere di Dio è manifesto in loro” {Romani 1: 19}. Questa formulazione suggerisce che Dio non si è semplicemente rivelato nelle cose che ha fatto affinché gli uomini potessero studiarle se si fossero sentiti inclini a farlo oppure no, ma in qualche modo Dio è entrato nella vita degli uomini e “lo ha loro manifestato”, “affinché siano inescusabili [senza scuse]” {Romani 1: 20}.
Sebbene questa argomentazione lasci gli uomini senza scuse, non deve essere portata fino al punto di dire che la rivelazione scritta sia superflua. Dimostra semplicemente che gli uomini possono e devono trovare Dio contemplando le cose che Egli ha fatto, ma bisogna anche ammettere che essa non è una rivelazione perfetta o completa. Per quanto riguarda il decalogo, vi è una notevole eccezione sulla quale vorremmo richiamare l’attenzione. Questa si trova nel quarto comandamento.
Nella natura non si trova da nessuna parte alcun tipo di indicazione riguardo ad un settimo giorno definito come giorno di riposo per l’uomo o per Dio. Nessuna ricerca scientifica può rivelare l’esistenza di uno specifico giorno di riposo. Questa è una questione che troviamo solo nella rivelazione scritta di Dio. Con ciò non si vuole negare che esistano in natura delle indicazioni sul riposo, o che l’organismo umano non abbia bisogno di un riposo settimanale oltre a quello ottenuto nel sonno. Al contrario, riteniamo che uno studio delle funzioni del corpo riveli la necessità di tale riposo, e che per natura gli uomini sono inclini a cercare tale riposo. Dubitiamo, tuttavia, che gli uomini possano giungere alla conclusione che ogni settimo giorno debba essere messo da parte per il riposo, invece che ogni quinto o ogni decimo giorno. Ma anche se dovessimo ammettere tale possibilità, siamo assolutamente certi che nessun ragionamento o ricerca potrebbe mai rivelare l’identità del vero settimo giorno. Questa è una questione che ha a che fare unicamente con la rivelazione scritta. Il comandamento del sabato, quindi, viene sicuramente posto insieme agli altri nove come un comandamento spiccatamente morale, che tutti dovrebbero ritenere necessario per la coscienza umana. Noi sosteniamo con Paolo che per natura gli uomini hanno una certa conoscenza dei precetti che costituiscono la seconda tavola della legge, e siamo anche d’accordo con lui che Dio si è rivelato attraverso la natura affinché, studiando le cose create, possiamo conoscere meglio Dio. In questo modo, quindi, anche per quanto riguarda la prima tavola della legge l’umanità non può che rimanere senza scuse.
“Ricordati del giorno di sabato per santificarlo. Lavorerai sei giorni e in essi farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è sabato, sacro all’Eterno, il tuo Dio; non farai in esso alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo servo, né la tua serva, né il tuo bestiame, né il forestiero che è dentro alle tue porte; poiché in sei giorni l’Eterno fece i cieli e la terra, il mare e tutto ciò che è in essi, e il settimo giorno si riposò; perciò l’Eterno ha benedetto il giorno di sabato e l’ha santificato” {Esodo 20: 8-11}.
Se una persona che prima non conosceva l’esistenza dei dieci comandamenti si trovasse improvvisamente faccia a faccia con essi, sarebbe subito colpito dalla loro ragionevolezza e dal loro buon senso. Leggendo il comandamento “Non rubare”, avrebbe convenuto che è un buon comandamento. Allo stesso modo per i comandamenti: “Non uccidere” e “Non commettere adulterio”. Noterebbe che persino la maggior parte delle nazioni ha leggi simili, che sono state considerate necessarie e buone. Non potrebbe trovare alcun difetto nella legge di Dio.
Una cosa, tuttavia, potrebbe lasciarlo perplesso. Perché proprio il settimo giorno dovrebbe essere considerato santo? Ciascuno degli altri comandamenti sembrerebbe ragionevole e anche la necessità di un riposo periodico lo sarebbe, ma che sia proprio il settimo giorno sembrerebbe arbitrario. Da un semplice punto di vista della salute potrebbe essere necessario riposare anche ogni quinto o sesto giorno, oppure ogni ottavo o decimo giorno. Perché quindi scegliere proprio il settimo giorno della settimana e non qualsiasi altro giorno? Gli altri comandamenti sembrano supportare la ragione dell’uomo, ma il sabato del settimo giorno sembra essere un decreto arbitrario. Alcuni potrebbero dire che per adempiere questo comandamento basterebbe osservare un qualsiasi occasionale giorno della settimana, a seconda della propria convenienza. Ma esigere che venga osservato un giorno specifico sembra qualcosa di estraneo al modo di procedere generale di Dio riguardo alla libertà umana.
Tempo fa ebbi una conversazione con una persona che avanzò le seguenti argomentazioni. La persona in questione era ben istruita. La conversazione ruotava intorno alla legge di Dio, in particolare sul comandamento del Sabato. La sua argomentazione era in qualche modo la seguente:
“Apprezzo il contributo che la vostra denominazione sta apportando alla legge e all’ordine. In un’epoca come questa, in cui prevalgono il crimine e l’illegalità, dobbiamo dipendere dalle chiese per difendere rigidamente la rettitudine. Mi dispiace notare che però alcune chiese non lo stanno facendo. Facendo luce sulla legge di Dio, questo non potrà che influire sugli aspetti civili. Se la legge di Dio viene ignorata, presto lo si farà anche verso la legge civile. Sono lieto, quindi, che tu stia predicando la legge oltre che il vangelo. Entrambi sono necessari.
C’è una cosa, tuttavia, in cui credo che ti sbagli. Stai osservando il settimo giorno e credi che Dio ti richieda di farlo. Anche se onoro la tua fede e penso che tu sia onesto, penso che su questo punto tu ti stia sbagliando. Ho studiato un po’ la questione, e credo che la volontà e l’intento di Dio potrebbero essere serviti altrettanto bene osservando anche il primo giorno della settimana; sarebbe molto più conveniente per te e la tua influenza aumenterebbe. Anche se personalmente credo che sia irrilevante se osservi un giorno o l’altro, o nessun giorno, onoro coloro che lo fanno. Ma penso che ti sbagli nel credere che bisogna osservare il settimo giorno. Dio non te lo richiede. Il massimo che Egli potrebbe aspettarsi da te è che tu osservi semplicemente un giorno su sette.
Il comandamento del sabato è di natura diversa dagli altri comandamenti. Se un gruppo di uomini che non avevano mai sentito parlare dei dieci comandamenti iniziassero a vivere insieme, avrebbero avuto la necessità di sviluppare una serie di leggi per la loro armonia. Le nazioni pagane e le tribù selvagge hanno leggi contro il furto, l’uccisione e l’adulterio. Credo che tali popoli primitivi costruirebbero dopo un po’ un codice di leggi conforme ai Dieci Comandamenti, ma non vedo come potrebbero mai elaborare una legge del sabato del settimo giorno. Non c’è nulla in natura che possa guidarli in un’impresa del genere. Considero vincolanti gli altri comandamenti, ma non il sabato del settimo giorno”.
Segue la mia risposta: “Senza ammettere la veridicità di tutte le tue affermazioni, supponiamo che il comandamento sul Sabato sia per alcuni aspetti diverso dagli altri comandamenti, e che l’uomo senza l’aiuto della rivelazione scritta non potrebbe mai arrivare ad affermare che il Sabato è il settimo giorno di riposo. Che il comandamento del Sabato occupi un ruolo unico nella legge di Dio è ammesso, credo, dalla maggior parte degli studiosi della Bibbia. È l’unico comandamento che ha a che fare con il tempo e ha la particolarità di dichiarare alcune cose peccaminose se fatte in un certo momento stabilito.
Fu questo comandamento che Dio scelse nei tempi antichi come prova. Prima che la legge fosse proclamata pubblicamente sul Sinai, “tutta l’assemblea dei figli d’Israele mormorò contro Mosè e contro Aaronne nel deserto. I figli d’Israele dissero loro: «Oh, fossimo pur morti per mano dell’Eterno nel paese d’Egitto, quando sedevamo presso le pentole di carne e mangiavamo pane a sazietà! Poiché voi ci avete condotti in questo deserto per far morire di fame tutta questa assemblea»” {Esodo 16: 2-3}. La situazione era critica. “L’Eterno disse a Mosè: «Ecco, io farò piovere per voi del pane dal cielo; e il popolo uscirà e raccoglierà ogni giorno la provvista del giorno, perché io lo voglio mettere alla prova per vedere se camminerà o no secondo la mia legge” {Esodo 16: 4}.
“La raccolta e la preparazione del pane che il Signore mandò dal cielo costituirono la prova per Israele per ‘provare loro, se cammineranno nella mia legge o no.’ Ogni giorno dovevano raccogliere abbastanza per il bisogno della giornata, ma il sesto giorno dovevano raccogliere il doppio, in modo da avere abbastanza per durare oltre il sabato. Mentre la manna normalmente non si conservava fresca per più di un giorno, il sesto giorno Dio preservava miracolosamente la manna dalla corruzione. “Così il sesto giorno raccolsero una doppia porzione di pane… Egli allora disse loro: «Questo è ciò che l’Eterno ha detto: Domani è un giorno solenne di riposo, un sabato sacro all’Eterno; fate cuocere oggi quel che dovete cuocere e fate bollire quel che dovete bollire; e tutto quel che vi avanza, riponetelo e conservatelo fino a domani». Essi dunque lo riposero fino all’indomani, come Mosè aveva ordinato; e quello non mandò fetore e non produsse vermi. Mosè disse: «Mangiatelo oggi, perché oggi è il sabato sacro all’Eterno; oggi non ne troverete per i campi. Raccoglietene durante sei giorni; ma nel settimo giorno, il sabato, non ve ne sarà». Or nel settimo giorno avvenne che alcuni del popolo uscirono per raccoglierne, ma non ne trovarono. Allora l’Eterno disse a Mosè: «Fino a quando rifiuterete di osservare i miei comandamenti e le mie leggi? Ricordate che l’Eterno vi ha dato il sabato; per questo nel sesto giorno egli vi dà del pane per due giorni. Rimanga ognuno al suo posto; nessuno esca dalla sua tenda il settimo giorno». Così il popolo si riposò il settimo giorno” {Esodo 16: 22-30}.
Di tutti i comandamenti Dio scelse il quarto come comandamento per provare il Suo popolo. Quando voleva “vedere se camminerà o no secondo la mia legge”, disse loro di raccogliere ogni giorno la manna sufficiente per il loro bisogno, ma il sesto giorno il doppio e di non raccoglierla il settimo. Quella era la prova. Quando disobbedirono, non trasgredirono semplicemente il giorno di Sabato, ma tutta la legge. Dio non disse “Fino a quando rifiuterete di osservare il Mio Sabato?”, ma disse: “Fino a quando rifiuterete di osservare i miei comandamenti e le mie leggi?”. Era più che un semplice giorno. Quando si rifiutavano di osservare il Sabato, veniva violata l’intera legge. Il Sabato era la prova, un segno di obbedienza. Se avessero osservato il Sabato sarebbero stati considerati obbedienti. Se lo infrangevano, erano colpevoli della trasgressione dell’intera legge.
È a proposito di questo che Ezechiele fa riferimento quando cita Dio che dice nel deserto: “diedi loro i miei sabati, affinché fossero un segno fra me e loro, perché conoscessero che io, sono l’Eterno che li santifico” {Ezechiele 20: 12}. Qui si afferma che i sabati di Dio sono un segno di santificazione. In {Ezechiele 20: 20} i sabati del Signore sono chiamati “un segno fra me e voi, affinché conosciate che io sono l’Eterno il vostro Dio”. Nel primo versetto citato i sabati sono definiti essere un segno di santificazione, nel secondo invece il segno “che io sono l’Eterno il vostro Dio”. In entrambi sono chiamati “segno”. È interessante notare le condizioni in cui sono state fatte queste dichiarazioni. Gli anziani d’Israele erano venuti a consultare il Signore, ma il Signore dichiarò che non si sarebbe lasciato consultare da loro {Ezechiele 20: 3}. Egli aveva parlato loro molte volte, ed essi non avevano ascoltato. Perché dovrebbe comunicare ulteriormente con loro quando si sono rifiutati di fare ciò che aveva loro comandato? Erano esattamente come i loro padri. I padri erano stati disubbidienti e non avevano mostrato alcuna inclinazione ad ascoltare. Quando Ezechiele pensò di supplicare Dio, il Signore gli comandò di dire chiaramente al popolo dove avevano fallito. “Fa’ loro conoscere le abominazioni dei loro padri” {Ezechiele 20: 4}. Questo fece Ezechiele raccontando loro la difficoltà che il Signore ebbe nel portare Israele fuori dall’Egitto nella Terra Promessa e nel convincerli a osservare i Suoi comandamenti, specialmente il quarto.
Mentre erano ancora in Egitto, Dio aveva comandato loro di abbandonare tutti gli idoli. Ma questo non l’avevano fatto. Tuttavia, Dio li fece uscire dall’Egitto nel deserto e proclamò loro la Sua legge. In quella legge indicò il Sabato, come il Suo segno di santificazione, affinché essi Lo santifichino. “Ma la casa d’Israele si ribellò contro di me… e profanarono grandemente i miei sabati. Così io decisi di riversare su di loro il mio furore nel deserto, per consumarli” {Ezechiele 20: 13}. Dio, però, decise di non consumarli. D’altra parte, “non li avrei fatti entrare nel paese che avevo loro dato… perché avevano rigettato i miei decreti, non avevano camminato secondo i miei statuti e avevano profanato i miei sabati” {Ezechiele 20: 15-16}.
“Dissi quindi ai loro figli nel deserto: «Non camminate secondo gli statuti dei vostri padri, non osservate i loro decreti e non contaminatevi con i loro idoli. Io sono l’Eterno, il vostro DIO, camminate secondo i miei statuti, osservate i miei decreti e metteteli in pratica, santificate i miei sabati e siano un segno fra me e voi, affinché conosciate che io sono l’Eterno il vostro DIO”. Ma i figli si; ribellarono contro di me; non camminarono secondo i miei statuti e non osservarono i miei decreti per metterli in pratica, osservando i quali l’uomo vivrà per essi; profanarono i miei sabati, e così io decisi di riversare su di loro il mio furore e di sfogare su di loro la mia ira nel deserto” {Ezechiele 20: 18-21}. Dio perciò decise che li avrebbe “dispersi fra le nazioni e li avrei disseminati per tutti i paesi, perché non mettevano in pratica i miei decreti, ma rigettavano i miei statuti, profanavano i miei sabati, e i loro occhi erano rivolti agli idoli dei loro padri” {Ezechiele 20: 23-24}.
Alla fine Dio “Separerò di mezzo a voi i ribelli, e quelli che sono infedeli verso di me; li farò uscire dal paese dove dimorano, ma non entreranno nel paese d’Israele” {Ezechiele 20: 38}.
Nessuno può leggere con riverenza questo capitolo senza giungere alla conclusione che per Dio il Sabato è molto importante, che è una prova, un segno, scelto al di sopra degli altri comandamenti come prova di obbedienza. “Li proverò”, dice Dio, “per vedere se camminerà o no secondo la mia legge”. L’osservanza del Sabato è una prova di obbedienza. È il segno della santificazione. È il segno “che io sono l’Eterno il vostro Dio”.
Ma ora sorge la domanda: perché Dio scelse il comandamento del Sabato come prova piuttosto che uno degli altri comandamenti? Ammettendo l’affermazione che il Sabato del settimo giorno si basa solo su un “Così dice il Signore”, proprio per questo fatto assume un rilievo e un significato speciali.
È come se Dio ragionasse così sugli altri nove comandamenti: “Ho dato loro la Mia legge. L’ho scritta nei loro cuori; è impressa in ogni fibra del loro essere. Per natura sanno cosa sia giusto e cosa non lo sia. La loro stessa coscienza testimonia la veridicità della Mia legge. La legge è così chiara, è così evidente a tutti che questi comandamenti fondamentali sono necessari per l’esistenza che gli uomini non potrebbero non accettarli come di origine divina. Alcuni potrebbero sostenere che i comandamenti sono così indispensabili per la vita e per l’esistenza che, anche senza l’aiuto di alcuna direzione divina, il popolo potrebbe da solo fare una legge paragonabile alla Sua. Ma con il passare dei secoli gli uomini si vanterebbero di essere giunti, per esperienza, alla conclusione che non è bene rubare o mentire o uccidere, e che loro hanno sviluppato leggi appropriate riguardo a tali questioni, e che queste leggi non sono di origine divina, ma sono il risultato di esperimenti umani. Indicheranno con fierezza tribù e razze che per secoli sono state lontane dal contatto con la civiltà e tuttavia hanno regole che coprono molti punti della legge. Lo affermeranno come prova del fatto che la legge non è di origine divina, che gli uomini stanno semplicemente seguendo una legge che la loro stessa esperienza insegna loro essere per il bene dell’umanità.
Ma Dio continua dicendo: “Metterò nella Mia legge un provvedimento che non ha alcuna corrispondenza in natura; questo sarà un comando per il quale non potranno trovare alcuna ragione al di fuori della Mia Parola. Per gli altri comandamenti l’uomo può vederne una ragione. Faranno appello al loro buon senso. Ma per questo comandamento non ci sarà altra ragione che il Mio comando. Se lo obbediscono, obbediscono a Me. Se lo rifiutano, rifiutano Me. Farò di quel comandamento una prova, un segno. “lo voglio mettere alla prova per vedere se camminerà o no secondo la mia legge” {Esodo 16: 4}. Ne farò “un segno fra me e voi, affinché conosciate che io sono l’Eterno il vostro DIO” {Ezechiele 20: 20}. Farò del settimo giorno un Sabato, e chiederò loro di osservarlo, anche se in natura non c’è nulla che indichi che questo giorno sia il Sabato. Se lo osservano, sarà perché Lo comando Io. Il Sabato sarà il Mio segno, la Mia prova di obbedienza. Il settimo giorno, non un giorno su sette. Chi lo custodisce mi obbedisce. Chi lo rifiuta, rifiuta non solo il Sabato, ma tutta la Legge. Inoltre, quando rifiutano il settimo giorno, rifiutano Me. L’osservanza del Sabato del settimo giorno è il segno che Mi accettano come loro Dio.
Nel corso del tempo sorgeranno uomini che si affermarono religiosi, ma che in realtà si appoggiano unicamente sulla loro propria comprensione. Molti di loro rifiutano la storia e il Dio della creazione, preferendo le proprie teorie su come le cose sono nate. Sebbene non fossero presenti quando ho detto alle cose si esistere, pronunceranno sapientemente ipotesi su come queste cose si sono formate, rifiutando la Mia testimonianza sull’evento. Alcuni di loro sicuramente Mi rifiuteranno. Altri affermeranno di credere in Me, eppure quando si tratta di un conflitto tra la Mia Parola e le loro scoperte, Mi rifiuteranno e accetteranno le loro proprie teorie. Rifiutando la storia della creazione, rifiuteranno naturalmente il memoriale della creazione, il Sabato. Non accetteranno ciò che non possono argomentare. La loro mente è la loro unica fonte di autorità. Ecco perché darò loro una prova che mostrerà se cammineranno veramente nella Mia legge o no. Se accettano il Mio segno, la Mia prova, il Mio Sabato e lo riconoscono; accettando in questo modo una mente superiore alla loro. Se rifiutano il Mio Sabato, rifiutano Me, la Mia Parola, la Mia Legge. Ecco perché farò del Sabato la prova.
Gli uomini capiranno la questione e non saranno in grado di eludere il problema. Vedranno chiaramente che nell’accettare il Sabato devono accettare la Mia Parola per fede, piuttosto che il loro stesso ragionamento. L’osservanza del Sabato si basa solo sulla fede. Gli uomini non possono ragionare sulla base dell’esperienza o della ricerca umana. Se accettano il Sabato, lo accettano grazie alla loro fede in Me.
Il maligno farà ogni sforzo per distruggere la fede del Mio popolo. Ci proverà contraffacendo la mia opera. Sosterrà un falso giorno di riposo e lo renderà più conveniente e popolare del giorno che Io ho scelto al momento della creazione. E avrà successo con un gran numero di persone, che lo accetteranno a preferenza di Me. Sfiderà il Mio giorno di riposo e radunerà il popolo sotto la sua bandiera. Le persone noteranno chiaramente tale questione. Si tratterà del Mio Sabato da una parte, e del falso sabato dell’avversario dall’altra. Come Io ho il Mio segno, anche lui ha il suo. Spetterà a ciascuno scegliere sotto quale bandiera stare.
Conoscendo la fine dall’inizio, ho deliberatamente scelto il Sabato come prova, per vedere se gli uomini cammineranno nella Mia legge, oppure no. Per questo l’ho inserito nella legge. È assolutamente unico nel suo genere e si basa interamente sulla Mia Parola”.
Naturalmente, non è una nostra opinione che Dio abbia avuto dei pensieri come qui suggerito. Egli conosce la fine sin dall’inizio e agisce di conseguenza. Per buone e sufficienti ragioni ha dato il Sabato come segno e come prova. Crediamo che esistano valide ragioni per questo e ci conviene metterci con tutto il cuore dalla parte di Dio in questa importante questione.
Il comandamento del Sabato ha un’influenza vitale sull’espiazione. Era a causa della trasgressione della legge che il sangue veniva ministrato nel servizio del santuario. Era quando si commetteva peccato “contro qualsiasi comandamento dell’Eterno, facendo qualcosa che non dovrebbe fare, e si rende così colpevole” {Levitico 4: 27} che si doveva fare “l’espiazione per lui a motivo del suo peccato” {Levitico 4: 26}.
La trasgressione del Sabato costituisce in qualche modo la violazione di uno dei comandamenti? {Numeri 15} contiene una lezione sulla questione.
Il Signore, parlando ad Israele, disse: “Se avete peccato per ignoranza e non avete osservato tutti questi comandamenti che l’Eterno ha trasmesso a Mosè… Sarà perdonato a tutta l’assemblea dei figli d’Israele e allo straniero che risiede in mezzo a loro, perché tutto il popolo lo ha fatto per ignoranza” {Numeri 15: 22, 26}.
Qualsiasi peccato che Israele o lo straniero potessero commettere per ignoranza sarebbe potuto essere perdonato. “Si tratti di un nativo del paese tra i figli di Israele o di uno straniero che risiede tra di voi, avrete un’unica legge per colui che pecca per ignoranza” {Numeri 15: 29}.
Ma se un uomo peccava volontariamente veniva trattato diversamente. “Ma la persona che commette un peccato deliberatamente, sia essa nativa del paese o straniera, oltraggia l’Eterno; quella persona sarà sterminata di mezzo al suo popolo. Poiché ha disprezzato la parola dell’Eterno e ha violato il suo comandamento, quella persona dovrà essere sterminata; porterà il peso della sua iniquità” {Numeri 15: 30-31}.
Segue un’illustrazione di cosa si intende peccare deliberatamente. Un uomo fu trovato mentre raccoglieva dei bastoni in giorno di sabato. I capi del popolo erano incerti su cosa dovesse essere fatto, quindi “lo misero in prigione perché non era ancora stato definito che cosa fargli” {Numeri 15: 34}. Il Signore non li tenne all’oscuro di quanto dovesse essere fatto. “Poi l’Eterno disse a Mosè: «Quell’uomo deve essere messo a morte; tutta l’assemblea lo lapiderà fuori del campo». Così tutta l’assemblea lo portò fuori dell’accampamento e lo lapidò; e quello mori, come l’Eterno aveva ordinato a Mosè” {Numeri 15: 35-36}.
Dio aveva annunciato a Israele i Suoi Comandamenti. Aveva detto loro di ricordare il giorno del Sabato. Questa sarebbe stata la prova se camminavano o no nella Sua Legge. Non vi erano scuse. Se l’uomo fosse uscito a raccogliere legna di Sabato, non sarebbe stato per ignoranza. Lo faceva perché era ribelle. Egli “disprezzò la Parola del Signore”, infrangendo i Comandamenti aveva peccato presuntuosamente.
Una cosa è che gli uomini sulla terra pensino, con leggerezza, di cambiare il giorno del Sabato, un’altra cosa è abolire intenzionalmente la legge eterna di Dio, che è il fondamento del Suo trono nel cielo lassù. I Comandamenti costituiscono la ragione e il fondamento dell’espiazione. Una copia di questa legge era conservata nell’arca del patto nel luogo Santissimo del santuario sulla terra, luogo in cui nessuno tranne il sommo sacerdote poteva entrare. La sua sacralità era tale che quando, in una certa occasione, un uomo toccò l’arca ne fu subito colpito a morte {1 Cronache 13: 9-10}. Ma immaginate cosa sarebbe successo se avesse messo la mano nell’arca e avesse tentato di cambiare la scrittura di Dio sulle tavole. Eppure, gli uomini considerano empiamente a una tale possibilità! Dimenticano la santità di Dio e la sacralità della Sua Legge, per non parlare dell’impossibilità di cambiare ciò che è inciso nella pietra dal dito stesso di Dio.
La Legge, che è la base dell’espiazione e che ha reso necessaria la morte del Signore, è stata cambiata? Se il comandamento del Sabato è stato cambiato, sono cambiati anche altri? Se la legge è stata cambiata, è cambiato anche il motivo dell’espiazione e, in tal caso, Cristo è morto per una cosa nell’Antico Testamento e per un’altra nel Nuovo? Dio richiedeva la pena di morte per la trasgressione intenzionale del comandamento del Sabato il giorno prima che Cristo morisse sulla croce, e il giorno dopo non più? O vi era un tempo neutrale per quanto riguarda la pena di morte? Ci possono essere differenze tra i cristiani su molte cose, ma ci può essere qualche divergenza di opinioni sulla necessità e sul motivo dell’espiazione? Cristo è ancora il nostro Sommo Sacerdote? La Legge è ancora sotto il propiziatorio nell’arca [del santuario celeste]? Togli la Legge e non c’è più bisogno di espiazione. Al contrario: se c’è ancora bisogno dell’espiazione, c’è ancora bisogno della Legge.
Senza la Legge l’espiazione diventa una farsa, l’incarnazione di Cristo una bella favola, la Sua morte un errore giudiziario, il Getsemani una tragedia. E questo se la Legge o uno qualsiasi dei Comandamenti può essere trasgredito impunemente; se la Legge è stata abrogata o sono cambiati i suoi precetti. Se la Legge data da Dio stesso ha cessato di essere lo standard nel giudizio, allora la morte di Cristo diventa superflua, il Padre stesso cessa di essere l’incarnazione della giustizia e della gentilezza e Cristo non può sottrarsi all’accusa di essere parte di un inganno. Che tutti i Cristiani gridino contro tale dottrina. Se la Legge è distrutta, l’espiazione non è necessaria, né lo è Cristo. Lascia che tali fatti rimangano sempre chiari nella mente: Cristo visse, soffrì, morì e risorse per noi. Avevamo peccato, perché abbiamo trasgredito la Legge ed eravamo condannati a morte. Cristo ci ha salvati, non eliminando la Legge – perché allora non sarebbe dovuto morire – ma morendo per “noi”, stabilendo in questo modo le pretese eterne della Legge. Egli ora ministra con il Suo sangue prezioso per noi nel Santuario Celeste. Egli è il nostro Avvocato, il nostro Garante, il nostro Sommo Sacerdote. Lui è lo stesso, ieri, oggi e per sempre. Per grazia siamo salvati.
La nostra attenzione ora è richiamata da {Daniele 8: 14} che dice: “Fino a duemilatrecento giorni; poi il santuario sarà purificato”. Qualsiasi affermazione che riguarda il santuario è importante; e il testo sopra citato lo è particolarmente. Esso afferma che a un certo momento il santuario sarà purificato. Questo è piuttosto insolito, perché il santuario terreno veniva purificato ogni anno, nel “giorno dell’Espiazione”. Perché, allora, dovrebbe trascorrere “duemilatrecento giorni”, prima che avvenga questa particolare purificazione?
L’ottavo capitolo di Daniele contiene un’importante profezia. Descrive una visione che Daniele ebbe riguardo a un montone e un capro.
“Nel terzo anno di regno del re Belshatsar, io, Daniele, ebbi una visione, dopo quella avuta all’inizio del regno. Or vidi in visione e, mentre guardavo, mi avvenne di trovarmi nella cittadella di Susa, che è nella provincia di Elam, nella visione mi resi conto di essere presso il fiume Ulai. Alzai gli occhi e guardai, ed ecco, in piedi davanti al fiume un montone che aveva due corna; le due corna erano alte ma un corno era piú alto dell’altro, anche se il piú alto era spuntato per ultimo. Vidi il montone che cozzava a ovest a nord e a sud; nessuna bestia gli poteva resistere, né alcuno poteva liberare dal suo potere; cosí fece quel che volle e diventò grande. Mentre consideravo questo ecco venire dall’ovest un capro, che percorreva tutta la superficie della terra senza toccare il suolo, il capro aveva un corno cospicuo fra i suoi occhi. Giunse fino al montone dalle due corna, che avevo visto in piedi davanti al fiume, e gli si avventò contro nel furore della sua forza. Lo vidi avvicinarsi e montare in collera contro di lui, cozzò quindi contro il montone e frantumò le sue due corna, senza che il montone avesse forza per resistergli; cosí lo gettò a terra e lo calpestò, e nessuno potè liberare il montone dal suo potere. Il capro diventò molto grande; ma, quando fu potente, il suo gran corno si spezzò, al suo posto spuntarono quattro corna cospicue, verso i quattro venti del cielo” {Daniele 8: 1-8}.
L’interpretazione di questa profezia viene data in {Daniele 8: 20-21}: “Il montone con due corna, che tu hai visto, rappresenta i re di Media e di Persia. Il capro peloso è il re di Javan; e il gran corno che era in mezzo ai suoi occhi è il primo re”.
Tra i commentatori c’è unanimità sul fatto che il “grande corno” sia Alessandro Magno; che mentre era ancora “potente, il suo gran corno si spezzò” {Daniele 8: 8}. Al suo posto ne sorsero altre quattro, che denotavano le quattro divisioni dell’Impero greco alla morte di Alessandro {Daniele 8: 22}.
Il Piccolo Corno
La parte della profezia a cui siamo particolarmente interessati inizia dal versetto nove. “Da uno di questi uscí un piccolo corno, che diventò molto grande verso sud, verso est e verso il paese glorioso. Si ingrandí fino a giungere all’esercito del cielo, fece cadere in terra parte dell’esercito e delle stelle e le calpestò. Si innalzò addirittura fino al capo dell’esercito, gli tolse il sacrificio continuo e il luogo del suo santuario fu abbattuto. L’esercito gli fu dato in mano assieme al sacrificio continuo, a motivo della trasgressione; egli gettò a terra la verità; fece tutto questo e prosperò. Poi udii un santo che parlava, e un altro santo disse a quello che parlava: «Fino a quando durerà la visione del sacrificio continuo e la trasgressione della desolazione, che abbandona il luogo santo e l’esercito ad essere calpestati?». Egli mi disse: «Fino a duemilatrecento giorni; poi il santuario sarà purificato»” {Daniele 8: 9-14}.
È evidente che la profezia si rivolge al “piccolo corno” che crebbe superando persino Alessandro Magno, “il gran corno” {Daniele 8: 21}. Il potere simboleggiato dal piccolo corno iniziò in modo poco appariscente, ma “diventò molto grande”. Ciò che fa questo corno è degno di nota. Esso “compirà sorprendenti rovine, prospererà nelle sue imprese distruggerà i potenti e il popolo dei santi” {Daniele 8: 24}. E questo sarebbe avvenuto non tanto con la guerra ma con la pace (Vedi Daniele 8: 25, KJV “by peace shall destroy many”). Esso è saggio e astuto, e ha una “politica” precisa. È potente, “ma non per sua propria forza”, e prospererà e si eserciterà {Daniele 8: 24, 12}. È un potere orgoglioso, poiché “si innalzerà nel suo cuore”, “si innalzò addirittura fino al capo dell’esercito” {Daniele 8: 25, 11}. È una potenza persecutrice, poiché “distruggerà i potenti e il popolo dei santi” e gli viene dato un intero “esercito” da calpestare {Daniele 8: 24, 10, 13}. Insegna false dottrine e “getta a terra la verità” {Daniele 8: 12}.
Fa guerra contro la verità; il santuario è “abbattuto” e “calpestato”, e questo “a causa della trasgressione” {Daniele 8: 11-13}. Il culmine è raggiunto quando “insorgerà contro il principe dei principi, ma sarà infranto senza mano d’uomo” {Daniele 8: 25}. Quando Daniele vide tutto questo in visione, ne fu così colpito che si “sentii sfinito e fui malato per vari giorni”. Rimase “stupito della visione” e né lui né nessun altro la compresero {Daniele 8: 27}.
Siamo particolarmente interessati al tempo menzionato nel versetto quattordici. La conversazione tra i due angeli era evidentemente a beneficio di Daniele. La visione del montone e del capro sembra essere collegata alla storia del piccolo corno che “diventò molto grande”. Quando Daniele vide le persecuzioni portate avanti da questo potere, e come avrebbe dovuto prosperare con i suoi metodi astuti, magnificandosi e distruggendo terribilmente, naturalmente si chiese per quanto tempo sarebbe continuato. Nella conversazione degli angeli gli viene detto che lo avrebbe fatto per un periodo di “duemilatrecento giorni”, durante i quali sia il santuario che l’esercito devono “essere calpestati”, permettendo a questo potere malvagio di prosperare e “si innalzò addirittura fino al capo dell’esercito”.
Come potrebbe questo potere accrescere la sua potenza, “ma non per sua propria forza”? Sembra una contraddizione di termini. In che modo potrebbe ingrandirsi “fino a giungere all’esercito del cielo, fece cadere in terra parte dell’esercito e delle stelle e le calpestò”? Come poteva abbattere il santuario e calpestarlo? Come poteva gettare “a terra la verità; fece tutto questo e prosperò”? Eppure, proprio questo fece.
Ai versetti 10-12, 24-25 Daniele è descritto come sbalordito, come se non avesse compreso la visione. Ma era più che stupito. Quando vide cosa avrebbe fatto questo potere al santuario, alla religione, al popolo di Dio, alla verità, “fui malato per vari giorni” {Daniele 8: 27}. Ecco un potere blasfemo che avrebbe perseguitato il popolo di Dio e tentato di distruggere la verità, e così facendo, avrebbe prosperato. Anche il santuario sarebbe stato abbattuto e calpestato. L’unico raggio di speranza nell’intera visione riguardava il periodo di tempo. Il santuario e la verità non sarebbero stati calpestati per sempre. La verità sarebbe stata ristabilita. Sarebbe stata rivendicata. Al termine dei “duemilatrecento giorni” il santuario sarebbe stato purificato. Era proprio a quel tempo il popolo di Dio doveva guardare.
La preghiera di Daniele
Questo però non poteva essere di grande conforto per Daniele. Che cosa significavano i “duemilatrecento giorni”? Quando sono cominciati? Quando sarebbero finiti? Non capiva. Cominciò a studiare più seriamente che mai. Il suo studio lo portò a comprendere “dai libri il numero degli anni in cui, secondo la parola dell’Eterno indirizzata al profeta Geremia, dovevano essere portate a compimento le desolazioni di Gerusalemme, è cioè settant’anni” {Daniele 9: 2}. Ma non aveva ancora la luce sui “duemilatrecento giorni”. Avevano qualcosa a che fare con la fine dei settant’anni? Forse sarebbero iniziati quando quel periodo sarebbe finito. Lui non lo sapeva. E così si dedicò alla preghiera. Doveva avere più luce sulla questione.
Alcuni commentatori sostengono che il piccolo corno, che divenne estremamente grande, rappresenti il regno dei Seleucidi, specialmente sotto il comando dei re: Antioco Epifane e Antioco il Grande. Questo punto di vista però può essere attaccato da grandi obiezioni. È vero, questi re perseguitarono; erano furbi, empi ed orgogliosi. Difficilmente si può dire, però, che fossero molto più grandi di tanti altri, prima e dopo di loro. Ad esempio, non si può affermare che fossero più grandi di Alessandro Magno. Eppure, la visione richiede proprio tale caratteristica. Antioco Epifane, al quale molti credono sia particolarmente indicato, fu un persecutore, interferì con il servizio del santuario, ma non era così eccezionale da meritare l’attenzione data al piccolo corno nella visione. Fece la sua piccola parte nel dramma per alcuni anni, ma poi morì, senza lasciare segni come quelli che fece Alessandro, se no già da molto tempo sarebbe stato confermato tra i re meschini dell’epoca, visto il persistente sforzo di alcuni commentatori nel dargli indebito risalto.
La visione nell’ottavo capitolo di Daniele non è una visione isolata. Non è qui che si parla per la prima volta della Medo-Persia e della Grecia. Il settimo capitolo tratta un argomento correlato e menziona quelle bestie che rappresentano la Medo-Persia e la Grecia, e parlano anche di un “piccolo corno”. Il profeta dice: “Stavo osservando le corna, quand’ecco in mezzo ad esse spuntò un altro piccolo corno, davanti al quale tre delle prime corna furono divelte; ed ecco in quel corno c’erano degli occhi simili a occhi di uomo e una bocca che proferiva grandi cose” {Daniele 7: 8}. Questo piccolo corno incuriosì Daniele. Voleva saperne di più “intorno all’altro corno che spuntava e davanti al quale erano cadute tre corna, cioè quel corno che aveva occhi e una bocca che proferiva grandi cose e che appariva maggiore delle altre corna” {Daniele 7: 20}. Aveva visto che “quello stesso corno faceva guerra ai santi e li vinceva” {Daniele 7: 21}. Vide, inoltre, che “Egli proferirà parole contro l’Altissimo, perseguiterà i santi dell’Altissimo con l’intento di sterminarli e penserà di mutare i tempi e la legge; i santi saranno dati nelle sue mani per un tempo, dei tempi e la metà di un tempo” {Daniele 7: 25}. Alla fine, però, “Si terrà quindi il giudizio e gli sarà tolto il dominio, che verrà annientato e distrutto per sempre” {Daniele 7: 26. Il capitolo termina: “Qui finirono le parole rivoltemi. Quanto a me, Daniele, i miei pensieri mi turbarono grandemente e il mio aspetto cambiò, ma conservai le parole nel mio cuore” {Daniele 7: 28}. È facile quindi constatare che questa profezia tratta in modo generale gli stessi avvenimenti del capitolo ottavo.
Daniele era turbato da ciò che aveva visto. Nel settimo capitolo era stato messo a confronto con una potenza persecutrice che distruggeva i santi dell’Altissimo, che proferiva grandi parole contro Dio, che pensava di cambiare i tempi e le leggi e che era diverso dagli altri re {Daniele 7: 24}, e alla fine sarebbe stato distrutto. Questo potere era il “piccolo corno” che aveva occhi come gli occhi di un uomo e una bocca che diceva grandi cose. Chi potrebbe essere quel potere? Daniele ci pensò molto, ma rimase perplesso. Egli disse “i miei pensieri mi turbarono grandemente” {Daniele 7: 28}. Ma tenne la questione nel suo cuore. Era sicuro che Dio gli avrebbe rivelato una luce maggiore, perciò disse: “Qui finirono le parole rivoltemi”. La parola “qui” [o “finora”, vedi KJV] è significativa. Daniele non dice: “Questa è la fine della questione”, ma è come se dicesse: “Al momento è finita la questione”. Cioè, “Questa è la fine, per ora, ma c’è altro in arrivo. Ora ci fermiamo, ma arriveranno altre parole”. Questo è il significato di “Qui”. Presto ne sarebbero arrivate altre, infatti l’ottavo capitolo tratta di nuovo questo potere, e il nono capitolo darà ulteriori spiegazioni.
Il papato
È impossibile credere che il corno di {Daniele 7} sia Antioco Epifane o qualsiasi altro Antioco. Praticamente tutti i commentatori protestanti della vecchia scuola concordano sull’associarlo al Papato, nel quale si vede un completo adempimento. Infatti, nessun Antioco “faceva guerra ai santi e li vinceva finché giunse l’Antico di giorni e fu resa giustizia ai santi dell’Altissimo, e venne il tempo in cui i santi possedettero il regno” {Daniele 7: 21-22}. Antioco è morto da tempo e regnò per poco tempo. Di quale altro potere oltre a quello del Papato è vero che abbia perseguitato i santi dell’Altissimo, o abbia tentato di mutare tempi e leggi? L’astuzia, la saggezza, le politiche di vasta portata del Papato non sono suggerite espressamente forse dal corno che aveva “occhi simili a occhi di uomo e una bocca che proferiva grandi cose”? {Daniele 7: 8}. Crediamo di stare su un terreno esegetico solido quando riteniamo che il corno di {Daniele 8} sia Roma, prima pagana, poi papale, e che anche il corno di {Daniele 7} rappresenti il Papato.
Queste considerazioni ci aiuteranno nel nostro tentativo di stabilire il significato dei “duemilatrecento giorni” di {Daniele 8: 14}. Durante questo periodo profetico si sarebbe manifestato anche un potere che sarebbe esistito più di qualsiasi altro potere sulla terra. E poiché ciò fa parte di una profezia, qui viene menzionato anche il tempo profetico. Se è così, i “duemilatrecento giorni” durarono “duemilatrecento anni”, secondo un metodo d’interpretazione profetico ben stabilito. “Ho deposto su di te un giorno per ogni anno” {Ezechiele 4: 6}.
Se accettiamo l’idea che il corno di {Daniele 8} si riferisca alla Roma imperiale e alla Chiesa cattolica romana, diventa nostro dovere scoprire ogni possibile connessione tra essa e il santuario, come menzionato in {Daniele 8: 14}. La Chiesa cattolica romana è un tentativo di ristabilire l’antica teocrazia di Israele con tutto il servizio del santuario che l’accompagnava. La Chiesa cattolica cercò di riprendere alcuni rituali essenziali del giudaismo, unendoli però con alcuni cerimoniali del paganesimo. Stabilì un servizio simile a quello del santuario con i suoi sacerdoti, sommo sacerdote, leviti, cantori e insegnanti. Istituì un servizio sacrificale che culmina nella messa, con alcuni rituali di accompagnamento e l’offerta dell’incenso. Inaugurò i suoi giorni di festa, modellati sull’usanza israelita. Prese le sue candele e edificò il suo altare dell’incenso, la sua tavola con il pane e il suo altare maggiore. La conca con l’acqua viene evidenziata per importanza con “l’acqua santa”; e si osserva anche la messa giornaliera. Il parallelo tra l’antica religione israelita e la religione cattolica romana è quasi completo.
Tutto ciò non sarebbe molto importante se non fosse per il fatto che costituisce un tentativo di oscurare la vera opera di Cristo nel santuario celeste. Quando il periodo dell’Antico Testamento terminò, ovvero quando Cristo iniziò la Sua opera nel santuario celeste, era intenzione di Dio che i servizi del santuario sulla terra cessassero. Il velo del tempio si squarciò in due e in seguito il tempio fu completamente distrutto, a significare la cessazione del servizio sulla terra e l’inaugurazione del servizio in cielo. Cristo è entrato in un tempio non costruito da mani d’uomo. Egli è entrato nel cielo stesso, affinché intercedesse in nostro favore. Gli uomini sono invitati a venire a Lui con i loro peccati e ricevere il perdono.
Il servizio nel tabernacolo terreno doveva preparare gli uomini a guardare verso il vero santuario in cielo, quando fosse giunto il momento di effettuare il cambiamento.
Un’istituzione rivale
La Chiesa cattolica ignora completamente l’opera del nostro Sommo Sacerdote in cielo e quindi tenta di istituire un servizio, rivale ad esso, sulla terra. Ha ristabilito le antiche cerimonie e credenze e tenta di riportare gli uomini a un rituale che ormai è stato abbandonato. E in larga misura ci è riuscito. “Tutta la terra si meravigliò dietro alla bestia” {Apocalisse 13: 3}.
Questo, come è stato notato sopra, tende ad oscurare l’opera di Cristo. Gli uomini hanno perso la conoscenza del santuario e dell’opera di Cristo in cielo. La loro attenzione è stata indirizzata sull’opera rivale del Suo preteso “vicario” sulla terra. Mentre Cristo in cielo perdona i peccati, il sacerdote sulla terra afferma di fare lo stesso. Mentre Cristo intercede per il peccatore, così fa anche il sacerdote. Gli uomini hanno dimenticato che esiste un santuario celeste. Quella verità è stata gettata a terra. Secolo dopo secolo, la chiesa ha tenuto gli uomini nella completa ignoranza dell’importantissima opera che si svolge in cielo, lassù, mentre ha esaltato le proprie mercanzie e fatto commercio di tutto ciò che è più sacro.
Il Papato è così diventato in un certo senso un concorrente, un rivale di Cristo. Ha tentato di sostituirlo nella mente degli uomini, e ci è riuscito in una misura notevole. È compito della chiesa di Dio richiamare l’attenzione su Cristo e sulla verità. È l’unico organo che Dio ha per istruire gli uomini. Quando Cristo salì in alto per iniziare il Suo ministero nel santuario celeste, era dovere e privilegio della chiesa proclamare quella notizia fino alle estremità del mondo.
Ciò che apparteneva alla vecchia dispensazione cessò. Il sacerdozio levitico finì. Il velo si squarciò e si aprì una via nuova e viva per l’uomo. Gli uomini avevano libero accesso a Dio e potevano apparire davanti al trono della grazia senza alcun intercessore umano. Tutto il popolo di Dio era diventato un sacerdozio regale, e da allora in poi nessun uomo doveva mettersi tra un’anima e il suo Creatore. La via di accesso venne aperta a tutti.
Il vero Santuario
Che il Papato sia diventato un rivale, un concorrente di Cristo, non è una semplice figura retorica. Considera la situazione. Cristo è il nostro sommo sacerdote. Sul Calvario morì come Agnello di Dio. Ha versato il Suo sangue per noi. I sacrifici mosaici erano un’ombra che Lo profetizzarono per secoli, ma ora era arrivata la realtà. Come per l’Antico Testamento la morte dell’agnello non bastava, ma doveva essere completata dal ministero del sacerdote che aspergeva il sangue sull’altare o nel luogo santo, così doveva essere anche con la morte e il sangue di Cristo. Essendo stato provveduto il sangue, Cristo divenne “ministro del santuario e del vero tabernacolo, che ha eretto il Signore e non un uomo” {Ebrei 8: 2}. Così “Cristo, essendo venuto come sommo sacerdote dei beni futuri, attraverso un tabernacolo più grande e più perfetto non fatto da mano d’uomo, cioè non di questa creazione, entrò una volta per sempre nel santuario, non con sangue di capri e di vitelli, ma col proprio sangue, avendo acquistato una redenzione eterna” {Ebrei 9: 11-12}.
Il santuario qui menzionato non fa riferimento al tabernacolo sulla terra. “Cristo infatti non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura delle cose vere, ma nel cielo stesso per comparire ora davanti alla presenza di Dio per noi” {Ebrei 9: 24}. Davanti alla presenza di Dio, Cristo supplica e amministra il Suo sangue, che non si limita a santificare “purificandoli nella carne” {Ebrei 9: 13} come faceva il sangue dei buoi e dei capri di un tempo, ma è in grado di purificare “la vostra coscienza dalle opere morte per servire il Dio vivente!” {Ebrei 9: 14}. Chi desidera che la sua coscienza sia purificata può dunque “entrare nel santuario, in virtù del sangue di Gesù, che è la via recente e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne, e avendo un sommo sacerdote sopra la casa di Dio, accostiamoci con cuore sincero, in piena certezza di fede, avendo i cuori aspersi per purificarli da una cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura” {Ebrei 10: 19-22}. Nell’Antico Testamento solo un sacerdote poteva entrare nel santuario. Ora chiunque può accedervi. È una “via recente e vivente che egli ha inaugurato per noi”.
Ed è un privilegio e un dovere della Chiesa annunciare questa via benedetta, nuova e viva. Tutti possono venire a Cristo direttamente, non come nel santuario terreno dove era necessario che un sacerdote intervenisse. Ora ogni uomo può accedere direttamente al suo Creatore senza alcuna interferenza umana. Può entrare audacemente attraverso il velo. Ma il Papato pensava e insegnava diversamente. Tentò di ristabilire il rituale dell’Antico Testamento, con la convinzione che l’uomo potesse avvicinarsi al suo Creatore solo attraverso rappresentanti speciali, come i sacerdoti. Gli uomini furono fatti allontanare sempre di più da Dio. La chiesa chiuse la “via recente e vivente” aperta da Cristo, e fece avvicinare a Dio gli uomini solo attraverso il sacerdozio, i quali a loro volta dovevano appellarsi a qualche santo che potesse avere qualche influenza su Maria, che avrebbe influito su Cristo e che a sua volta avrebbe raggiunto Dio. L’intero sistema era un tentativo di reincarnazione delle ordinanze mosaiche, che erano state definitivamente abolite e che non dovevano essere paragonate alla nuova e vivente modalità del Nuovo Testamento.
Un falso sistema di mediazione
Qual è stato il risultato? Gli uomini si sono rivolti alla Chiesa di Roma e hanno abbandonato il santuario e il Ministro del santuario in cielo. La Chiesa romana ha effettivamente oscurato il ministero di Cristo, tanto che pochi cristiani sanno che esiste un tempio in cielo, tanto meno che lì si sta svolgendo un servizio. Giorno dopo giorno Cristo sta ministrando il Suo sangue, sperando che gli uomini trovino la “nuova via”. Ma pochi vengono. D’altra parte, milioni di persone si riversano nella chiesa romana, per offrire l’indulgenza e ricevere il perdono dei peccati a condizioni accettabili. Il Papato è quasi riuscito a rendere nullo il ministero di Cristo. Ha inaugurato un altro ministero, fondato, non sulle promesse del vangelo, non sulla base della nuova alleanza, non su Cristo come sommo sacerdote, ma sulle vane promesse di un sacerdozio terreno, che a sua volta ha bisogno del perdono e della potenza del sangue espiatorio di Cristo.
Nel dire che il Papato ha tentato di sostituire la vera opera di mediazione di Cristo con un falso sistema di mediazione, siamo ben consapevoli del fatto che la Chiesa cattolica romana crede nel sacrificio di Cristo sulla croce, che Egli è l’avvocato e l’intercessore dell’uomo e che per mezzo di Lui siamo salvati. Infatti, le seguenti affermazioni dicono:
«Non c’è nulla da cui i fedeli debbano possano trarre gioia più grande se non dal riflettere che Gesù Cristo è costituito nostro avvocato e intercessore presso il Padre, presso il quale la Sua influenza e autorità sono supreme… È vero, non c’è che un mediatore, Cristo Signore, che solo ci ha riconciliati mediante il suo sangue {1 Timoteo 2: 5}, e che, avendo compiuto la nostra redenzione, ed essendo entrato una volta nel luogo santissimo, non cessa di intercedere per noi {Ebrei 9: 12; Ebrei 7: 25}» (Catechismo del Concilio di Trento – Apocalisse, traduzione di J. Donovan, 1829 ed., pag. 59, 247).
«Possiamo andare a Dio con tutta fiducia, dice sant’Araldo, perché il Figlio è il nostro mediatore presso l’eterno Padre, e Sua madre è la nostra mediatrice con suo Figlio» (Glorie di Maria – Alphonsus Liguori, Dottore della Chiesa, riveduta ed., pag. 224).
È nel ministero del sangue, nel rapporto esistente tra l’uomo e Cristo, che il Papato ha tentato di erigere un falso sistema. Qui i santi, e specialmente Maria, sono stati interposti tra l’uomo e Dio. Questa riteniamo essere una gravissima perversione della verità, in quanto interpone persone extra-mediatrici come necessarie per avvicinarsi a Dio, quando le Scritture insegnano che vi è “un solo mediatore tra Dio e gli uomini: Cristo Gesù uomo” {1 Timoteo 2: 5}. La Bibbia non riconosce nessun altro come mediatore, e la chiesa, insegnando il contrario, sta intaccando la verità di Dio.
Ci sono quindi due ministeri che promettono agli uomini il perdono e la cancellazione dei peccati: quello di Cristo in cielo e quello del Papato in terra. Ciascuno ha un sacerdozio e un servizio che lo accompagna. Ciascuno rivendica la piena autorità di perdonare. Il Papato si vanta di possedere le chiavi del cielo. Può aprirlo o chiuderlo. Ha un tesoro di meriti senza i quali solo pochi possono essere salvati. È in possesso dell’«ostia», il mistero santo di Dio. Possiede un capo infallibile. Ha potere sul purgatorio. Può annullare la punizione. Rivendicare l’autorità sui re della terra. Non riconosce alcun superiore. È supremo.
Tutte queste affermazioni cadrebbero a terra se gli uomini fossero consapevoli del vero ministero di Cristo. La conoscenza della verità del santuario è l’unico antidoto alle false affermazioni della gerarchia di Roma. Per questo Dio ha fatto del Suo popolo il depositario della Sua verità riguardo al santuario.
Allora il Santuario sarà purificato
Non abbiamo bisogno di entrare nei dettagli riguardo ai problemi matematici dei “duemilatrecento giorni”. Si rimanda il lettore al libro “La Grande Controversia”, di Ellen G. White, e ad altre opere avventiste che parlano di questo tema. Basta capire che questi giorni, o per meglio dire anni, iniziarono nel 457 a.C. e finirono nel 1844 d.C. Fu in questa data che il santuario doveva essere purificato.
È evidente che questa purificazione non poteva fare riferimento al santuario sulla terra. Questo venne distrutto molto tempo fa e il suo servizio fu interrotto. Doveva quindi riferirsi al santuario in cielo, di cui viene detto che veniva purificato “con sacrifici più eccellenti” di quelli dell’Antico Testamento {Ebrei 9: 23}:
Abbiamo già discusso nel dettaglio la questione della purificazione del santuario sulla terra. Questa purificazione era un tipo di purificazione del santuario nel cielo. Come i sacerdoti prestavano servizio nel primo appartamento del tabernacolo [o “luogo santo”] ogni giorno dell’anno fino al grande “giorno dell’Espiazione”, così Cristo prestò servizio nel primo appartamento del santuario celeste fino al momento della sua purificazione. Quel tempo era il 1844. Allora Cristo iniziò la fase finale del Suo ministero, entrando nel “luogo santissimo”. Fu sempre allora che iniziò anche “l’ora del giudizio” {Apocalisse 14: 7}, anche chiamato “giudizio investigativo”. Quando quest’opera finirà, il tempo di grazia cesserà e Cristo tornerà.
A questo punto vorremmo richiamare l’attenzione sulla parola “purificato” usata in {Daniele 8: 14}. In Ebrei è “tsadaq”, ed è tradotto con “giustificato”, diventare o essere considerato “giusto”. Alcuni traducono: “Allora il santuario sarà giustificato”; mentre altri: “Allora il santuario sarà rivendicato”; altri ancora: “Allora il santuario tornerà alla sua giusta condizione”. La parola in sé, infatti, contiene l’idea di “restaurazione” oltre che di “purificazione”.
Questi significati della parola “purificato” sono significativi in considerazione del fatto che il soggetto del santuario è stato calpestato e la verità gettata a terra. Verrà mai il momento in cui l’argomento del santuario avrà di nuovo il suo giusto posto, quando Dio rivendicherà la Sua verità, mentre l’errore e l’inganno saranno svelati? Sì, risponde la profezia, il tempo verrà.
Sorgerà un potere malvagio che perseguiterà il popolo di Dio, oscurerà la questione del santuario, getterà a terra la verità e prospererà nel farlo; istituirà il proprio sistema in concorrenza a quello di Dio, tenterà di cambiare la legge e con la sua astuta politica ingannerà molti. Ma sarà smascherato. Alla fine dei “duemilatrecento giorni” sorgerà un popolo che avrà luce sulla questione del santuario, che seguirà per fede Cristo nel luogo santissimo, spezzando in questo modo il potere del mistero dell’iniquità e che combatterà per la verità di Dio. Un tale popolo è invincibile. Proclamerà la verità senza paura. Darà il contributo supremo alla religione nella sua difesa della verità sul santuario. “I tuoi riedificheranno le antiche rovine, e tu rialzerai le fondamenta di molte generazioni passate; così sarai chiamato il riparatore di brecce, il restauratore dei sentieri per abitare nel paese” {Isaia 58: 12}.
Allora tutti capiranno i problemi e le conseguenze di tali questioni. Il punto principale sarà l’adorazione alla bestia o l’adorazione a Dio. Alla fine di questa controversia si aprirà il tempio di Dio in cielo e gli uomini vedranno “il tempio di Dio e in esso apparve l’arca del suo patto” {Apocalisse 11: 19}. Il popolo di Dio sulla terra avrà un importante ruolo nel mostrare agli uomini il tempio di Dio aperto. D’altra parte, la chiesa apostata aprirà “la sua bocca per bestemmiare contro Dio, per bestemmiare il suo nome, il suo tabernacolo e quelli che abitano nel cielo” {Apocalisse 13: 6}.
È un privilegio davvero speciale avere parte in un’opera come questa. Ma se vogliamo vincere dobbiamo sapere a che punto siamo e perché. Che Dio ci dia la grazia di essere fedeli.
L’ultima dimostrazione di ciò che il Vangelo può fare nell’umanità e per l’umanità è una questione che riguarda ancora il futuro. Cristo ha mostrato la via. Prese un corpo umano e in quel corpo dimostrò la potenza di Dio. Gli uomini devono seguire il Suo esempio e dimostrare che ciò che Dio ha fatto in Cristo, lo può fare in ogni essere umano che si sottomette a Lui. Il mondo attende questa dimostrazione {Romani 8: 19}. Quando questo accadrà, verrà la fine. Dio avrà realizzato il Suo piano. Verrà dimostrato che Dio è veritiero, mentre Satana un bugiardo. Il Suo governo sarà rivendicato.
Esistono molte false dottrine sulla santità insegnate nel mondo di oggi. Da un lato ci sono coloro che negano il potere di Dio di salvare dal peccato. D’altra parte, ci sono quelli che ostentano la loro santità davanti agli uomini e vogliono farci credere che siano senza peccato. Nella prima classe non ci sono solo miscredenti e scettici, ma anche così detti membri della chiesa la cui visione non include la vittoria sul peccato, ma che accettano una sorta di compromesso con il peccato. Nell’altra classe ci sono quelli che non hanno una concezione giusta né del peccato né della santità di Dio, la cui visione spirituale è così ridotta che non possono vedere i propri difetti, e quindi si credono perfetti; la loro concezione della religione è tale che la loro stessa comprensione di verità e di giustizia è superiore a quella rivelata nella Parola. Non è facile decidere quale sia l’errore maggiore.
Che la Bibbia inculchi la santità è indiscutibile. “Ora il Dio della pace vi santifichi egli stesso completamente; e l’intero vostro spirito, anima e corpo siano conservati irreprensibili per la venuta del Signor nostro Gesù Cristo” {1 Tessalonicesi 5: 23}. “Procacciate la pace con tutti e la santificazione, senza la quale nessuno vedrà il Signore” {Ebrei 12: 14}. “Poiché questa è la volontà di Dio: la vostra santificazione; che vi asteniate dalla fornicazione” {1 Tessalonicesi 4: 3}. La parola greca “hagios” nelle sue varie forme è tradotta “santificare”, “santo”, “santità”, “santificato” o “santificazione”. È la stessa parola che si usa per i due appartamenti del santuario, e significa “ciò che è riservato a Dio”. Una persona santificata è una persona che è riservata per Dio, la cui intera vita è dedicata a Lui.
Perdono e Purificazione
Il piano della salvezza deve necessariamente comprendere non solo il perdono dei peccati, ma la completa eliminazione. La salvezza dal peccato è più del semplice perdono del peccato. Il perdono indica una rottura dal peccato; la santificazione è la separazione dal peccato e indica la liberazione dal suo potere e la vittoria su di esso. Il primo è un mezzo per neutralizzare l’effetto del peccato; il secondo è un ripristino del potere per la vittoria completa.
Il peccato, come alcune malattie, lascia l’uomo in una condizione deplorevole: debole e avvilito. Ha poco controllo della sua mente, la sua volontà lo tradisce e con le migliori intenzioni non è in grado di fare ciò che sa essere giusto. Sente che non c’è speranza. Non può fare altro che incolpare sé stesso e avere il rimorso che riempie la sua anima. Ai suoi disturbi fisici si aggiunge il supplizio della coscienza. Sa di aver peccato ed è da biasimare. Nessuno avrà pietà di lui?
Ecco che viene il Vangelo. Gli viene predicata la buona novella. Sebbene i suoi peccati siano scarlatti, saranno bianchi come la neve; sebbene siano rossi come cremisi, saranno come lana {Isaia 1: 18}. Tutto è perdonato. È “salvato”. Che meravigliosa liberazione! La sua mente è a riposo. La sua coscienza non lo tormenta più. È stato perdonato. I suoi peccati sono gettati nelle profondità del mare {Michea 7: 19}. Il suo cuore sgorga di lode a Dio per la Sua misericordia e bontà verso di lui.
Come una nave danneggiata che è stata rimorchiata in porto è sicura ma non sana, così l’uomo è “salvato” ma non sano. Le riparazioni dovranno essere effettuate sulla nave prima che essa sia dichiarata idonea alla navigazione, così anche l’uomo ha bisogno di essere ricostruito prima di essere completamente salvato. Questo processo di restaurazione è chiamato “santificazione” e include nel suo prodotto finito sia il corpo, che l’anima, che lo spirito. Quando l’opera è terminata, l’uomo è “santo”, completamente santificato, riflettendo perfettamente l’immagine di Dio. Questa è la dimostrazione ultima di ciò che il Vangelo può fare per un uomo.
Nella Bibbia sia il processo che l’opera compiuta sono definiti “santificazione”. Per questo i “fratelli” sono chiamati “santi” e “santificati”, anche se non hanno già raggiunto la perfezione {1 Corinzi 1: 2; 2 Corinzi 1: 1; Ebrei 3: 1}. Uno sguardo alle Epistole ai Corinzi convincerà presto che i santi menzionati avevano le loro colpe. Nonostante questo, si dice che vengano chiamati “santi”.
La ragione principale è che la santificazione completa non è l’opera di un giorno o di un anno, ma di una vita. Inizia nel momento in cui una persona si converte e continua per tutta la vita. Ogni vittoria accelera il processo. Sono pochi i cristiani che non hanno acquisito il dominio su qualche peccato che prima li infastidiva molto e li vinceva. Molti uomini che sono stati schiavi dell’abitudine del tabacco hanno ottenuto la vittoria su tale abitudine e si rallegrano della loro vittoria. Il tabacco ha smesso di essere una tentazione. Non lo attira più. Questa è una vittoria. Su quel punto è stato santificato. Come ha ottenuto la vittoria su un punto, così deve diventare vittorioso su ogni peccato. Quando l’opera è completata, quando ha ottenuto la vittoria sull’orgoglio, l’ambizione, l’amore per il mondo – su ogni male – è pronto per la traslazione. È stato provato in tutti i punti. Il maligno è venuto da lui e non ha trovato nulla. Satana non ha più tentazioni per lui. Li ha superati tutti. Egli sta senza colpa davanti al trono di Dio. Cristo pone su di lui il Suo sigillo. È al sicuro ed è sano. Dio ha compiuto in lui la Sua opera. La dimostrazione di ciò che Dio può fare con l’umanità è completa.
Così sarà anche per l’ultima generazione di uomini che vivranno sulla terra. Attraverso di loro sarà data l’ultima dimostrazione di ciò che Dio può fare nell’umanità. Prenderà i più deboli tra i deboli, quelli che portano i peccati dei loro antenati, e in loro mostrerà la Sua potenza. Saranno sottoposti ad ogni tentazione, ma non cederanno. Dimostreranno che è possibile vivere senza peccare. Diventerà evidente a tutti che il Vangelo può davvero salvare fino in fondo, perché tutto ciò che Dio dice è verità.
Nell’ultimo atto del conflitto ci sarà la prova finale, ma nulla di ciò che il maligno può fare scuoterà gli eletti di Dio. Le piaghe cadranno, la distruzione sarà da ogni parte, la morte li guarderà in faccia, tuttavia manterranno salda la loro integrità. Niente potrà farli peccare. Essi “osservano i comandamenti di Dio e la fede di Gesù” {Apocalisse 14: 12}.
Nel corso della storia del mondo Dio ha avuto i Suoi fedeli. Hanno sopportato afflizioni e grandi tribolazioni. Ma anche in mezzo alle percosse di Satana, come dice l’apostolo Paolo, mediante la fede hanno “operato la giustizia”. “Furono lapidati, segati, tentati, morirono uccisi di spada, andarono in giro coperti di pelli di pecora e di capra, bisognosi, afflitti, maltrattati (il mondo non era degno di loro), erranti per deserti e monti, in spelonche e grotte della terra” {Ebrei 11: 37-38}.
E oltre a questa moltitudine di fedeli testimoni, molti dei quali sono stati martiri per la loro fede, Dio avrà negli ultimi giorni un residuo, “un piccolo gregge”, attraverso il quale darà all’universo una dimostrazione del Suo amore, della Sua potenza, della Sua giustizia. Il che, se escludiamo la vita divina di Cristo sulla terra e il Suo sacrificio supremo sul Calvario, sarà la dimostrazione più ampia e conclusiva in tutte le età di ciò che Dio può fare negli uomini.
È nell’ultima generazione di uomini che vivono sulla terra che la potenza di Dio per la santificazione sarà pienamente rivelata. La dimostrazione di quel potere è la rivendicazione di Dio, che Lo scagionerà da ogni accusa che Satana ha posto contro di Lui. Nell’ultima generazione Dio sarà rivendicato e Satana sconfitto.
Ribellione in cielo
La ribellione avvenuta in cielo e che ha introdotto il peccato nell’universo di Dio deve essere stata un’esperienza spaventosa sia per Dio che per gli angeli. Fino a quel momento tutto era in uno stato di pace e armonia. La discordia era sconosciuta; era l’amore a prevalere. Ma ambizioni empie agitarono il cuore di Lucifero. Egli decise di essere come l’Altissimo. Egli avrebbe voluto esaltare il suo trono al di sopra delle stelle di Dio; si sarebbe seduto “sul monte dell’assemblea, nella parte estrema del nord” {Isaia 14: 12-14}. Questa dichiarazione di intenti equivaleva a un tentativo di deporre Dio e usurpare il Suo posto. Era una dichiarazione di guerra. Dove sedeva Dio, Satana si sarebbe seduto. Dio accettò la sfida.
Non abbiamo una dichiarazione biblica diretta sui mezzi usati da Satana per convincere dalla sua parte la moltitudine di angeli, ma che abbia mentito è chiaro. Che sia stato un assassino fin dall’inizio è altrettanto indiscutibile {Giovanni 8: 44}. Poiché l’omicidio ha la sua origine nell’odio, e poiché questo odio ha trovato il suo frutto nell’uccisione del Figlio di Dio sul Calvario, possiamo credere che l’odio di Satana fosse diretto non solo contro Dio Padre, ma anche – e forse specialmente – contro Dio, il Figlio. Nella sua ribellione Satana è andato oltre una semplice minaccia. In realtà egli eresse il suo trono, dicendo con vanto: “Io sono un dio, io siedo su un trono di dèi” {Ezechiele 28: 2}.
Quando Satana stabilì così il suo governo in cielo, la questione fu chiara. Gli angeli avevano capito chiaramente il problema e tutti avrebbero dovuto prendere una posizione a favore o contro Satana.
In caso di ribellione c’è sempre qualche lamentela, reale o immaginaria, data come causa. Alcuni diventano insoddisfatti e, non riuscendo a rimediare, ricorrono alla ribellione e coloro che simpatizzano con la causa ribelle si uniscono. Gli altri rimangono fedeli al governo e devono, ovviamente, rischiare la vita per la sua sopravvivenza.
Apparentemente si è arrivati proprio a una situazione tale in paradiso. Il risultato fu la guerra. “E vi fu guerra in cielo: Michele e i suoi angeli combatterono contro il dragone; anche il dragone e i suoi angeli combatterono” {Apocalisse 12: 7}. L’esito poteva essere previsto. Satana e i suoi angeli “non vinsero e per loro non fu più trovato posto nel cielo. Così il gran dragone, il serpente antico, che è chiamato diavolo e Satana, che seduce tutto il mondo, fu gettato sulla terra; con lui furono gettati anche i suoi angeli” {Apocalisse 12: 8-9}.
Sebbene Satana sia stato sconfitto, non è stato distrutto. Con il suo atto di ribellione aveva dichiarato colpevole il governo di Dio, e con l’erezione del proprio trono aveva rivendicato una saggezza o una giustizia maggiori di quelle di Dio. Questo portò all’istituzione di un altro governo. Dio non poteva permettersi di non dare a Satana l’opportunità di dimostrare le sue teorie. Per rimuovere ogni dubbio nella mente degli angeli – e poi dell’uomo – Dio doveva lasciare che Satana continuasse la sua opera. Per questo motivo a Satana fu permesso di vivere e di stabilire il suo governo. Negli ultimi seimila anni Satana ha dato all’universo una dimostrazione di cosa potrebbe fare se solo ne avesse l’opportunità.
La dimostrazione di Satana
Questa manifestazione è stata autorizzata a continuare fino ad ora. E che dimostrazione è stata! Da quando Caino uccise Abele, sulla terra ci sono stati odio, spargimento di sangue, crudeltà e oppressione. Virtù, bontà e giustizia hanno sofferto; vizio, viltà e corruzione hanno trionfato. Il giusto è stato fatto preda; i messaggeri di Dio sono stati torturati e uccisi; la legge di Dio è stata calpestata. Quando Dio mandò Suo Figlio, invece di onorarlo, uomini malvagi, istigati da Satana, Lo appesero a un legno.
Anche allora Dio non distrusse Satana. Tale dimostrazione doveva essere completata. Solo quando avranno luogo gli ultimi eventi e gli uomini saranno sul punto di sterminarsi a vicenda, Dio interverrà per salvare i Suoi. Allora non rimarranno dubbi nella mente di chiunque; se Satana avesse il potere, distruggerebbe ogni traccia di bontà, scaccerebbe Dio dal trono, ucciderebbe il Figlio di Dio e stabilirebbe un regno di violenza fondato sull’egoismo e sull’ambizione crudele.
Ciò che Satana ha dimostrato è in realtà il suo carattere e fino a che punto porterà l’ambizione egoistica. All’inizio voleva essere come Dio. Era insoddisfatto della sua posizione di essere il più alto degli esseri creati. Voleva essere Dio. E tale manifestazione ha dimostrato che quando ci si concentra su questo obiettivo non ci si ferma più davanti a nulla per raggiungerlo. Chi si frappone deve essere tolto di mezzo. Se è Dio stesso, Egli deve essere rimosso.
Questa dimostrazione rende evidente che una posizione elevata non soddisfa un individuo ambizioso. Deve avere il massimo, e anche allora non sarà soddisfatto. Spesso una persona in una posizione umile è tentata di credere che sarebbe soddisfatta se la sua posizione fosse migliore. È sicuro di essere soddisfatto se avesse la posizione più alta possibile. Ma lo farebbe? Lucifero non lo fece. Aveva la posizione più alta possibile. Ma non era soddisfatto. Ne voleva una ancora più alta. Voleva essere Dio stesso. In questo senso si vede il contrasto tra Cristo e Satana. Satana voleva essere Dio. Lo desiderava così tanto che era disposto a fare qualsiasi cosa per raggiungere il suo obiettivo. Cristo, d’altra parte, non considerò qualcosa a cui aggrapparsi tenacemente l’essere uguale a Dio, ma svuotò sé stesso, prendendo la forma di servo, divenendo simile agli uomini; e, trovato nell’esteriore simile ad un uomo, abbassò sé stesso, divenendo ubbidiente fino alla morte e alla morte di croce {Filippesi 2: 6-8}. Era Dio, ma si fece uomo. E che questo non fosse solo un accordo temporaneo con l’unico scopo di mostrare la Sua volontà, è evidenziato dal fatto che rimarrà per sempre uomo. Satana si esaltò; Cristo si umiliò. Satana voleva diventare Dio; Cristo divenne uomo. Satana voleva sedere come Dio sul Suo trono; Cristo, come servo, si inginocchiò per lavare i piedi ai discepoli. Il contrasto è completo.
Lucifero
In cielo Lucifero era stato uno dei cherubini protettori {Ezechiele 28: 14}. Ciò si riferisce ai due angeli che nel “luogo santissimo” del santuario stavano sull’arca, coprendo il propiziatorio. Questo era senza dubbio il ruolo più alto che un angelo potesse svolgere, poiché l’arca e il trono della misericordia erano alla diretta presenza di Dio. Questi angeli erano i guardiani speciali della legge. Vegliavano su di essa, per così dire. E Lucifero era uno dei due.
{Ezechiele 28: 12} contiene un’interessante affermazione riguardo a Lucifero: “Tu eri il sigillo della perfezione, pieno di sapienza e perfetto in bellezza”. Il significato dell’espressione: “Tu eri il sigillo della perfezione” non è del tutto chiaro. La comprensione è suscettibile a svariate interpretazioni. Sembra evidente, tuttavia, che l’intento è quello di mostrare la posizione elevata e l’alto privilegio di Lucifero prima della sua caduta. Era una specie di primo ministro, un custode del sigillo di Dio.
Come in un governo terreno ci deve essere un documento o una legge con il sigillo attaccato per essere valido, così anche nel governo di Dio viene usato un sigillo. Dio sembra aver distribuito agli angeli un lavoro specifico, così come ha dato anche all’uomo il suo lavoro. Un angelo è responsabile del fuoco {Apocalisse 14: 18}. Un altro angelo ha il controllo delle acque {Apocalisse 16: 5}. E c’è anche un angelo che pone il “sigillo dell’Iddio vivente” {Apocalisse 7: 2}. Sebbene, come affermato di sopra, la lettura di {Ezechiele 28: 12} non sia del tutto chiara, alcuni si sentono giustificati nel tradurla: “Tu ponevi il sigillo della perfezione”. Se questa posizione è sostenibile e se Lucifero fosse stato il primo ministro e custode del sigillo, ciò fornirebbe un motivo in più sufficiente per il quale egli voglia sostituire il sigillo di Dio con il proprio marchio.
Che Satana sia stato molto attivo contro la legge è evidente. Se la legge di Dio è una trascrizione del Suo carattere, e se questo carattere è l’esatto opposto di quello di Satana, Satana ne è condannato. Cristo e la legge sono uno. Cristo è la legge in pratica, la legge si fece carne. Per questo la Sua vita costituisce una grande condanna nei confronti degli empi. Quando Satana ha combattuto contro Cristo, ha combattuto anche contro la legge. Quando odiava la legge odiava anche Cristo. Cristo e la legge sono inseparabili.
Un’affermazione interessante si trova nel {Salmo 40: 8}. Cristo parlando, dice: “Dio mio, io prendo piacere nel fare la tua volontà, e la tua legge è dentro il mio cuore”. Sebbene questa sia senza dubbio un’espressione poetica e non debba essere spinta troppo oltre, è tuttavia interessante la posizione elevata che viene data alla legge. “La tua legge è dentro il mio cuore”. Una pugnalata alla legge è una pugnalata al cuore di Cristo. Una pugnalata al cuore di Cristo è una pugnalata alla legge. Alla croce Satana voleva fare proprio questo. Ma Dio voleva che il risultato fosse diverso. La morte di Cristo doveva essere un tributo alla legge. Magnificava grandemente la legge e la rendeva onorevole.
Ciò avrebbe dato agli uomini una nuova visione della sua sacralità e del suo valore. Invece di abrogare la legge, Dio permise la morte di Suo Figlio e Cristo si donò volontariamente; se è più facile che il cielo e la terra passino invece che un iota, o un solo apice della legge {Matteo 5: 18}, allora quanto deve essere sacra e onorevole la Sua legge!
Quando il Cristo morì sulla croce dimostrò nella Sua vita la possibilità di osservare la legge. Satana non era riuscito a far peccare Gesù. Forse non si aspettava di poterlo fare. Ma se avesse potuto indurre Cristo a usare la Sua potenza divina per salvarsi, avrebbe ottenuto una vittoria. Se Cristo lo avesse fatto, Satana avrebbe potuto invalidare la dimostrazione che Dio intendeva dare all’umanità, vale a dire che era possibile per gli uomini osservare la legge. Perciò Satana fu sconfitto. Ma fino all’ultimo ha continuato ad avanzare la stessa tattica. Giuda sperava che Cristo si sarebbe liberato, usando il Suo potere divino per salvarsi. Sulla croce Cristo fu schernito: “Egli ha salvato gli altri e non può salvare sé stesso” {Matteo 27: 42}. Ma Cristo non ha vacillato. Avrebbe potuto salvarsi, ma non lo fece. Satana era sconcertato. Non riusciva a capire. Quando Cristo morì senza che Satana fosse riuscito a farlo peccare, egli si rese conto che il potere del suo regno stava per terminare. Nella Sua morte Cristo fu vincitore. Ma Satana non si arrese. Aveva fallito nel suo conflitto con Cristo, ma poteva ancora riuscirci con gli uomini. Così “il dragone allora si adirò contro la donna e se ne andò a far guerra col resto della progenie di lei, che custodisce i comandamenti di Dio ed ha la testimonianza di Gesù Cristo” {Apocalisse 12: 17}.
La dimostrazione di Dio
La dimostrazione che Dio intende dare con l’ultima generazione sulla terra è molto significativa, sia per il popolo che per Dio. La legge di Dio può davvero essere osservata? Questa è una domanda vitale. Molti negano che si possa fare; altri invece dicono disinvoltamente che si possa. Quando si considera l’intera questione dell’osservanza dei comandamenti, ciò presuppone le grandi proporzioni della legge di Dio che è estremamente ampia; essa prende in considerazione i pensieri e le intenzioni del cuore. Giudica i motivi così come gli atti, i pensieri e le parole. L’osservanza dei comandamenti significa l’intera santificazione, una vita santa, una fedeltà incrollabile alla giustizia, l’intera separazione dal peccato e la vittoria su di esso. L’uomo mortale potrebbe quindi gridare: “Chi è in grado di adempiere queste cose?”. Eppure, realizzare un popolo che osservi la legge è il compito che Dio si è prefissato e che Egli si aspetta di compiere. La dichiarazione di sfida pronunciata da Satana dice quanto segue: “Nessuno può osservare la legge. È impossibile. Se c’è qualcuno che può farlo o che lo ha fatto, mostrameli. Dove sono coloro che osservano i comandamenti?”. Ma Dio risponderà tranquillamente: Eccoli! “Qui è la costanza dei santi; qui sono coloro che osservano i comandamenti di Dio e la fede di Gesù” {Apocalisse 14: 12}.
Diciamolo con riverenza: Dio deve affrontare la sfida di Satana. Non è un piano di Dio, né una parte del Suo proposito, sottoporre gli uomini a prove che solo pochi eletti possono sopportare. Nel Giardino dell’Eden, Dio sottopose Adamo ed Eva alla prova più semplice in assoluto. Nessuno può dire che i nostri primogenitori siano caduti perché la prova fosse troppo difficile per loro. Se fossero caduti, non sarebbe stato perché la prova era dura o perché non avevano avuto sufficiente forza per resistere. La tentazione non era costantemente davanti a loro. Satana non aveva il permesso di sedurli ovunque. Aveva accesso a loro in un solo posto, vale a dire, presso l’albero della conoscenza del bene e del male. Erano al corrente di quel posto. Avrebbero potuto starsene alla larga se avessero voluto. Satana non poteva seguirli ovunque. Se andarono dov’era Satana, era perché lo volevano. Ma anche se fossero andati lì solo per esaminare l’albero, non era necessario che rimanessero proprio lì. Potevano andarsene. E anche se Satana avesse loro offerto il frutto, non era necessario che lo mangiassero. Ma lo presero e lo mangiarono. E lo fecero perché lo volevano, non perché dovessero farlo. Hanno deliberatamente trasgredito. Non vi erano scuse. Dio non avrebbe potuto escogitare una prova più facile.
Quando Dio comanda agli uomini di osservare la Sua legge, non è perché ha in mente di farla osservare solo a pochi uomini, quel tanto che basta per dimostrare che si possa fare. Non è in linea con il carattere di Dio scegliere uomini eccezionali, con un carattere forte e una formazione superba, per dimostrare attraverso di loro ciò che Egli può fare. Sarebbe molto di più, e anche più in armonia con il Suo progetto, fare si che anche i più deboli non vengano meno, così che nessuno possa mai dire che Dio esige ciò che solo pochi possono fare. È per questo motivo che Dio ha riservato la Sua più grande dimostrazione per l’ultima generazione. Questa generazione porta i risultati dei peccati accumulati. Tra tutte le generazioni questa è la più debole. È quella che ha più di tutte terribili tendenze ereditarie. Questa generazione è quella che fra tutte potrebbe avere per davvero una scusa per le loro debolezze di qualsiasi tipo. Quindi, se questi possono osservare i comandamenti, non ci saranno scuse per nessuno in alcun’altra generazione che gli ha preceduti.
Ma questo non basta. Attraverso la Sua dimostrazione, Dio intende mostrare non solo che gli uomini comuni dell’ultima generazione possono superare con successo una prova come quella che ha dato ad Adamo ed Eva, ma che possono sopravvivere a una prova molto più difficile. Saranno messi alla prova al massimo.
“avete udito parlare della pazienza di Giobbe, e avete visto la sorte finale che il Signore gli riserbò, poiché il Signore è pieno di misericordia e di compassione” {Giacomo 5: 11}. Giobbe ha attraversato alcune esperienze che si ripeteranno nella vita degli eletti dell’ultima generazione. Può essere opportuno prenderle in considerazione.
La prova di Giobbe
Giobbe era un brav’uomo. Dio si fidava di lui. Giorno dopo giorno offriva sacrifici per i suoi figli. “Può darsi che i miei figli abbiano peccato e abbiano bestemmiato Dio nel loro cuore”, diceva {Giobbe 1: 5}. Egli era prospero e godeva della benedizione di Dio.
Poi “un giorno avvenne che i figli di DIO andarono a presentarsi davanti all’Eterno e in mezzo a loro andò anche Satana” {Giobbe 1: 6}. Ciò che segue sarà una conversazione tra il Signore e Satana che riguardava Giobbe. Il Signore diceva che Giobbe è un uomo buono, cosa che Satana non negava, ma insisteva sul fatto che Giobbe fosse timorato di Dio solo perché lo proteggeva. Affermava che se Dio togliesse le Sue misericordie, Giobbe avrebbe maledetto Dio. La dichiarazione di Satana ha la forma di una sfida e Dio l’accetta. A Satana venne concesso il permesso di portare via le proprietà di Giobbe e di causargli dolore, ma non avrebbe potuto toccare la persona di Giobbe; Satana procedette immediatamente e fece ciò che gli fu permesso di fare. Le proprietà di Giobbe vennero spazzate via e i suoi figli vennero uccisi.
Quando ciò avvenne: “Allora Giobbe si alzò, si stracciò il suo mantello e si rase il capo; poi cadde a terra e adorò, e disse: «Nudo sono uscito dal grembo di mia madre e nudo vi ritornerò. L’Eterno ha dato e l’Eterno ha tolto. Sia benedetto il nome dell’Eterno». In tutto questo Giobbe non peccò e non accusò DIO di alcuna ingiustizia” {Giobbe 1: 20-22}.
Satana è sconfitto, ma fa un altro tentativo. Al successivo incontro con il Signore, senza ammettere la sconfitta, afferma che Dio non gli aveva permesso di toccare la persona di Giobbe. Se l’avesse fatto, sostenne, Giobbe avrebbe peccato. L’affermazione è di nuovo una sfida e Dio l’accetta. Satana ha il permesso di tormentare Giobbe ma non di togliergli la vita. E partì subito per la sua missione.
Tutto ciò che il maligno poteva fare, Satana lo fece a Giobbe, ma Giobbe sopporta pazientemente. Sua moglie gli consiglia di arrendersi, ma lui non vacilla. Nonostante un intenso dolore fisico e un’angoscia mentale rimane saldo. Ancora una volta viene registrato il fatto che Giobbe superò la prova. “In tutto questo Giobbe non peccò con le sue labbra” {Giobbe 2: 10}. Satana è sconfitto e non compare più nel libro.
Nei capitoli successivi del libro di Giobbe ci viene presentata la lotta in corso nella mente di Giobbe. È molto perplesso. Perché tutta questa calamità è caduta su di Lui? Non è consapevole di alcun peccato. Perché, allora, Dio dovrebbe affliggerlo? Lui, ovviamente, non conosce la sfida di Satana. Né sa che Dio dipende da lui nella crisi che sta attraversando. Tutto quello che sa è che da un cielo sereno è venuto su di lui un disastro che gli ha tolto famiglia, proprietà, e lasciandolo con una malattia ripugnante che quasi lo travolge. Non capisce, ma conserva la sua integrità e fede in Dio. Questo Dio sapeva che l’avrebbe fatto, anche se Satana disse che non ce l’avrebbe fatta.
Umanamente parlando, Giobbe non aveva meritato la punizione che gli era venuta. Dio stesso dice che era senza motivo. “Tu [Satana] mi abbia istigato contro di lui per rovinarlo senza alcun motivo” {Giobbe 2: 3}. L’intero esperimento può quindi essere giustificato solo considerandolo come una prova specifica, escogitata per uno scopo specifico. Dio voleva mettere a tacere l’accusa di Satana secondo cui Giobbe serviva a Dio solo per uno scopo di lucro. Voleva dimostrare che vi era almeno un uomo che Satana non poteva controllare. Giobbe ne soffrì, ma sembrava che non ci fosse altro modo. In seguito, però, gli fu data una ricompensa.
Il caso di Giobbe è stato registrato per uno scopo. Pur riconoscendo la sua storicità, riteniamo che abbia anche un significato più ampio. Il popolo di Dio negli ultimi giorni vivrà un’esperienza simile a quella di Giobbe. Saranno messi alla prova come lui; gli sarà tolta ogni proprietà terrena; Satana avrà il permesso di tormentarli. Oltre a ciò, lo Spirito di Dio sarà ritirato dalla terra e la protezione dei governi terreni sarà rimossa. Il popolo di Dio sarà lasciato solo a combattere con i poteri delle tenebre. Rimarranno perplessi, come lo era Giobbe. Ma essi, come lui, manterranno salda la loro integrità.
Nell’ultima generazione il carattere di Dio sarà rivendicato, mentre Satana andrà incontro alla sua sconfitta. L’accusa che la legge non può essere osservata sarà completamente confutata. Dio confermerà non solo uno o due persone che osservano i Suoi comandamenti, ma un intero gruppo, chiamato i “144.000”. Essi rifletteranno pienamente l’immagine di Dio e smentiranno l’accusa di Satana contro il governo del cielo.
Il governo di Dio sotto processo
Quando, in cielo, Satana fece le sue accuse contro Dio, esse costituivano in realtà un vero e proprio colpo di stato. Molti degli angeli credettero alle sue accuse e un terzo degli angeli si schierarono dalla parte dell’accusatore. Non è stata una crisi da poco. Essa minacciava l’esistenza stessa del governo di Dio. Come avrebbe dovuto affrontarla Dio?
L’unica modalità in cui la questione poteva essere risolta una volta per sempre, era che Dio sottoponesse il Suo caso alle regole di un normale banco di prova. Era o non era giusto il governo di Dio? Dio diceva che lo era; Satana diceva che non lo era. Dio avrebbe potuto distruggere Satana. Ma ciò non dimostrerebbe giusta la Sua causa, anzi sarebbe stato controproducente. Non c’era altro modo che per ciascuna parte di presentare le proprie prove, portare i propri testimoni e basare il proprio caso sul peso della testimonianza addotta.
L’immagine, quindi, è quella di un tribunale. È in gioco il governo di Dio. Satana è l’accusatore; Dio stesso è l’accusato ed è sotto processo. È stato accusato di ingiustizia, di aver richiesto alle Sue creature di fare ciò che non potevano fare, e tuttavia di punirle per non averlo fatto. La legge è il punto più sotto attacco, ma essendo la legge semplicemente una trascrizione del carattere di Dio, è Dio e il Suo carattere ad essere accusati.
Affinché Dio possa sostenere la Sua difesa, è necessario che dimostri di non essere stato arbitrario, che la legge non è dura e crudele nelle sue richieste, ma al contrario, che è santa, giusta e buona, e che gli uomini possono osservarla. È necessario che Dio porti almeno un uomo che ha osservato la legge. In assenza di un tale uomo, Dio perde e Satana vince. Il risultato dipende quindi da uno o più che osservano i comandamenti di Dio. È sulla base di questo che Dio sta puntando per salvare il Suo governo. E poiché molti, di tanto in tanto, hanno dedicato la loro vita a Dio e hanno vissuto senza peccare per dei periodi di tempo, Satana afferma che questi sono casi speciali, come ad esempio Giobbe, e non rientrano tra le norme. Per questo motivo è necessario che esista un caso evidente in cui non ci possano essere dubbi e in cui Dio non ha interferito. È possibile portare un’istanza del genere?
L’ultima generazione
Dio è pronto per la sfida. Egli ha fissato il termine. La dimostrazione suprema è stata riservata per il tempo della fine. Nell’ultima generazione Dio sceglierà i Suoi eletti. Dio non prenderà i forti o i potenti, non gli onorati o i ricchi, non i saggi o i dotti, ma le persone semplici e deboli, e attraverso di loro darà la Sua ultima dimostrazione. Satana ha affermato che coloro che in passato hanno servito Dio lo hanno fatto per motivi di convenienza, da una parte perché Dio li ha viziati e dell’altra perché lui, Satana, non ha avuto libero accesso alle loro persone. Se gli fosse stato dato il pieno permesso di portare avanti la sua causa, anche loro sarebbero stati conquistati. Ma l’accusa principale è che Dio ha paura di lasciarglielo fare. “Dammi la possibilità”, dice Satana, “e vincerò”.
E così, per mettere a tacere per sempre le accuse di Satana; per rendere evidente che il Suo popolo Lo sta servendo per motivi di lealtà e di giustizia, senza alcuna ricompensa; per riscattare il proprio nome e carattere da quelle accuse di ingiustizia e arbitrarietà. E anche per mostrare agli angeli e agli uomini che la Sua legge può essere osservata dal più debole degli uomini nelle circostanze più scoraggianti e sfavorevoli, Dio permetterà a Satana, nell’ultima generazione, di mettere alla prova il Suo popolo al massimo. Saranno minacciati, torturati, perseguitati. Saranno faccia a faccia con la morte quando sarà emanato il decreto di adorare la bestia e la sua immagine {Apocalisse 13: 15}. Ma non cederanno. Saranno disposti persino a morire piuttosto che a peccare.
Dio rimuoverà il Suo Spirito dalla terra. Satana avrà un controllo maggiore di quanto non abbia mai avuto prima. È vero, potrebbe non avere il permesso di uccidere il popolo di Dio, ma questa sembra essere l’unica limitazione. Si servirà di ogni stratagemma in suo potere. Sa cosa c’è in gioco. Ora o mai più.
Dio, per completare la Sua dimostrazione, invece farà un’altra cosa. Si nasconderà. Il santuario celeste cesserà di operare, verrà chiuso. I santi grideranno a Dio giorno e notte per la liberazione, ma sembrerà che Egli non risponda. Gli eletti di Dio passeranno per il Getsemani. Vivranno un piccolo assaggio dell’esperienza di Cristo in quelle tre ore sulla croce. Apparentemente dovranno combattere le loro battaglie da soli. Dovranno vivere al cospetto di un Dio santo senza un intercessore.
Ma sebbene Cristo abbia terminato la Sua intercessione, i santi sono ancora oggetto dell’amore e della cura di Dio. Santi angeli vegliano su di loro. Dio fornisce loro riparo dai nemici; fornisce loro cibo, li protegge dalla distruzione e fornisce grazia per poter vivere una vita santa {Salmi 91}. Eppure sono ancora nel mondo, ancora tentati, afflitti, tormentati.
Supereranno la prova? Agli occhi umani sembra impossibile. Se solo Dio venisse in loro soccorso, tutto andrebbe bene. Sono determinati a resistere al maligno. Se necessario moriranno, ma non peccheranno. Satana non ha il potere, e non lo ha mai avuto, di far peccare un uomo. Può tentare, può sedurre, può minacciare; ma non può costringere. E ora Dio dimostra attraverso il più debole tra i deboli che non esistono scuse, e non ce ne sono mai state, per peccare. Se gli uomini dell’ultima generazione possono respingere con successo l’attacco di Satana; se possono farlo con tutti gli svantaggi e le circostanze contro di loro, mentre il santuario è chiuso, quale scusa ci sarà per il peccato degli uomini?
I 144.000
Nell’ultima generazione Dio darà la dimostrazione finale che gli uomini possono osservare la legge di Dio e che possono vivere senza peccare. Dio non lascia nulla di intentato per completare la Sua dimostrazione. L’unico limite imposto a Satana è che non potrà uccidere i [144.000] santi di Dio. Potrà tentarli, sedurli e minacciarli – e farà del suo meglio – ma non potrà farli peccare. Resisteranno alla prova e Dio porrà su di loro il Suo sigillo.
Attraverso l’ultima generazione di santi, Dio sarà finalmente rivendicato. Attraverso di loro sconfiggerà Satana e vincerà la Sua causa. Essi costituiranno una parte vitale del piano di Dio. Attraversando lotte formidabili, combattendo contro i poteri invisibili in luoghi alti, hanno riposto la loro fiducia nell’Altissimo e non se ne vergognano. Hanno sofferto la fame e la sete, ma ora “non avranno più fame né sete non li colpirà più né il sole né arsura alcuna, perché l’Agnello, che è in mezzo al trono, li pascolerà e li guiderà alle vive fonti delle acque; e Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi” {Apocalisse 7: 16-17}.
“Essi sono quelli che seguono l’Agnello, dovunque egli va” {Apocalisse 14: 4}. Quando finalmente le porte del tempio si apriranno, risuonerà una voce: “Solo i 144.000 entrano in questo luogo” {Primi scritti, PS 36.3}. Per fede, hanno seguito l’Agnello fino qui. Sono andati con Lui nel “luogo santo”; Lo hanno seguito anche nel “luogo santissimo”. E nell’aldilà solo coloro che Lo hanno seguito in questo modo qui, Lo seguiranno anche là. Saranno re e sacerdoti. Lo seguiranno nel “luogo santissimo”, dove solo il Sommo Sacerdote può entrare. Staranno alla presenza diretta di Dio. Lo seguiranno “dovunque egli va”. Non solo saranno “davanti al trono di Dio e lo servono giorno e notte nel suo tempio” {Apocalisse 7: 15}, ma siederanno con Lui sul Suo trono, proprio come anche Lui ha vinto, e si è seduto con Suo Padre sul Suo trono {Apocalisse 3: 21}.
La questione di maggiore importanza nell’universo non è la salvezza degli uomini, per quanto importante possa sembrare. La cosa più importante è ripristinare il nome di Dio dalle false accuse mosse da Satana. La controversia sta volgendo al termine. Dio sta preparando il Suo popolo per l’ultimo grande conflitto. Anche Satana si sta preparando. La questione è davanti a noi e sarà decisa dalla vita del popolo di Dio. Dio dipende da noi come è successo anche con Giobbe. La Sua fiducia è ben riposta in noi?
È un meraviglioso privilegio che è stato concesso al popolo di Dio, quello di aiutarlo a riabilitare il Suo nome mediante la nostra testimonianza. È meraviglioso che ci sia permesso di testimoniare per Lui. Non si deve mai dimenticare, però, che questa testimonianza è una testimonianza della vita, non solo a parole. “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini” {Giovanni 1: 4}. Così è stato per Cristo, così deve essere anche per noi. La nostra vita dovrebbe essere una luce, come lo è stata la Sua. Dare alle persone la luce è più che consegnare loro un volantino. La nostra vita è questa luce. Mentre viviamo, diamo luce agli altri. Senza vita, senza il nostro vivere la luce, le nostre parole rimarranno solo parole. Ma quando la nostra vita diventa luce, le nostre parole diventano efficaci. Sarà la nostra vita che testimonierà per Dio.
Possa la chiesa di Dio apprezzare il grande privilegio qui presentato: “I miei testimoni siete voi, dice l’Eterno” {Isaia 43: 10}. Non ci deve essere “alcun dio straniero tra di voi; perciò voi siete miei testimoni, dice l’Eterno, e io sono Dio” {Isaia 43: 12}. Possiamo noi essere davvero testimoni, testimoniando ciò che Dio ha fatto per noi!
Tutto questo è strettamente connesso con l’opera nel “giorno dell’Espiazione”. In quel giorno il popolo d’Israele, dopo aver confessato i suoi peccati, era completamente purificato. Erano già stati perdonati, ma ora il peccato era del tutto separato da loro. Erano santi e senza colpa. L’accampamento d’Israele era puro.
Noi ora stiamo vivendo il grande giorno anti-tipico della purificazione del santuario. Ogni peccato deve essere confessato e per fede essere inviato in anticipo al giudizio. Come il sommo sacerdote entrava nel luogo santissimo, così ora il popolo di Dio deve stare faccia a faccia con Dio. Ogni peccato deve essere confessato, non deve rimane alcuna macchia di male. La purificazione del santuario in cielo dipende dalla purificazione del popolo di Dio sulla terra. Quanto è importante, dunque, che il popolo di Dio sia santo e senza colpa! In loro ogni peccato deve essere bruciato, affinché possano stare davanti a un Dio santo e vivere insieme al fuoco divorante.
“O voi che siete lontani, udite ciò che ho fatto; e voi che siete vicini, riconoscete la mia potenza». In Sion i peccatori sono presi da spavento, un tremore si è impadronito degli empi: «Chi di noi potrà dimorare con il fuoco divorante? Chi di noi potrà dimorare con le fiamme eterne?». Colui che cammina giustamente e parla rettamente, colui che disprezza i guadagni distorti, che scuote le mani per non accettare regali, che si tura gli orecchi per non udire parlare di sangue e chiude gli occhi per non vedere il male, costui dimorerà in luoghi elevati, le rocche fortificate saranno il suo rifugio; il suo pane gli sarà dato, la sua acqua gli sarà assicurata” {Isaia 33: 13-16}.
C’è una tendenza sempre più crescente all’incredulità in una risurrezione corporea. I critici ne hanno già da tempo scartato l’idea, ma anche i cristiani di stampo più conservatore tendono a fare la stessa cosa. Non vedono più alcun bisogno di una resurrezione del corpo se l’esistenza futura è interamente spirituale.
Per lo stesso motivo ritengono superfluo un giudizio futuro. Se l’anima sta già godendo della beatitudine dell’esistenza eterea, o se sta già sperimentando le torture dei dannati, sembrerebbe assurdo il ruolo di un giudizio. Ciò avrebbe dovuto aver luogo prima di decidere la futura condizione, non dopo. Credere nell’immediata beatificazione o nella dannazione subito dopo la morte rende non solo inutile ma anche incoerente un futuro giudizio alla fine del mondo.
La Bibbia è chiara nelle sue affermazioni su questi due argomenti. Esiste una resurrezione corporea ed esiste un giudizio. La Bibbia insegna entrambi. Poiché qui ci occuperemo principalmente del giudizio, ci limiteremo ad esso in questo studio, osservando solo di passaggio quello che ha a che fare con la resurrezione del corpo.
L’idea di un giudizio alla fine del mondo presuppone che gli uomini non abbiano parte della loro punizione o ricompensa alla morte. Questo sembra ragionevole a prescindere dall’essere supportato da prove bibliche. Ma consideriamo ciò un po’ più nel dettaglio.
Dando per scontato il ruolo della fede sia nella punizione che nella ricompensa, vorremmo prima osservare che nessun uomo può essere completamente giudicato alla morte. Nonostante la sua vita sia terminata, la sua influenza, però, continua e le sue “opere lo seguono”. Se siamo responsabili della nostra influenza – e questo deve essere ammesso – il registro delle nostre opere non può essere compilato completamente fino alla fine dei tempi.
Dicendo questo non vogliamo fare credere che gli uomini non decidano il loro destino al momento della morte, poiché è proprio così; ma ciò che desideriamo affermare è che, a meno che il giudizio non presupponga una punizione o una ricompensa identica per tutti, il verbale delle nostre opere non può essere ultimato quando moriamo. Anche nei tribunali terreni si attende l’esito di un delitto commesso prima della pronuncia del giudizio. Se, in una mischia un uomo viene ferito, il giudizio si basa non sull’effetto immediato ma sull’esito finale della sparatoria. L’uomo ferito può indugiare per una settimana o due, o anche un mese. Il criminale non può pretendere un processo e un giudizio immediati, basati, come dovrebbe essere, sul fatto che il ferito non è ancora morto, e che quindi il criminale non è stato colpevole di omicidio.
Un uomo è responsabile di qualcosa di più dell’effetto immediato dei suoi atti. Sembra del tutto più ragionevole che il giudizio venga ritardato fino a quando tutti i fatti non siano stati accertati, momento in cui si può arrivare a una stima giusta. Se ammettiamo che alcuni saranno puniti con molte percosse e altri con poche {Luca 12: 48}, il giudizio non può e non deve aver luogo finché non si possono considerare tutti i fattori. Questo può essere fatto solo nel momento in cui Dio designa la fine del mondo. In armonia con questa è l’affermazione che “il Signore sa liberare i pii dalla prova e riservare gli ingiusti per essere puniti nel giorno del giudizio” {2 Pietro 2: 9}.
I santi sono i giudici
Gli empi devono essere giudicati dai giusti. “Non sapete voi che i santi giudicheranno il mondo? E se il mondo è giudicato da voi, siete voi indegni di giudicare dei piccoli problemi?” {1 Corinzi 6: 2}. Come gli angeli hanno la loro opera da svolgere in cielo, così anche i redenti avranno la loro parte. Dio fa conoscere i Suoi piani ai Suoi e affida loro delle responsabilità. Ai santi è conferito sia il privilegio che la responsabilità del giudizio. Umanamente parlando, Dio non vuole correre alcun rischio che si ripeta un’altra ribellione. È concepibile quindi che alcune persone saranno perse e che altre saranno salvate. Se qualcuno dovesse mancare in paradiso, potrebbe sorgere nella mente degli altri la domanda sul perché. Potrebbe essere stata una persona cara, che abbiamo amato e per la quale abbiamo pregato. Ma è stata persa. Non conosciamo le circostanze; non sappiamo il perché. Ma se abbiamo avuto una parte nel giudizio; se noi stessi abbiamo esaminato il caso ed esaminato le prove; se dopo aver soppesato tutti i fattori, abbiamo finalmente concluso che l’uomo non voleva essere salvato e non sarebbe stato felice in cielo, nessuna domanda sorgerà mai nella nostra mente sulla giustizia di ciò che è stato fatto. Abbiamo avuto una parte nel giudizio; ora lo sappiamo, perché eravamo là e siamo soddisfatti. Inoltre, questa disposizione assicura sia un giudizio giusto che misericordioso. Alcuni di quelli che si perderanno li abbiamo amati. Abbiamo pregato per loro. Siamo stati gentili con loro fino all’ultimo. Nessuno sarà punito più di quanto meriti, perché è il piano di Dio che lo assicura.
Va notato che i santi devono avere una parte nel giudicare coloro che hanno conosciuto. Se uno degli scopi di Dio nel permetterci di avere una parte nel giudizio è assicurarsi che nessun dubbio possa mai sorgere nella nostra mente, i santi devono giudicare la loro stessa generazione e le loro stesse conoscenze. Questo è sia terribile che buono. Dio non deve correre il rischio che qualcuno dica o pensi: “Alcuni dei miei amici si sono persi e non ho mai avuto la possibilità di scoprire cosa è successo. Pensavo che sarebbero stati salvati. Li capivo meglio di chiunque altro. Vorrei aver saputo un po’ di più del loro caso”. Tutti saranno soddisfatti della giustizia e della misericordia di Dio. Il piano di Dio sarà correttamente organizzato e sapremo il perché certe persone si sono perse. Avremo una parte nel loro giudizio.
Nessun giudizio alla morte
Se quanto detto fin qui è corretto, non ci può essere giudizio alla morte. Un gruppo di cristiani sta pregando per un giovane ribelle. Giorno dopo giorno, anno dopo anno pregano, ma senza risultato. Poi improvvisamente il giovane muore. E il giudizio? Chi lo conosce, chi ha pregato per lui, è ancora vivo. Se il giovane dovesse essere giudicato immediatamente dai santi, tutti dovrebbero morire immediatamente se vogliono prendere parte al suo giudizio. Altrimenti dovrebbe essere giudicato da altri, che non lo hanno conosciuto. Questo vale per tutti i malvagi che siano mai vissuti. Riteniamo quindi che se gli empi devono essere giudicati dai santi, non possono essere giudicati nel momento della loro morte. Dio dice che i malvagi sono riservati per il giudizio alla fine del mondo.
Se è vero che ogni generazione comprende meglio sé stessa e dovrebbe essere giudicata alla luce della propria conoscenza, così che un peccatore dell’Antico Testamento non dovrebbe essere giudicato secondo gli standard del Nuovo Testamento, è anche vero che prima che possa aver luogo qualsiasi giudizio coerente, ci deve essere una certa conoscenza delle regole e dei principi guida generali. Ciò presuppone istruzione ed educazione, e questa istruzione deve basarsi su tutti i fattori coinvolti. Bisogna fare i conti con la morte di Cristo, la Sua espiazione e i Suoi insegnamenti. In considerazione di ciò, come avrebbero potuto i santi delle prime generazioni sulla terra giudicare i malvagi della loro generazione? È evidente che l’idea che i santi abbiano una qualche parte nel giudizio deve essere abbandonata se tale giudizio ha luogo nel momento della morte. Ma Dio ha concepito questo progetto del giudizio in modo ammirevole. La partecipazione dei santi al giudizio renderà il paradiso un luogo sicuro e porrà un’efficace barriera contro ulteriori interrogativi e dubbi.
Giudizio investigativo
E il giudizio dei giusti? È evidente che un qualche tipo di indagine deve aver luogo prima che sia loro permesso di entrare nella beatitudine eterna. Bisogna decidere se la loro vita e il loro atteggiamento giustifichino il loro entrare nella vita eterna; e questa decisione deve essere presa prima che il Signore venga per portarli a casa.
Gli empi non sono distrutti fino alla fine dei mille anni {Apocalisse 20: 5}. Questo dà tempo abbondante per giudicarli dopo la venuta del Signore. Ma non può essere così con i giusti. Se devono essere giudicati, è necessario che venga loro assegnata una ricompensa, i loro casi devono essere decisi prima che il Signore venga. Quando Egli viene, la Sua ricompensa è con Lui {Apocalisse 22: 12}. Quindi la loro condizione deve essere determinata in anticipo.
Alcuni sono contrari a questo insegnamento. Non credono che ci sarà un giudizio dei giusti prima della venuta del Signore. Eppure, sembra così coerente. I casi dei giusti devono essere risolti prima della venuta del Signore, altrimenti come si può sapere chi sarà salvato e chi no? La Bibbia chiama tale fase: “l’ora del suo giudizio” {Apocalisse 14: 7}, in contrasto con “il giorno del giudizio” {Atti 17: 31}. Ricordiamo però che il giudizio investigativo ha a che fare solamente con il giudizio dei giusti.
Sembra del tutto appropriato che quando si pone la questione: “chi sarà salvato?”, gli angeli siano presenti, sia per testimoniare che per seguirne il procedimento {Daniele 7: 9-10}. Si sono preoccupati del nostro benessere; essendo loro “spiriti servitori, mandati a servire per il bene di coloro che hanno da ereditare la salvezza” {Ebrei 1: 14}. Nel corso dei secoli dovremmo associarci e stare con loro, per questo motivo hanno il diritto di sapere chi sarà ammesso nelle dimore celesti. Anche questo è il piano di Dio. Gli angeli hanno sperimentato alcuni dei risultati del peccato. Hanno visto Lucifero apostatare. Hanno visto milioni di angeli cadere con lui. Hanno visto il Salvatore soffrire e morire, e conoscono la miseria che ha causato il peccato. Sono estremamente interessati a sapere chi otterrà la vita eterna. Non hanno alcun desiderio di ripetere l’esperienza del peccato attraverso la quale sono passati. Ecco perché anche loro fanno parte del saggio piano di Dio.
Il “giorno dell’Espiazione” è un tipo adatto del “giorno del giudizio”. Sarebbe bene per il lettore rivedere il capitolo sul “giorno dell’Espiazione” alla luce della presente discussione. In quel giorno si faceva una separazione tra il giusto e l’empio. La decisione dipendeva interamente da chi aveva confessato i propri peccati e chi no. Coloro che avevano portato le loro offerte e rispettato il rituale avevano cancellato i loro peccati. Gli altri venivano eliminati dal popolo.
Non viene menzionato che nel santuario terreno si tenesse alcuna registrazione di chi portava durante l’anno dei sacrifici. Sebbene possibile, è improbabile che esistesse un tale registro. Sappiamo, tuttavia, che il sangue posto sui corni degli altari costituiva di per sé una testimonianza {Geremia 17: 1}. Dio aveva comandato che fossero portati dei sacrifici. Crediamo che abbia rispettato il Suo stesso comando e abbia annotato coloro che Lo hanno servito con verità e rettitudine. Nel Suo libro furono registrati come fedeli.
Riguardo al giudizio dell’ultimo giorno sta scritto questo: “E se qualcuno non fu trovato scritto nel libro della vita, fu gettato nello stagno di fuoco” {Apocalisse 20: 15}. Questo testo parla decisamente del “libro della vita”, e dice che solo i nomi di coloro che si trovano scritti saranno salvati. Nota la lettura: “E se qualcuno non fu trovato scritto nel libro della vita”. Ciò suggerisce un’esaminazione del libro per trovare quali nomi sono registrati. “E se qualcuno non fu trovato”. Cos’è questa se non un’indagine? È come se fosse dato il comando: “Guarda se questo nome si trova nel libro”. Ed ecco la risposta: “L’ho trovato” o “Non l’ho trovato”. Entrambi i rapporti indicano un’indagine. L’espressione: “se qualcuno non fu trovato”, giustifica la tesi secondo cui vi è un esame del registro, con una conseguente separazione o per la salvezza o per la condanna.
Gli angeli hanno una parte nel giudizio
È quindi evidente che deve esserci un’indagine dei registri tenuti in cielo prima della venuta del Signore. È vero che Dio potrebbe risolvere in un momento, se Lo desiderasse, tutte le questioni sul destino futuro di ciascuno. Egli potrebbe decidere con infallibile precisione quale parte dell’umanità sarebbe per la dannazione e quale per la salvezza. Ma Dio non poteva fare questo, e allo stesso tempo permettere agli angeli e agli uomini di avere una parte nel giudizio. Ciò è di vitale importanza. Dio deve fare di tutto per salvaguardare l’esistenza futura. Gli uomini, esaminando da loro stessi, devono essere certi della giustizia della punizione inflitta. Gli angeli, che hanno servito gli uomini, devono essere presenti anche loro quando i santi vengono giudicati. Per questo motivo esistono i libri. Per questo milioni di angeli sono presenti al giudizio {Daniele 7: 10}. Dio fa ogni passo necessario per rendere sicuro il futuro. Il cielo e la terra devono essere protetti. Dio non ammetterà alla beatitudine del cielo e al privilegio della vita eterna milioni di esseri umani senza che gli angeli lo approvino; e diciamo con grande riverenza. Gli angeli hanno attraversato delle terribili esperienze a causa del peccato. Hanno visto milioni dei loro compagni angeli perduti. Hanno visto Cristo morire sulla croce. Hanno conosciuto il dolore del Padre a causa del peccato. Non dovrebbero forse interessarsi alla questione dell’ammissione alla vita eterna di milioni di peccatori redenti? Non dovrebbero forse avere la certezza che ammettere uomini in cielo non significhi ammettere in esso il peccato? Ovviamente, parliamo alla maniera degli uomini. Ma crediamo che dovrebbero avere una tale sicurezza. E noi crediamo che Dio gliela darà. Sono presenti quando si decidono le sorti dei giusti, poiché i santi parteciperanno al giudizio degli empi. Ciò costituirà una garanzia per il futuro. Nessuna domanda sorgerà o potrà mai sorgere nella mente di nessuno perché Dio ha dato la possibilità che tutto fosse chiaramente dimostrato.
I mille anni
I mille anni sono un periodo di tempo per il giudizio. “Poi vidi dei troni, e a quelli che vi sedettero fu dato la potestà di giudicare… e regnarono con Cristo per mille anni” {Apocalisse 20: 4}. Durante questo periodo gli angeli avranno l’opportunità di conoscere meglio coloro che saranno eredi della salvezza. Opereremo con loro nel giudizio, che riguarderà sia gli uomini che gli angeli. Come il giudizio investigativo che riguardava i giusti è avvenuto nel poco tempo che precede la venuta del Signore, così i mille anni sono il corrispettivo giudizio investigativo che riguarda i malvagi. Il loro destino è già stato deciso, ma altre considerazioni hanno reso necessario un simile giudizio. Sia gli uomini che gli angeli hanno creature simili a loro che si perderanno e a cui sono interessati. Dio vuole salvaguardare tutti gli interessi in modo che il peccato non sorga una seconda volta. Gli angeli non parteciperanno forse anche all’esecuzione del giudizio? {Apocalisse 20: 1-3; Apocalisse 18: 21; Ezechiele 9: 1-11}. Alla fine daranno la loro testimonianza sulla giustizia delle decisioni prese {Apocalisse 16: 5-7}. Possono farlo solo perché conoscono tutti i fattori coinvolti.
“Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa” {Giovanni 3: 35}. Potremmo non essere sicuri del motivo per cui il Padre ha dato tutte le cose nelle mani del Figlio, ma l’affermazione ricorre così tante volte che è chiaro che Dio vuole che lo sappiamo. Oltre alla dichiarazione sopra citata, nota quanto segue: “Tu gli hai posto tutte le cose sotto i piedi” {Ebrei 2: 8}. “Ogni cosa mi è stata data in mano dal Padre mio” {Matteo 11: 27; Luca 10: 22}. “Tu gli hai dato potere sopra ogni carne” {Giovanni 17: 2}. Questo potere include anche il giudicare. “Poiché il Padre non giudica nessuno, ma ha dato tutto il giudizio al Figlio” {Giovanni 5: 22}. Cristo “è colui che Dio ha costituito giudice dei vivi e dei morti” {Atti 10: 42}. Dio “ha stabilito un giorno in cui giudicherà il mondo con giustizia, per mezzo di quell’uomo che egli ha stabilito” {Atti 17: 31}. Ciò include l’esecuzione del giudizio, poiché il Padre “gli ha anche dato l’autorità di giudicare, perché è il Figlio dell’uomo” {Giovanni 5: 27}. Questa concessione dell’autorità al Figlio può essere riassunta nell’ampia dichiarazione di Cristo stesso: “Ogni potestà mi è stata data in cielo e sulla terra” {Matteo 28: 18}. Questo non lascia dubbi sulla portata del potere che Gli è stato dato, che si estende non solo sulla terra ma anche in cielo. Queste affermazioni diventano interessanti vista la loro formulazione. Il Padre era in possesso di tutti questi poteri, ma per qualche ragione li ha lasciati in eredità al Figlio. Nota come Dio ha “dato”, “assegnato”, “concesso”, “costituito” Suo Figlio. Tutto ciò che il Padre aveva lo diede al Figlio. Dio in un certo momento nel passato ha messo tutte le cose sotto l’autorità di Cristo, Gli ha detto di regnare, di eseguire il giudizio e Gli ha dato ogni potere in cielo e in terra.
L’intera controversia rivela un tratto del carattere di Dio che è molto confortante. Dio avrebbe potuto trattare i ribelli in modo diverso. Non avrebbe avuto bisogno di prestare attenzione alle accuse mosse contro di Lui da Satana. Ma ha presentato il suo caso per essere deciso sulla base delle prove presentate. Poteva permettersi di aspettare e lasciare che gli esseri creati decidessero da soli. Sapeva che il Suo caso era giusto e che poteva superare una meticolosa indagine. Dio è sempre stato leale e giusto sotto tutti gli aspetti.
Questo ci dà motivo di credere che il giudizio futuro sarà condotto secondo delle linee che saranno all’altezza delle più alte concezioni di giustizia e diritto, per non dire di misericordia. Dio non è vendicativo. Non sta aspettando un’opportunità per “vendicarsi”. Egli vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano al pentimento. Non si compiace della morte degli empi.
Ci sono alcune cose, tuttavia, che Dio non può fare. Sarebbe felice di salvare tutti, ma non sarebbe buona cosa farlo. Per ciò esistono diverse ragioni. Molti non desiderano essere salvati in base alle condizioni che da sole possono garantire la vita. Le regole che Dio ha stabilito per la nostra guida sono regole in funzione della vita e non decreti arbitrari. La società non può esistere, né qui né in paradiso, se gli uomini non smettono di uccidersi a vicenda. Sembra così evidente che nessuno tenterà di contestarlo. L’uccisione ha la sua radice nell’odio. Non sarebbe sicuro permettere a chi odia suo fratello, o che odia qualcuno, di vivere in cielo con altri. Aspettarsi pace e armonia in tali condizioni sarebbe follia. Gli uomini hanno ampiamente dimostrato che l’odio porta all’omicidio. Questo non ha bisogno di ulteriori dimostrazioni. Poiché Dio desidera un paradiso pacifico, deve escludere gli assassini. Ciò significa che deve escludere tutti coloro che odiano.
Ma questo implica un significato ancora più profondo. L’amore è l’unico antidoto efficace contro l’odio. Solo chi ama è al sicuro. L’assenza di amore significa, prima o poi, odio. Quindi, l’amore diventa una delle leggi della vita. Solo chi ama obbedisce alla legge; solo tale persona ha il diritto di vivere. Tale diritto non dovrebbe essere messo a repentaglio permettendo all’odio di fiorire. Coloro che nutrono l’odio nella loro vita, violano la legge della vita. Non sarebbe sicuro salvarli, anche se volessero essere salvati. In cielo non ci devono essere assassini, né trasgressori del comandamento che dice: “Non ucciderai”. La stessa argomentazione vale per tutti gli altri comandamenti.
Quando Dio permette agli uomini e agli angeli di sedere in giudizio, questo è necessario per il bene futuro. Ma c’è di più, quando le regole, i principi, le leggi che governano gli uomini e gli angeli, vengono esaminati, in un certo senso è Dio che viene giudicato. “Non sia mai; anzi, sia Dio verace e ogni uomo bugiardo, come sta scritto: «Affinché tu sia giustificato nelle tue parole e vinca quando sei giudicato»” {Romani 3: 4}.
Alla luce di queste affermazioni assume un significato aggiunto il fatto che uomini e angeli al termine della controversia esprimeranno la loro fede nella giustizia di Dio. La grande domanda è sempre stata: “Dio è giusto o le accuse di Satana sono vere?”. Al termine della controversia l’angelo delle acque dirà: “Tu sei giusto, o Signore” {Apocalisse 16: 5}. Un altro angelo dirà: “«Sí, o Signore, Dio onnipotente, i tuoi giudizi sono veraci e giusti»” {Apocalisse 16: 7}. “Dopo queste cose udii nel cielo una gran voce di una grande moltitudine, che diceva: «Alleluia! La salvezza, la gloria, l’onore e la potenza appartengono al Signore nostro Dio, poiché veraci e giusti sono i suoi giudizi…»” {Apocalisse 19: 1-2}. Coloro che hanno vinto la bestia e l’immagine diranno: “Grandi e meravigliose sono le tue opere, o Signore, Dio onnipotente; giuste e veraci sono le tue vie, o Re delle nazioni” {Apocalisse 15: 3}. E mentre Dio riprende il trono, “una grande moltitudine, simile al fragore di molte acque e come il rumore di forti tuoni” che dirà: “Alleluia, perché il Signore nostro Dio, l’Onnipotente, ha iniziato a regnare” {Apocalisse 19: 6}. Ma Dio non regnerà da solo. Quando “I regni del mondo sono divenuti il regno del Signor nostro e del suo Cristo, ed egli regnerà nei secoli dei secoli” {Apocalisse 11: 15}, quando l’accusatore sarà finalmente sconfitto, allora sarà eretto il trono di Dio e dell’Agnello, come glorioso compimento della nostra speranza! {Apocalisse 12: 10; Apocalisse 22: 5}.
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